MAZZUCCHELLI, Pier Francesco detto il Morazzone
– Figlio di Cesare di Mazuchi del Tachino e di Ermelina da Fagnano, nacque a Morazzone, presso Varese, il 29 luglio 1573 (Stoppa, pp. 19, 285).
Quando era ancora bambino la sua famiglia si trasferì a Roma: infatti il nome del M. ricorre in un documento del 1593, dal quale si deduce che egli viveva a Roma, nella via dei Bergamaschi (ibid., p. 285). Il soggiorno romano, attestato anche dalla fonti più antiche come Borsieri (p. 64) e Baglione (p. 185), fu determinante per la formazione artistica del Mazzucchelli.
Roma stava infatti vivendo in quegli anni un frenetico rinnovamento architettonico e decorativo: tra i due giubilei straordinari del 1585 e del 1590 presero avvio i lavori voluti da Sisto V. Rinnovando il volto della città si voleva mostrare al mondo la rinascita morale e culturale della Chiesa romana dopo la conclusione del concilio di Trento. Fu dunque in questo contesto vivace e internazionale che il M. fece i primi passi nel campo della pittura: suo maestro fu Ventura Salimbeni, tardo esponente del manierismo senese, che aveva però modificato il suo stile confrontandosi prima con gli Zuccari, poi con i maestri decoratori radunati intorno a Giovanni Guerra e Cesare Nebbia.
Le opere romane del M., in gran parte perdute, sono ricordate da Giovanni Baglione: egli avrebbe lavorato nella chiesa di Maria Maddalena al Corso, in S. Silvestro in Capite, nel cortile di S. Giovanni in Laterano e nella sacrestia di S. Pietro in Vaticano. Di tutto ciò rimangono solo gli affreschi nella cappella della Concezione di S. Silvestro, raffiguranti la Visitazione e l’Adorazione dei magi, eseguiti entro il 1596 per Antonio Maria Manzoli, vescovo di Gravina.
Sono opere molto legate al manierismo di Salimbeni e del Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari), ridondanti nell’uso di forme contorte e serpentinate, aggiornate nella scelta di colori striduli e contrastati; tuttavia la citazione del Federico Barocci della Vallicella nell’affresco della Visitazione rivela uno spirito curioso e attento alle novità migliori della scena romana.
Dal settembre 1598 il M. è documentato a Varese.
L’improvviso allontanamento da Roma è spiegato dalle fonti antiche con un litigio per questioni di donne che lo avrebbe messo in pericolo di vita; la notizia non è confermata dai documenti; ma è certo che egli fosse rimasto implicato in un processo per il ferimento di tale Alessandro del Rio (Stoppa, pp. 21, 24 s.). Fatto sta che da quell’anno il pittore scompare da Roma e la sua futura carriera rimarrà legata quasi per intero al territorio lombardo.
Appena tornato a Varese il M., che evidentemente si era già guadagnato una buona fama, fu chiamato ad affrescare la volta della cappella del Rosario nella chiesa di S. Vittore (1598-99): gli Angeli musicanti e l’Incoronazione della Vergine sono molto vicini al manierismo clementino; mentre l’impaccio di alcune parti del disegno e la grossolanità della resa pittorica denunciano una mano ancora acerba e scolastica.
Il 13 nov. 1598 il M. si sposò con Anna Castiglioni, da cui ebbe otto figli (ibid., p. 284). La moglie, che morì di parto nel 1621, apparteneva a una delle famiglie più in vista di Morazzone; e ciò contribuì senza dubbio all’ascesa sociale del pittore e al suo immediato inserimento nella scena artistica milanese, che in quel giro di anni era rimasta folgorata dalla comparsa di due giovani astri: Giulio Cesare Procaccini e Giovan Battista Crespi detto il Cerano. Già nel 1602 il M. fu chiamato, insieme proprio con Procaccini e con il Cerano, a partecipare alla realizzazione dei quadroni con storie della vita di Carlo Borromeo, destinati al duomo di Milano. Al M. sono attribuite, anche se non ci sono riscontri documentari, le tele che raffigurano Carlo Borromeo che rinuncia ai benefici ecclesiastici e Carlo Borromeo che incontra Emanuele Filiberto di Savoia, forse realizzata in collaborazione con il Duchino (Paolo Camillo Landriani).
Nell’agosto dello stesso anno il M. firmò il contratto per la cappella dell’Andata al Calvario del Sacro Monte di Varallo (ibid., p. 287).
Nel documento si legge che il committente, il vescovo Carlo Bascapè, pretendeva esplicitamente che il pittore imitasse il più possibile la decorazione della cappella del Monte Calvario, affrescata nel 1528 da Gaudenzio Ferrari. Nella cappella, i cui lavori terminarono nel 1607, il M. immagina una schiera di spettatori che si accalca intorno alla scena della salita al Calvario, che prende vita nelle quasi cinquanta statue realizzate da Jean Wespin detto il Tabaguet (Tabacchetti); in alto, nel cielo, gli angeli sorreggono quadri con storie veterotestamentarie (come il Re Abimelech e Abramo e Isacco), lette come prefigurazioni del sacrificio di Cristo. L’obbligo contrattuale di prendere a modello Ferrari spiega la scelta stilistica arcaicizzante di questi affreschi, scelta che però fu di cruciale importanza per il rinnovamento della sua maniera pittorica: infatti, solo ritornando alla radice della cultura figurativa lombarda (Ferrari e i Campi su tutti), il M. poteva abbandonare quanto di eccessivo e di retorico aveva appreso dalla formazione romana e avviarsi su quel-
la strada del realismo drammatico e popolare che lo avrebbe messo in sintonia con le direttive iconografiche della riforma borromaica e con le esigenze devozionali dei Sacri Monti.
Intorno al 1603 il M. ricevette un’altra prestigiosa commissione: la decorazione ad affreschi e dipinti dell’abside della collegiata di Arona, chiesa di battesimo di Carlo Borromeo (ibid., pp. 181-183).
Le scene mariane delle sei tele, la cui collocazione originaria è stata manomessa nel corso dell’Ottocento (si trovano ora nelle cappelle della collegiata), si distinguono per l’ambientazione notturna e gli effetti di lume artificiale che sembrano echeggiare le ricerche dei manieristi del Nord (Bartholomeus Spranger) e quelle dei manieristi del Sud (Cavalier d’Arpino).
Nel 1605 fu ricompensato per una tela raffigurante la Pentecoste, in origine collocata sul soffitto della sala delle congregazioni del Tribunale di provvisione di Milano, ora nel Museo d’arte antica del Castello Sforzesco.
La tela, che forse fu completata solo dieci anni dopo, riprende il tema mantegnesco e correggesco della visione celeste, con figure che si affacciano ai lati e un vortice di luce al centro, tema ripreso da Giulio Campi nella Pentecoste di S. Sigismondo a Cremona; ma il M. non riesce a sollevarsi dal confronto con il passato e finisce per essere ingenuo nella resa degli scorci.
Tre anni più tardi, nel 1608, il M. ebbe il primo contatto con la corte sabauda, per la quale fu attivo a più riprese negli anni successivi. Carlo Emanuele I lo chiamò infatti a partecipare alla decorazione degli apparati per le nozze di Margherita e Isabella di Savoia rispettivamente con i duchi di Mantova e di Modena. In questa occasione dipinse la tela raffigurante il Marchesato di Susa (Torino, Galleria Sabauda).
Allo scadere del primo decennio del Seicento si avvia il periodo più fecondo della carriera del Mazzucchelli. Tra il 1608 e il 1613 egli fu infatti attivo in diversi importanti cantieri: a Como per il Gonfalone di s. Abbondio in duomo (1608), a Varese per la cappella della Flagellazione del Sacro Monte (1608-09) e per la Maddalena di S. Vittore (1611), a Varallo per la cappella dell’Ecce Homo (1610) e poi per quella della Condanna, il cui contratto venne stipulato nel novembre del 1610, a Milano per l’Adorazione dei magi di S. Antonio Abate (1610 circa).
In tutte queste opere il M. sviluppò pienamente il suo stile eclettico, in cui gli influssi del manierismo tosco-romano si sovrapponevano alla base locale trasmessa da Ferrari e alle suggestioni dei maestri veneti, come il Pordenone (Giovanni Antonio de Sacchis), o emiliani, come Pellegrino Tibaldi: ne scaturì un linguaggio dai colori forti e dalle espressioni accentuate, le posture ritorte e le anatomie evidenti, tuttavia non confuso, bensì chiaro e diretto nel trasmettere il messaggio religioso. Era un linguaggio che si adeguava perfettamente alla lettura della devozione popolare che la tradizione aveva trasmesso e riassunto nelle chiese per i pellegrinaggi dei Sacri Monti. Qui lo spirito ingenuo e teatrale dei miracoli medievali si sposava con la pietà drammatica e intimistica sollecitata da Carlo Borromeo. Ciò è evidente nelle decorazioni dei Sacri Monti di Varese e Varallo. Nel primo, la sequenza dei quadri del M. (Cristo davanti a Caifa, Pilato presenta al popolo Cristo e Barabba, Gesù spogliato e trascinato verso la flagellazione) funziona «come tragico flash-back» per lo spettatore che guardi intimorito e devoto le statue di Martino Retti con la scena della flagellazione (ibid., p. 52). Ancor più riuscito è l’impianto scenico della cappella dell’Ecce Homo a Varallo, con il palazzo del pretorio assiepato da figure variamente atteggiate e la luce contrastata che unifica gli episodi: si avvia così un nuovo stringente rapporto tra l’architettura, la scena e le figure plastiche, realizzate qui da Giovanni D’Enrico, che avrà grande fortuna nel corso del Seicento.
Di pari successo fu il lavoro per il duomo di Como: i disegni preparatori per il Gonfalone di s. Abbondio, eseguiti per la Compagnia del Ss. Sacramento sotto il patrocinio del vescovo Quintilio Lucini Passalacqua, aprirono al M. le porte per una breve ma intensa attività nel territorio lariano.
Appartengono a questo contesto la tela con la Carità, nella omonima chiesa di Como, eseguita per Giovan Pietro Odescalchi (1608-10); le Stimmate di s. Francesco e Caino uccide Abele, due tele conservate nella sacrestia dei mansionari di Como, ma in origine nella villa dell’abate Marco Gallio in Borgo Vico (1609-10); le quattro tele con Storie di Maria per la cappella della Cintura in S. Agostino, sempre a Como (1612), commissionate dalla Compagnia dei Cinturati grazie all’intermediazione di Giovanni Battista Borsieri, miniatore e collezionista di opere d’arte; da ultimo, la decorazione dello scrittoio del vescovo Lucini Passalacqua con cinque deliziosi quadretti dipinti a olio su rame (1613), in cui i soggetti biblici sono usati come allegorie dei cinque sensi: La moglie di Lot tramutata in sale per la vista, La cacciata dal paradiso terrestre per il gusto, La morte di Oza per aver toccato l’arca santa con mani impure per il tatto, Saul si uccide per aver dato ascolto alla pitonessa per l’udito, Dio ricusa di ascoltare i giovani che hanno irriverentemente odorato fiori davanti all’altare per l’olfatto.
Nel 1614 il M. diede avvio alla decorazione della cappella di S. Giorgio nel santuario di Rho, completata due anni dopo.
Gli affreschi raffigurano le Storie di s. Giorgio e coprono per intero le pareti e la volta della cappella: i colori sono chiari e luminosi, le figure contorte in pose e scorci di derivazione ancora manieristica, mentre la presenza di animali ritratti con fresca immediatezza si ricollega all’eredità di Iacopo Bassano (Iacopo Dal Ponte).
L’attività del M. per i Sacri Monti continuò a Varallo, nella cappella della Condanna di Cristo, dove egli è documentato dal 1610 al 1616 (ibid., pp. 225 s.).
La decorazione ad affresco è un’ulteriore variazione melodrammatica sui temi cristiani del dolore e del sacrificio, culminante nella scena visionaria della calotta: qui il pittore immagina un Cristo imberbe che si affaccia dalla finta balaustra aperta a strapiombo sul presbiterio, mentre nel cielo compaiono, quasi minacciosi, gli angeli che gli mostrano gli strumenti della prossima Passione. Nonostante il grande impatto emotivo dell’invenzione, fu proprio questo lavoro a segnare l’incrinarsi e poi la fine dei rapporti tra il pittore e il Sacro Monte di Varallo: infatti, una serie di lettere del 1616 documenta una controversia per la stima della cappella tra il pittore e i Fabbricieri, che in seguito preferirono rivolgersi al giovane Tanzio da Varallo (ibid., pp. 291-293).
Sempre nel secondo decennio, tra il 1612 e il 1620, il M. fu attivo a più riprese nella collegiata di S. Bartolomeo di Borgomanero, nelle cappelle di S. Rocco e di S. Carlo.
Nella prima si fa evidente la citazione dei quadroni carliani del Cerano, in particolare per la figura di s. Rocco che si staglia davanti alle capanne degli appestati. Nella seconda colpisce soprattutto la tela che raffigura S. Carlo in gloria (1616), in cui il santo ha un viso smunto che rivaleggia con quelli ascetici di Tanzio; ma la scena è poi accesa dallo straordinario piviale color oro che assorbe e riflette la luce divina che scende dall’alto. Tra i riquadri ad affresco spiccano le scene con la Nascita del santo e l’Ultima orazione, organizzate sapientemente come scenografie teatrali.
Nella primavera del 1616 il M. stipulò il contratto per gli affreschi dell’undicesima cappella del francescano Sacro Monte di Orta, dedicata all’istituzione della Porziuncola, impresa finanziata da Giovanni Antonio Martelli, ricco notabile di Miasino, che era in stretti rapporti con il vescovo Carlo Bascapè.
Il ciclo di dipinti, terminato nel 1617, presenta una complessa iconografia, in cui figure di Virtù si affiancano ad altre allegorie sacre, non sempre di facile interpretazione; nello stile cominciano a farsi insistenti i riferimenti alla tradizione decorativa del Cinquecento lombardo e veneto, soprattutto al Pordenone e al Veronese (Paolo Caliari), richiamati per gli scorci, le prospettive e la tavolozza brillante.
Dopo l’ultimo intervento a Varallo e l’inizio dei lavori di Orta, il M. tornò nel luogo del suo esordio lombardo, la cappella del Rosario in S. Vittore a Varese.
È comunque evidente che la quasi contemporaneità degli interventi del M. a Varallo, Orta, Borgomanero, Rho e Varese si può spiegare solo con la pratica di una bottega capace di rispondere a più committenze contemporaneamente, in virtù di una divisione efficace del lavoro e di una pratica realizzativa veloce, anche se non sempre puntuale, come documentano le prime critiche dei committenti. Gli affreschi della cappella del Rosario, i cui lavori si protrassero per tutto il 1617, raffigurano le Storie di Maria, disposte sulle pareti intorno all’immagine miracolosa della Vergine, affrescata nel XV secolo. Per la stessa cappella dipinse inoltre i Misteri del Rosario, dodici tondi e tre ovati dipinti a olio su rame con leggerezza di tocco e lumi lampeggianti che evocano le invenzioni di Lelio Orsi. A ridosso di quest’impresa è possibile inserire la tela con la Strage degli innocenti del Museo diocesano di Milano (dopo il 1616): la composizione si articola in maniera drammatica sui corpi incrociati delle madri e dei carnefici in lotta ed è accompagnata da tagli di luce radente, di una violenza quasi caravaggesca, che permettono di far emergere dalla penombra i volti dei protagonisti, quelli impassibili dei soldati e quelli urlanti, disperati, delle donne.
Nel 1617 gli venne saldata la Madonna del Rosario con il Bambino, s. Domenico, s. Caterina da Siena e tre angioletti, una tela collocata nel settimo altare a sinistra della certosa di Pavia.
Il dipinto, di cui si conosce il bozzetto preparatorio (Milano, Brera), si articola entro uno stringente schema triangolare, quasi neorinascimentale nel suo rigore formale; ma le figure sono raggelate in espressioni enfatiche di estasi e di pietà e il tono generale è cupo, doloroso, con colori scuri improvvisamente sbiancati dalla luce divina. Questa linea viene perseguita dal M. anche nelle altre opere realizzate sullo scorcio di fine decennio; per esempio negli affreschi della chiesa di Sant’Ambrogio Olona, antica parrocchiale presso Varese sulla strada che porta al Sacro Monte, che furono iniziati nel giugno del 1617, grazie a un finanziamento di Angelo Tovagliati. Gli affreschi, in pessime condizioni di conservazione, replicano il tema decorativo della cappella del Rosario, con angeli musicanti nella volta e simboli mariani nell’intradosso dell’arcone, ordinati però all’interno di un articolato apparato in stucco.
Intorno al 1617 o poco oltre si deve collocare anche il celebre «quadro delle tre mani», raffigurante il Martirio delle sante Rufina e Seconda, oggi conservato nella Pinacoteca di Brera.
Al M. spetterebbe la parte centrale, con il carnefice che brandisce la spada, il paggetto e l’angelo che reca la palma; a Procaccini la s. Rufina in primo piano sulla destra, confortata dall’angelo; al Cerano il cavaliere sullo sfondo, s. Seconda decapitata e l’angelo con il cane in basso a sinistra. La distinzione dei rispettivi interventi sembra mirata a far esibire ai singoli artisti le loro specificità: il M. mostra contorsioni drammatiche e anatomie muscolose, riverberate da forti contrasti di luce; Procaccini figure dallo stile prezioso colte in atteggiamenti sentimentali di una pietà quasi bigotta; infine il Cerano animali e soggetti macabri. In questo quadro «cumulativo», come lo definì Roberto Longhi (1962, p. XIX), il brano centrale, quello del M., è il più dinamico, quasi una scena di combattimento, in cui la violenza dei gesti è appena compensata dalla bellezza classica dei corpi e dei volti.
Queste opere assicurano che alla fine del secondo decennio la fama del M. fosse ormai riconosciuta al di fuori dei confini dei Sacri Monti, cosa che viene ribadita da alcune preziose testimonianze letterarie.
Nel 1619, infatti, il suo nome compare nel Supplemento alla nobiltà di Milano di Girolamo Borsieri; e nel 1620 Giovan Battista Marino inserisce due sue opere nella Galeria (Venezia 1620); ma lo stesso Marino già nel Tempio: panegirico di Maria de’ Medici (Lione 1615) aveva definito il M. «immortale, Apelle Insubro» (p. 105).
Tuttavia, proprio nel momento di massimo successo pubblico il M. mostrò segni di cedimento, almeno nell’organizzazione del lavoro, o perché il suo astro cominciava a essere seriamente oscurato da quello di Tanzio da Varallo, o perché era gravato dalla malattia che lo avrebbe portato alla morte. Poche sono comunque le opere che possiamo ricordare dopo il 1617.
A Como, nel 1618, realizzò due stendardi processionali, uno per la Confraternita di S. Antonio, l’altro per la Compagnia dell’Immacolata Concezione, entrambi perduti. Nel marzo dello stesso anno fu contattato da fra Stefano Palma per dipingere il coro di S. Domenico a Genova, opera che non fu mai iniziata (Stoppa, p. 283).
Due anni dopo, nel 1620, come recita l’iscrizione posta sul pilastro dell’arco trionfale, furono completati i lavori nella cappella della Buona Morte in S. Gaudenzio a Novara. È l’ultimo grande ciclo decorativo del M., ritenuto da Giovanni Testori «uno dei raggiungimenti più sconcertanti, inauditi e propulsori» (1959).
Gli affreschi, che ricoprono interamente la cappella, sviluppano il tema cristiano del Memento mori, con personaggi ed episodi connessi alla morte: l’inedita iconografia è riconducibile alla tradizione popolare della danza macabra, corretta in chiave postridentina con l’ausilio di citazioni bibliche, come il Giuda Maccabeo, Noemi, naturalmente Ezechiele, e con la presenza di santi dell’era volgare, come Gregorio Magno e Odilone; il percorso si conclude coerentemente nella spettacolare, convulsa, rosseggiante scena del Giudizio universale, forse ispirata alla Caduta degli angeli ribelli del Cavalier d’Arpino, la cui presenza si giustifica perché è l’estrema e ineluttabile ammonizione contro i danni di un cattivo trapasso.
Nel 1622 il M. fu richiamato dal duca di Savoia, Carlo Emanuele I, per lavori da eseguire nel castello di Rivoli, che gli furono pagati nel giugno dello stesso anno (Stoppa, p. 296); le pitture sono purtroppo andate perdute nel 1691 a causa dell’incendio del castello. Alla stessa committenza si può ricondurre la Madonna del Miele (1622 circa), una tela conservata nella Galleria Sabauda di Torino.
La fortunata composizione, più volte replicata, mostra la Sacra Famiglia che riceve da un angelo un piatto con burro e miele, in ricordo della profezia sull’incarnazione che si legge nel libro di Isaia (7, 14-15), profezia che ben si adattava a figurare il potere di Carlo Emanuele.
Nel 1623 è ricordato un soggiorno del M. a Mantova presso il duca Ferdinando Gonzaga, soggiorno che rimase però infecondo.
In una lettera del 29 marzo 1623 alla corte mantovana, infatti, il M. si giustificava di non aver potuto dipingere il quadro commissionatogli, le Nozze di Cana, perché dal settembre dell’anno precedente era stato continuamente indisposto (ibid.).
Sempre nel 1623 il M. fu chiamato a Piacenza, forse dal vescovo Giovanni Linati, per affrescare la cupola del duomo, lavoro che egli dovette iniziare immediatamente. Tuttavia, riuscì a eseguire solamente i pennacchi con i profeti Davide e Isaia, che sono anche la sua ultima testimonianza pittorica, perché il resto della decorazione fu eseguito dal Guercino (Giovanni Francesco Barbieri). Difatti il Guercino il 12 maggio 1626 venne chiamato dai Fabbricieri del duomo per subentrare al M., defunto (ibid., p. 284). Proprio tale sostituzione in corso d’opera induce a credere che il M. fosse scomparso all’inizio del 1626 o poco prima, non si sa se a Piacenza o nella sua città natale, come crede Baglione (p. 186).
Notevole è il corpus dei disegni del M.: eseguiti con tecniche diverse (matita nera, carboncino, gessetto, penna, spesso arricchiti da tocchi di biacca e acquerello, su carte preparate) sono una preziosa testimonianza della versatilità del pittore, capace di passare con disinvoltura dalla fascinazione per il tardo manierismo all’imitazione delle figure realistiche e drammatiche del Cerano (Stoppa, pp. 262-266). Tra i suoi allievi diretti meritano menzione Isidoro Bianchi, che lavorò per la corte dei Savoia a Torino, e Antonio Mondino, inventore di singolari fisionomie come quella della Madonna in gloria del palazzo comunale di Varese; ma la fortuna del linguaggio morazzoniano va estesa in un giro molto più ampio, di artisti e di luoghi, perché divenne gusto comune di un intero territorio, tanto che, per dirla con Testori, «non esiste borgo del Comasco, del Varesotto, e del Novarese che, a suo modo, non possegga qualcosa che non sappia o non senta di Morazzone» (1955, p. 28).
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