meare
Nei tre luoghi del Paradiso in cui ricorre, sempre in rima, il verbo conserva il significato fondamentale del latino meare, " passare ", che nel contesto si precisa in quello di " derivare " o - costruito con ‛ per ' - di " penetrare ", " passare attraverso ", detto di un raggio di sol, che puro mei / per fratta nube (XXIII 79).
Senza sostanziali differenze le varie interpretazioni del passo di XV 55 Tu credi che a me tuo pensier mei / da quel ch'è primo, " idest, fluat ad me " (Benvenuto), " venga chiaro " (Tommaseo), " venga, derivi " (Scartazzini-Vandelli; più puntuale l'Ottimo: i pensieri " entrino e faccinsi miei ").
Per l'altra occorrenza - quella viva luce che sì mea / dal suo lucente (XIII 55), con riferimento al Figlio e al Padre -, osserva il Petrocchi (ad l.) che sì mea " non crea dubbi sol che si adducano gli altri due esempi del latinismo meare... La lettura si mea con si mediale, come in varie edizioni precedenti la '21, è smentita, oltre al resto, dai codici che hanno il raddoppiamento fonosintattico... (per s'inea cfr. il Viviani a proposito di Bart. [cioè il codice 50 della biblioteca Arcivescovile e Bartoliniana di Udine], che però legge simea: il verbo è arditamente spiegato come ‛ farsi una ') ". Tale ‛ ardita ' spiegazione era già in Benvenuto (" idest, quae unitur et fit ea "), che tuttavia leggeva sì mea, a quanto risulta dall'edizione del suo commento a cura del Lacaita (Firenze 1887); l'Ottimo leggeva sì mea, chiosando: " Cioè che s'indea nel Padre, cioè ch'è uno Iddio col padre ". Gli altri, anche fra i moderni, seguono sostanzialmente il Buti: " cioè per sì fatto modo si deriva per generazione ".