Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una parte non secondaria della filosofia francese del Settecento si sviluppa sulle grandi linee del “paradigma cartesiano” di scienza della natura, affermatosi nella seconda metà del secolo precedente. Le obiezioni mosse al meccanicismo di Descartes – critica del dualismo, rigetto delle idee innate, modello inadeguato di “macchina” ecc. – vanno a convergere con l’affermazione del newtonianesimo, della filosofia di Locke e di un nuovo meccanismo dell’azione a distanza, con annessa nozione di “forza attrattiva”. Il materialismo e la gnoseologia sensista nascono da questa singolare convergenza del monismo dei cartesiani eterodossi (Spinoza, Regius, Meslier) e del newtonianismo esteso alle scienze della vita, come filosofia della sensibilità (Condillac, La Mettrie, Diderot, d’Holbach e Helvétius).
Le vicende del meccanicismo e del cartesianesimo all’alba dell’Illuminismo
Agli inizi del Settecento, nell’ambito delle scienze mediche e fisiche, ogni dottrina che si rispetti è fondata sul meccanismo e sul connesso modello di macchina, semplice o complessa. Le opere di riferimento che hanno fatto scuola sono la Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus (1628) di William Harvey, in cui si dà conto della scoperta della circolazione sanguigna, il Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo (1632) e i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638) di Galileo Galilei, e il Traité de l’Homme (1648) di René Descartes. A questi tre autori si deve far riferimento per inquadrare il problema del meccanicismo all’alba dell’età illuministica. Per “meccanismo” si deve intendere lo studio della natura – e dell’uomo fisico, in quanto parte di essa – sulla base dell’analisi delle sole “cause efficienti”, i cui effetti possono essere misurati nei termini di quantità, trascurando ogni discorso (retorico, perché non quantificabile) sulle altre tre “cause” della tradizione aristotelica: materiali, formali e finali. Tra Sei e Settecento, dopo la morte di Descartes, gli scienziati volgono la loro attenzione alla nuova metodologia sperimentale, legata al cosiddetto paradigma cartesiano, e studiano la formazione meccanica del pulcino nell’uovo, il movimento meccanico degli arti, il moto meccanico dei liquidi nei corpi animali e nell’uomo, l’orbita meccanica dei pianeti intorno al Sole ecc. Tanto numerose diventano le pubblicazioni di tal sorta che il “Journal des Sçavants”, nel 1700, all’annuncio dell’uscita dell’ennesimo trattato di medicina meccanica, esprime tutta la sua stanchezza. Ogni ragionamento che voglia presentarsi con il crisma della scientificità, alle soglie del nuovo secolo, deve dunque essere di tipo meccanicistico. È il meccanismo degli attriti, ossia della comunicazione del moto per contatto, il meccanismo delle leve e delle pulegge, dei canali rigidi, sottoponibile al calcolo matematico. È il “metodo geometrico” di Descartes che s’afferma con la sua metafisica delle idee innate (Dio, cogito, infinito ecc.) e il dualismo, ossia la divisione della “cosa estesa” (res extensa), la materia, dalla “cosa pensante” (res cogitans), lo spirito. Senza tale metodo la mente umana cadrebbe nella notte del dubbio e nell’inganno dei sensi.
Nel 1687, tuttavia, esce a Londra un trattato, anch’esso di tipo meccanicistico ma dal contenuto rivoluzionario: Philosophiae naturalis principia mathematica. L’autore è un geniale “geometra” trentacinquenne, nato l’anno stesso della morte di Galilei, Isaac Newton. Il contenuto dell’opera è di ardua comprensione al punto che, nella prima metà del Settecento, si contano ancora sulla punta delle dita i lettori che ne comprendono appieno il significato teorico. L’impatto sulla comunità scientifica e filosofica europea è comunque grande e il dibattito presto si accende. La novità proposta da Newton – il quale si attiene anch’egli al metodo geometrico oramai affermato – è l’introduzione del concetto di attractio o, meglio, di actio in distans, per dar conto dei fenomeni di meccanica celeste, di dinamica delle influenze interplanetarie e di caduta dei gravi. I corpi cadono o gravitano, gli uni verso gli altri, in quanto “attratti” secondo una forza che è direttamente proporzionale alla massa e inversamente proporzionale al quadrato delle velocità. Newton non chiarisce però né la natura, né l’origine (Dio?) di tale “forza”; ne postula l’esistenza per spiegare, tramite complessi calcoli di meccanica e di matematica infinitesimale – il cosiddetto “calcolo delle flussioni” –, l’accadere dei fenomeni fisici. Tre anni dopo John Locke scrive il Saggio sull’intelletto umano (1690), in cui si propone di trarre le conseguenze filosofiche dall’opera scientifica dell’amico, sul terreno della metafisica. Come Newton ha indagato la fisica dei corpi, così Locke intende studiare la “fisica delle idee”, o scienza dell’origine delle nostre conoscenze dalla sensibilità, per mezzo del linguaggio. È una nuova metafisica empirista che s’afferma agli inizi del secolo XVIII. Il Saggio, presto tradotto in Francia da Pierre Coste (1705), contesta da cima a fondo la dottrina delle “idee innate” di Descartes e la sua metafisica dualista.
In Francia, nel frattempo, malgrado le iniziali opposizioni e censure, il paradigma cartesiano fondato sulla meccanica degli attriti e sul dualismo è ancora dominante. All’Académie des Sciences siede sul soglio più alto di “Segretario perpetuo” Bernard Le Bovier de Fontenelle, principale difensore delle idee di Descartes e suo dichiarato “allievo”, nella strenua difesa del primato dei moderni sugli antichi, nella celebre Querelle des anciens et des modernes. L’avvento della fisica di Newton coglie tutti impreparati. Non si sa bene cosa rispondere al complesso modello esplicativo basato sull’actio in distans di questo strano “moderno”. Le prime critiche contestano a Newton il fatto che la sua fisica reintrodurrebbe concetti arcaici, irrazionali e inintelligibili, come appunto l’attractio. L’accusa è quella di risuscitare le vecchie nozioni neoplatoniche e aristoteliche di “natura plastica” o di “forma sostanziale”, ovvero l’idea che si diano spiriti agenti nella materia, contravvenendo ai requisiti del modello cartesiano dell’universo-macchina, di tipo dualistico, secondo cui la materia – pura estensione, soggetta alle leggi necessarie e deterministiche del moto – è rigorosamente separata dallo spirito o dall’idea, regno della volontà e della libertà. Ma il nuovo modello meccanicistico di Newton, come sostiene Locke, funziona, è atto cioè a spiegare meglio di ogni altro e, soprattutto, a predire meglio tanti fenomeni, anche nuovi, del mondo naturale.
In prima battuta, oltre alla meccanica celeste, sono le scienze della natura vivente a ricavarne il maggior profitto in termini di novità metodologiche. Il postulato del vuoto – nozione anche questa arcaica, propria della fisica democrito-epicurea, reintrodotta grazie alle esperienze di Pascal e Torricelli –, era rigettato da Descartes in nome di una fisica del “pieno” (horror vacui). Nel vuoto pascaliano-newtoniano, invece, è lecito concepire l’azione di “forze” che interagiscono fisicamente anche senza il diretto contatto. Tutto sta a chiarire di qual genere di “forze” si tratti. Così, il modello cartesiano di scienza della natura viene attaccato su due fronti. Da una parte, ci sono coloro che contestano a Descartes il dualismo. Tutto è uno, esiste una sola sostanza (monismo) che può essere ricondotta alle leggi della “cosa estesa”, anche i fenomeni che concernono l’anima, la mente, la libertà umana. È il caso dei primi discepoli eterodossi di Descartes stesso, come il medico Henry Regius, di Baruch Spinoza e di alcuni materialisti del primo Settecento, come Jean Meslier, il quale s’ispira alla lettura che dà Nicolas Malebranche della metafisica cartesiana. Da un’altra parte si fanno avanti coloro i quali, contestando ugualmente il dualismo, valorizzano la conoscenza sensibile e l’esperienza (Locke), facendo propria la nozione-chiave di “forza d’attrazione”, che viene talora intesa come “energia” o “forza vitale”. Questa nozione viene coniugata insieme a una metafisica monistica, alla maniera di Spinoza, ed estesa al mondo della natura vivente. La forza che regge e regola i fenomeni del mondo della vita è una forza fisica, sensibile, materiale, in cui “l’anima” non svolge alcun ruolo. Anzi, l’anima stessa, la mens e la ratio della tradizione metafisico-scolastica, sono essi stessi enti materiali e impregnati di sensibilità.
Di che genere di “materia” si sta parlando? Non è la semplice res extensa di Descartes, bensì un coacervo di particelle (particules), corpuscoli, atomi e molecole agenti grazie a una vis insita, una forza interna, la sensibilità, che non dipende da cause allogene o metafisiche (Dio). In taluni casi (Meslier) prende essa stessa le funzioni metafisiche di un dio, in quanto materia eterna, infinita, complessa e increata.
Il materialismo dei Lumi e il sensismo: una nuova antropologia
Ecco messo in crisi alla radice il principio del cartesianesimo e del meccanicismo classico del Seicento – il dualismo – e introdotte le prime nozioni-base del materialismo dell’età dei Lumi, che costituisce una nuova ontologia (dal greco to on, da einai: l’essere), ossia una diversa concezione della natura, dell’essere in generale e dell’essere umano in particolare. La natura – che costituisce tutto l’essere (monismo) – è una grande fucina di forza e di energia in perpetua trasformazione, che dà vita e distrugge tutti gli enti e tutte le forme, nel corso del tempo, secondo leggi deterministiche (“fatalismo” o necessitarismo) e secondo principi immanenti di ordine e di sviluppo. L’uomo, come insegna Spinoza, non è un regno a parte all’interno della natura (imperium in imperio), bensì una particella di essa in nulla diversa o privilegiata rispetto al resto degli esseri. Le prime formulazioni di questo materialismo prendono corpo in seno alle stesse correnti eterodosse del cartesianesimo, soprattutto nei “medici”, termine che al tempo indica gli studiosi dei fenomeni della generazione della vita, i “biologi”, diremmo oggi.
Il sensismo costituisce invece il lato gnoseologico – cioè relativo alla teoria della conoscenza – proprio della dottrina e dell’antropologia materialiste, anche se nel Settecento s’incontrano filosofie e gnoseologie di tipo sensistico senza annessa ontologia materialista. L’abate Étienne Bonnot de Condillac scrive un Trattato delle sensazioni (1754) ispirato a Locke, in cui, confutando la dottrina delle “idee innate” di Descartes, s’immagina la nascita della conoscenza nell’uomo a partire dal concerto delle sensazioni, attraverso la metafora pigmalionica della statua animata. L’uomo è come una statua che acquisisca progressivamente, un senso dopo l’altro, le proprie conoscenze del mondo, dai diversi ordini sensoriali, secondo una precisa gerarchia: prima il tatto (senso primario) poi la vista, l’udito, l’odorato e infine il gusto. Dall’insieme armonizzato delle sensazioni (donde il nome di sensismo o sensazionismo) s’ottiene quella “statua vivente” che è l’uomo in carne e ossa, con tutto il suo sapere e la sua ragione. Questo modo d’intendere la conoscenza e i suoi prodotti (le idee, i giudizi) ha inciso profondamente sullo sviluppo del pensiero materialista successivo (d’Holbach, Helvétius).
Un esponente di spicco del materialismo è Julien Offray de La Mettrie, autore del celebre L’uomo-macchina (1747). La Mettrie, nato a Saint-Malo, è un medico formatosi nella libera Olanda, alla scuola di un grande iatromeccanicista (“medico meccanico”), Hermann Boerhaave, di cui traduce le Istituzioni di medicina (1739-1740). Contrariamente a quanto potrebbe lasciar intendere il titolo provocatorio, L’uomo-macchina non è il solito trattato di “medicina meccanica” come se ne leggevano a dozzine. L’allusione va alla celebre teoria dell’animale-macchina di Descartes, che riteneva gli animali non dotati di anima – in quanto, nella dottrina cartesiana, l’anima è puro pensiero –, dunque essi sono macchine fisiche, non capaci di ragione o di linguaggio. La Mettrie vuol alludere alla controversa teoria cartesiana, per affermare che anche l’uomo è fatto tutto di materia e di corpo, come gli altri animali, non dotato cioè di un’anima immateriale, bensì impastato di sensibilità e di forze fisiche, attive e ricettive. È una “macchina”, sì, da intendersi però in modo diverso dal modello di macchina cartesiana (estesa, inerte): è una macchina sensibile. L’uomo, insegna Locke, non è dotato di “idee innate”, come pretendeva Descartes, bensì tutte le idee, semplici o complesse, hanno origine dai sensi e la nostra conoscenza del mondo è una conoscenza di tipo solo sensibile, anche quella che fa uso degli strumenti più astratti e razionali.
Al tema della sensibilità come forza o energia interna che regola i meccanismi dell’ente naturale uomo, ivi comprese la mente e la ragione, La Mettrie dedica altre opere: la Storia naturale dell’anima (1745), il Sistema di Epicuro e il Discorso preliminare (1751). La nozione di “anima” viene mantenuta per semplice comodità di spiegazione, ma questa è intesa in senso materialistico, “solo come un principio di movimento o una parte materiale sensibile del cervello, che senza tema di errore si può considerare come il motore principale di tutta la macchina; un motore che ha un’evidente influenza su tutti gli altri, e sembra perfino essere stato fatto per primo, in modo che tutti gli altri ne sarebbero solo un’emanazione” (La Mettrie, Opere filosofiche, trad. it. di S. Moravia, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 222). Sul versante dell’etica e della morale, il materialismo di La Mettrie reinterpreta, alla luce delle nuove conoscenze biologiche, i grandi temi della filosofia epicurea: il primato del piacere, unico motore delle azioni umane (La scuola della voluttà o L’arte di godere, 1751) e il motivo, comune a tanti illuministi, della felicità come “Sommo Bene”, scopo ultimo dell’esistenza umana; è il Discorso sulla felicità o del Sommo Bene (1748), riedito a Berlino nel 1750 dall’esilio, con il titolo di Anti-Seneca o il Sommo Bene.
Il materialismo di La Mettrie e lo scandalo suscitato dalle sue opere fungono da catalizzatori delle nuove forze che s’indirizzano sulla nuova via filosofica sensistica. Tra i pensatori materialisti del Settecento Denis Diderot è senz’altro il più originale. La gran parte dei suoi scritti sono rimasti allo stato di opere clandestine, manoscritte o postume, a causa della loro audacia e della prudenza dell’autore che subisce la condanna e il carcere fin dalle prime pubblicazioni. I Pensieri filosofici (1746) – il cui titolo fa allusione alle Pensées di Pascal – sono un’opera aforistica in cui s’afferma il primato della “religione naturale”, una credenza libera da dogmi e superstizioni, e una visione del cosmo di tipo scettico, in cui prevalgono il dubbio e l’interrogazione piuttosto che la fede intorno alle verità fondamentali. I Pensieri vengono condannati al rogo, insieme al romanzo erotico I gioielli indiscreti (1747), alla Passeggiata dello scettico (1747) e alla Lettera sui ciechi (1749). Diderot passa quattro mesi in prigione a Vincennes e da allora in poi non pubblica più nulla, a parte l’Encyclopédie, di cui è il direttore.
La Lettera sui ciechi segna la svolta verso il materialismo. È ripreso da Diderot un “caso” filosofico già sollevato da Locke mezzo secolo prima, nel Saggio sull’intelletto umano: il problema del “cieco di Molyneux”. William Molyneux è un medico amico di Locke che s’interroga sul tipo di conoscenza del mondo sensibile che può avere un individuo cieco dalla nascita il quale, grazie a un intervento chirurgico, ritrovi la vista. La questione è la seguente: riuscirà il cieco a riconoscere e a nominare un cubo e una sfera, di cui ha avuto fin lì una conoscenza solo di tipo tattile, con l’aiuto degli occhi e senza far uso del tatto? Locke, che teneva a confutare la dottrina cartesiana delle idee innate, risponde di no. Diderot svolge un ragionamento più sottile e complesso. Il cieco, in un primo tempo, non riesce a riconoscere il cubo e la sfera, in quanto l’occhio non è ancora abituato a far esperienza della visione ed è ancora incapace di “guardare” veramente: può solo vedere, senza capire cosa vede. Poco a poco, facendo esperienza, il cieco inizia a capire ciò che vede senza l’aiuto del tatto, grazie all’azione dell’esperienza sensibile e del cervello, il quale è come un sensorium commune materiale: traduce le impressioni sensibili ricevute dal senso della vista nei segni del senso del tatto, che il cieco conosce già. Questi infine riuscirà a riconoscere e a nominare i due oggetti.
Nell’ambito delle scienze del vivente Diderot ha inaugurato una forma di vitalismo filosofico molto originale, basato sulle nozioni di sensibilità della materia e di “irritabilità” della fibra organica, la capacità di essere contrattile – concetto quest’ultimo introdotto dal fisiologo svizzero Albrecht von Haller. Il corpo vivente, l’“essere organizzato”, è come una federazione di esseri viventi a parte (gli organi), ciascuno dotato di una vita e di una sensibilità proprie. Negli Elementi di fisiologia (postumo, 1770-1782) Diderot afferma che esistono non una ma più vite, almeno tre: 1) la vita della “molecola organica” – concetto introdotto dal naturalista Georges-Louis Leclerc de Buffon nella Histoire Naturelle générale et particulière (1749) –, 2) la vita dell’organo e 3) quella dell’animale intero. Ciascuna vita obbedisce a dinamiche fisiche e chimiche diverse. Il Sogno di d’Alembert (postumo, 1769) è il grande affresco letterario in cui Diderot espone le nuove idee sulla generazione dell’organismo da un “punto sensibile” di materia organica, dotata di sensibilità propria, che si espande attraverso un processo di epigenesi – formazione per giustapposizione di parti – prendendo le mosse da un primo “fascio di fibre” (il sistema nervoso centrale), per giungere infine alla costituzione dell’animale intero. La coscienza e la ragione sono il prodotto ultimo del medesimo processo fisico-chimico, estremamente complesso, di costruzione dell’intero corpo vivente, descritto da Diderot attraverso il brillante dialogo fra il matematico Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert e il medico di Montpellier Théophile de Bordeu.
Gli ultimi, più giovani rappresentanti della corrente materialista settecentesca sono il barone Paul-Henry Dietrich d’Holbach e Claude-Adrien Helvétius. Il primo, autore di un monumentale Sistema della Natura (1770) pubblicato sotto falso nome, porta alle estreme conseguenze il materialismo vitalistico sopra descritto – di cui d’Holbach, grande amico di Diderot, condivideva le istanze –, sfociando nell’ateismo e in una connessa dottrina dell’impostura politica delle religioni, ereditata dalla tradizione libertina e clandestina di un intero secolo. D’Holbach sviluppa le concezioni atee e materialiste anche sul terreno etico e politico, sostenendo la necessità di una Etocrazia o il governo fondato sulla morale (1776), cioè su delle leggi umane ben concepite secondo ragione, che devono sostituire il corpo delle leggi religiose sul quale ancora si fonda il diritto civile. La spinta alla laicizzazione della politica e dello Stato si concretizza in altre due opere: La politica naturale, o Discorso sui veri principi del governo (1773) e Il sistema sociale, o Principi naturali della morale e della politica con un esame dell’influenza del governo sui costumi (1773), anch’esse anonime, nelle quali il filosofo immagina un ordinamento giuridico, politico e civile fondato sulla sola ragione e sulla considerazione dell’uomo fisico e morale tale quale esso è in natura e nella storia, senza cedere alle lusinghe della metafisica e della teologia, scienze ritenute “bugiarde” in quanto formulano le loro idee fantastiche di Bene e di Vero sulla base di un ente immaginario, cioè un uomo non esistente in nessuna realtà storica o politica concrete.
Helvétius, dal canto suo, radicalizza l’istanza empiristica e sensistica del materialismo, sulla scia di Condillac, e sostiene la tesi - espressa nelle due opere principali, il De l’Esprit (1758) e il De l’Homme (postumo, 1773) – della completa determinazione dell’uomo a partire dall’esperienza sensibile e, soprattutto, dall’educazione. La caratteristica dell’uomo è il suo essere plasmabile, modificabile in base all’esperienza sensibile. Se dunque si consentisse a ogni uomo di essere educato secondo ragione, avremmo senz’altro un miglioramento nelle condizioni generali di vita della società. La mente umana, come già afferma Locke, è una tabula rasa, occorre riempirla delle giuste nozioni e delle buone idee per formarne una mente ben fatta, di un uomo dabbene. Anche il figlio di un contadino analfabeta, a queste condizioni, può diventare un grande scienziato o un grande artista, se ben educato. È gettata qui in nuce da Helvétius la base essenziale di una concezione democratica dell’istruzione, dell’educazione e della stessa filosofia. Sulla radicalità di tale tesi s’accende una viva polemica all’interno dello stesso fronte materialista. Diderot scrive una Confutazione de “L’uomo” di Helvétius (postuma, 1774), in cui rimprovera all’amico appena scomparso di non essere stato in grado di riconoscere la parte di “naturale” o di determinato biologicamente, nella costituzione della mente umana: “Non dite ‘l’educazione fa tutto’, dite ‘ fa molto’…”. I temi-chiave della polemica sono sollevati proprio alla vigilia di quella grande Rivoluzione politica che, sotto molti aspetti, tenterà di realizzare le istanze più originali dell’“etocrazia” e della pedagogia di stampo materialista dell’età dei Lumi.
Jean-Baptiste d’Alembert
Bisogna però confessare che i geometri...
Encyclopédie, Discorso preliminare
Bisogna però confessare che i geometri abusano talvolta di questa applicazione dell’algebra alla fisica. In mancanza di esperienze atte a servire di base al loro calcolo, si permettono delle ipotesi, scelte in verità tra le più comode possibili, ma spesso quanto mai lontane da ciò che realmente capita in natura. Si è voluto ridurre a calcolo persino l’arte di guarire; ed il corpo umano, questa macchina così complicata, è stata trattata dai nostri medici algebristi come la macchina più semplice e più facile da scomporre. È una cosa straordinaria vedere questi autori risolvere con un tratto di penna problemi di idraulica e di statica capaci di fermare per tutta una vita i più grandi geometri. Quanto a noi, più saggi, o più timidi, accontentiamoci di considerare la maggior parte di questi calcoli e di queste supposizioni vaghe come divertimenti intellettuali, ai quali la natura non è tenuta a sottomettersi; e concludiamo che il solo e vero modo di filosofare in fisica consiste o nell’applicazione dell’analisi matematica alle esperienze, o nella sola osservazione illuminata dallo spirito del metodo, aiutata talvolta da congetture, quando possono fornire dei punti di vista utili, ma severamente liberata da ogni ipotesi arbitraria.
in Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, a cura di P. Casini, Bari, Laterza, 1968
Anonimo
Le sensazioni fanno uscire l’anima...
Encyclopédie
Le sensazioni fanno uscire l’anima fuori di se stessa dandole l’idea confusa di una causa esterna che agisce su di essa, perché le sensazioni sono delle percezioni involontarie; l’anima in quanto sente è passiva, essa è l’oggetto di una azione: vi è dunque fuori di essa un agente. Cosa sarà questo agente? È ragionevole concepirlo proporzionato alla sua azione e credere che a differenti oggetti corrispondono cause differenti; e che le sensazioni sono prodotte da cause tanto diverse tra loro quanto lo sono le sensazioni stesse. Per questo principio la causa della luce deve essere diversa da quella del fuoco; quella che suscita in me la sensazione del giallo non dev’essere la stessa di quella che mi dà la sensazione del violetto.
Poiché le nostre sensazioni sono percezioni rappresentative di una infinità di piccoli movimenti che non possono essere distinti, è naturale che portino con sé l’idea chiara o confusa di quel corpo da cui è inseparabile l’idea del movimento, e cioè che noi consideriamo la materia, in quanto agitata da questi diversi movimenti, con la causa universale delle nostre sensazioni, nello stesso tempo che ne è l’oggetto.
in Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, a cura di A. Soboul, Roma, Editori Riuniti, 1968