Media e società contemporanea
L’onnipresenza dei media
In che modo si può comprendere e valutare una civiltà? Gli studiosi tradizionali prendono in considerazione le realizzazioni artistiche e i progressi scientifici, intendendo quello che il poeta e critico letterario inglese Matthew Arnold considerava «quanto di meglio sia conosciuto e pensato» come espressione non solo dei traguardi raggiunti da una società, ma anche della sua essenza oppure di quello che Georg Wilhelm Friedrich Hegel considerava il suo spirito. In questo quadro teorico, ciò che è importante in una civiltà è quello che si conserva di essa, e ciò che si conserva è quello che merita di conservarsi: le opere più belle, realizzate dai più creativi, dai più intelligenti e dai più acuti ingegni di una società. È vero che nel caso di civiltà antiche non vi sono molte alternative a questo approccio, dal momento che le tracce di come è vissuta la maggior parte delle persone sono indirette e difficilmente decifrabili anche se la loro esistenza non si perde nella notte dei tempi. La società moderna ha invece a sua disposizione innumerevoli indicazioni di come vive la maggior parte dei suoi abitanti. Essere moderni non significa soltanto essere liberi dalle limitazioni legate alle contingenze immediate, ma anche essere oggetto di ricerche, essere contati e osservati da vicino; significa anche lasciare traccia dei nostri sentimenti e delle nostre parole, nonché delle molteplici maniere in cui utilizziamo quella che, dopo tutto, è la più preziosa delle risorse: il nostro tempo.
Su come le persone impieghino il loro tempo nelle società moderne i ricercatori sanno molte cose. Nonostante le notevoli variazioni tra le diverse classi sociali nelle nazioni dalle economie più prospere – tra chi vive in città e chi in zone rurali, tra ricchi ed emarginati, tra anziani e giovani e così via –, è una generalizzazione che non si discosta molto dalla realtà affermare che gli individui nel corso di una giornata passano più ore a contatto con i media che in qualsiasi altra maniera, se si eccettua il lavoro; per quanto, in effetti, anche la maggior parte del tempo passato al lavoro viene trascorsa a contatto con i media. Gli individui non solo utilizzano gli stessi media, ma parlano di quello che hanno visto e sentito attraverso di essi e ne pianificano nuove generazioni tecnologiche; condividono la maggior parte delle esperienze che i media mettono a loro disposizione; pregustano ciò che sperano di trovarvi, impazienti di scoprire sorprese non completamente inaspettate; prendono delle misure per incrementarne l’utilizzo; trasferiscono nelle interazioni quotidiane quello che i media trasmettono loro attraverso le parole, le emozioni, i sentimenti e le immagini. I media sono portatori dei simboli che condividono e, allo stesso tempo, dei simboli che costantemente mettono in discussione.
Passiamo così tanto tempo a contatto con giornali, riviste, televisione, radio, Internet, telefoni, videogiochi, riproduttori di musica portatili e così via che è solo una lieve esagerazione parlare dei media come di «prolungamenti dell’uomo», nella prospettiva di Marshall McLuhan. Il termine media si riferisce a qualcosa che è intermedio, che ‘sta in mezzo’; essi si pongono tra gli esseri umani e tra ciascun essere umano e il mondo. I media non sono solo l’insieme dei mezzi attraverso i quali immagini e suoni vengono comunicati tra esseri umani ma anche gli strumenti e i ricettori attraverso i quali il mondo viene posto alla loro portata. Sono, in questo senso, sia agenti connettori sia separatori, collegamenti e allo stesso tempo elementi divisori, mezzi per mettere in comune i contenuti del mondo (dunque ‘comunicando’) e anche mezzi per rendere il mondo di un individuo differente da quello di un altro. Veniamo a contatto con il mondo attraverso i media a tal punto che non possiamo avere realmente accesso a un mondo che non sia mediato. Il mondo in cui viviamo non è solo saturato dai media ma è dentro e fra i media, un mondo che è sostanzialmente costruito attraverso immagini e suoni che lo ampliano (sebbene essi possano anche distorcere la versione del mondo che è accessibile attraverso quei sensi che non sono né la vista né l’udito). Mai prima d’ora nella storia dell’uomo si è potuto avere accesso, semplicemente volendolo, a così tante storie, canzoni e immagini statiche o dinamiche.
Non è un caso che abbia parlato di persone che nelle società contemporanee sono ‘a contatto’ con i media piuttosto che ‘guardarli’, ‘ascoltarli’, ‘leggerli’ e così via. È sbagliato presupporre che quando una televisione o una radio sono accese lo spettatore o l’ascoltatore vi presti grande attenzione, che quelle ‘informazioni’ si stiano depositando nel suo cervello o che una sua opinione o comportamento ne vengano trasformati oppure rinforzati. Questa concezione meccanica della comunicazione come una forza esterna non spiega la peculiare maniera in cui, fin da tenera età, praticamente tutti i bambini interiorizzano il fatto che, in qualche modo, i media sono inestricabilmente ‘prolungamenti di loro stessi’ ed elementi del loro vissuto. Al giorno d’oggi, la maggior parte dei ragazzi nelle società industrializzate, indipendentemente dal ceto sociale, ha nella sua camera la televisione via cavo, la radio, il riproduttore di cassette, il lettore di compact disc, vari strumenti collegati ai media, e altri ne trova sparsi per il resto della casa, oltre al videoregistratore, alla consolle per i videogiochi e al computer, naturalmente. Anche in un ambiente mediatico sempre più influenzato dall’elettronica i ragazzi trovano giornali, riviste, libri e fumetti. Uscendo di casa, essi portano con sé l’agenda elettronica, il telefono cellulare con telecamera incorporata, il BlackBerry, il Game Boy. Si trovano davanti segnali stradali, indicazioni e cartelloni. La musica si diffonde in negozi, ascensori, ristoranti e bar. La televisione monopolizza l’attenzione nelle sale di aspetto, l’intrattenimento mediatico domina sugli aerei e nei taxi. I giovani crescono aspettandosi di avere sempre a propria disposizione un universo di suoni e una panoplia di immagini. Ovunque si trovino, i giovani hanno la possibilità, grazie ai media, di affermare il diritto a superare la costrizione di trovarsi in un determinato luogo e a essere simultaneamente da qualche altra parte; di scegliere da un elenco di attività, divertimenti e contatti; di essere con gli altri, con la loro musica, i loro giochi, le loro voci; di avere sempre a portata di mano la propria colonna sonora; di estendere le proprie esperienze verso il mondo esterno, se non dentro di sé. Questi ragazzi trascendono il luogo fisico ed estendono i loro apparati sensoriali nella direzione prescelta. Il mondo così come essi lo conoscono, il mondo a cui si preparano è saturato dai media e i media sono sempre in attività, riversando materiali come un torrente.
Negli Stati Uniti vi sono in media più di tre televisori per abitazione e una famiglia media tiene accesa la televisione per più di sette ore al giorno. Più di due terzi dei giovani americani tra gli otto e i diciotto anni hanno una televisione nella propria camera da letto. Nel 2007 vi era un contratto di telefonia mobile ogni due persone nel mondo, nei Paesi dell’Europa occidentale vi erano più telefoni cellulari che abitanti, una proporzione approssimativamente corrispondente a quella del Giappone; nell’intera Europa vi erano 95 cellulari ogni cento abitanti. Gli Stati Uniti erano rimasti indietro con un valore di penetrazione pari all’85%, uno dei più bassi del mondo industrializzato. Il tasso di diffusione dei telefoni cellulari è al suo culmine storico, superando quello della radio a suo tempo, superando di gran lunga quello del telefono fisso e comparabile soltanto ai tassi di sviluppo della televisione e di Internet.
Nel contempo, la lettura facoltativa di libri, riviste e giornali continua a diminuire, almeno negli Stati Uniti. Tra i giovanissimi, la percentuale di diciassettenni che dicono di leggere quasi tutti i giorni per svago si è ridotta dal 31% del 1984 al 22% nel 2004, una cifra che supera di poco il 19% (più che raddoppiato dal 9% del 1984) che ha risposto di non farlo «mai o quasi mai». I diciassettenni leggono con minore entusiasmo, anche se la quantità di materiali da leggere a loro assegnati come compiti scolastici non è aumentata nello stesso periodo. Quello che non è chiaro è quanto e con quanta attenzione questi giovani leggano contenuti on-line. Tuttavia, la maggioranza di coloro che leggono questo tipo di contenuti esegue diverse attività simultaneamente (multitasking), dedicandosi di quando in quando o per la maggior parte del tempo anche ad altri media. È poco probabile che la loro capacità di leggere a lungo tragga benefici dall’aumento del tempo passato a leggere su uno schermo.
I media dunque sempre più si presentano come un torrente costituito da frammenti di notizie, videoclip e frasi a effetto (sound bites), combinati tra loro o sovrapposti l’uno all’altro, che ci raggiungono in ogni momento della giornata. In questo nuovo mondo di ‘tecnomobilità’ vi sono degli evidenti paradossi: il nomade super-attrezzato, con la sua ricerca di libertà di accesso a piacimento, diviene totalmente accessibile alle comunicazioni degli altri. Il mittente è anche colui che riceve. Inoltre, chi spera di poter essere padrone dei propri pensieri quando esce di casa si ritrova invaso da rumori alieni. Essere osservati è il prezzo sociale della mobilità ed è un prezzo che viene pagato quasi sempre volentieri perché il neonomade realizza un sogno individualista: l’utopia onnicomunicativa vuole appagare il secolare desiderio di avere il pieno controllo sulla propria vita senza rinunciare ai legami sociali e si basa sul desiderio dell’onnivora libertà di sfruttare al massimo la mancanza di radici e di compiacersi della transitorietà.
Si può perfino trasformare la propria persona in un’insegna. I tatuaggi sono un modo evidente per dichiarare qualcosa con il proprio corpo e prolungare la tradizione della moda che, come Georg Simmel osservava più di un secolo fa, è una maniera per affermare la propria appartenenza a un gruppo e allo stesso tempo la propria individualità all’interno dello stesso. Dunque le magliette, i berretti, le tazze per la colazione, i portachiavi, le buste per gli acquisti e i manifesti diventano un marchio che mettiamo su noi stessi. Ci si trasforma in un medium, un mezzo; ci si identifica con un personaggio, un gruppo musicale o un tour di concerti. Le etichette indicano appartenenza; la presenza ossessiva dei marchi ha raggiunto un tale livello che le persone sono disposte a pagare per avere il privilegio di esibire in pubblico etichette e logo di stilisti. Calvin Klein, Ralph Lauren, Donna Karan, Tommy Hilfiger, Gucci, Giorgio Armani, Dolce & Gabbana e molti altri stilisti hanno prodotto con il proprio marchio jeans, calzini, borse e qualsiasi altro elemento accessorio o di vestiario immaginabile, ciascuno occupando un settore di mercato che s’identifica con una specifica condizione sociale. Marlboro ha fatto lo stesso, giungendo perfino ad aprire dei negozi di abbigliamento specializzato in Europa. Le scarpe migliori e più costose, che un tempo non recavano alcun marchio o sulle quali il marchio compariva a piccoli caratteri, ora ostentano marchi evidenti, come, per es., le scarpe della Mephisto. Questa interazione nell’apparire, il desiderio di riconoscersi in un marchio non sono cose semplicemente indotte dall’alto; in un’era di continua re-invenzione di sé, un marchio può essere una dichiarazione del consumatore, che parla a nome suo come se fosse un cartoncino di auguri prestampato. Il consumatore infatti acconsente a scegliere tra una gamma di immagini in offerta, fa la pubblicità di sé stesso o, piuttosto, esibisce lo stile che ha scelto di esibire.
L’onnipresenza dei media è indizio dell’inadeguatezza del concetto tradizionale di comunicazione come trasmissione tra mittenti e destinatari di messaggi distinti. Il modo tradizionale di concepire la comunicazione come un metodo attraverso il quale un mittente trasmette un segnale a un destinatario presuppone una distinzione tra un messaggio e l’altro, oltre che un chiaro confine tra mittente e destinatario – è questa la comunicazione che il teorico e storico dei media James W. Carey intende come «trasmissione». Carey operava una vera e propria distinzione tra il concetto di comunicazione come «trasmissione» e il concetto di comunicazione come rituale per evidenziare la continua interconnessione sociale che i media rendono possibile. In altre parole, è attraverso i mezzi di comunicazione che le società si scambiano quei rituali che le identificano in quanto società. In sostanza, quello che la società comunica non è una particolare informazione e neanche la somma di tutte le informazioni ma una definizione di sé stessa come cultura e la rivelazione dell’esistenza di sé stessa in quanto società. Essere a contatto con i media significa quindi fare dei media una sorta di orizzonte di consapevolezza senza forzatamente considerarli come veicoli trasparenti di ‘contenuti’.
In questo senso, i media nel loro insieme non possono neanche essere limitati al loro uso di veicoli di rituali, perché il termine rituale implica distinzione ed è nella natura dell’ambiente mediatico essere senza restrizioni. Questo è vero in due accezioni: in primo luogo, nel corso della vita di un individuo non vi è una netta demarcazione tra un settore mediatico e un altro. Si vaga da un programma televisivo a un altro, da un video streaming o da un videoclip a un altro, dalla posta elettronica a una pagina di Facebook o a una selezione sull’iPod, e in effetti si utilizza più di un singolo mezzo di comunicazione alla volta. Si è ‘multifunzionali’. Si usano telecomandi per passare a piacimento da un settore a un altro. La totalità dei media costituisce un ambiente all’interno del quale si muovono gli individui. La vita con i media moderni è in questo senso molto differente dal mondo in cui si vedevano due o tre film a settimana e si leggevano due o tre riviste o giornali – uno alla volta. Il vissuto contemporaneo non è fatto tanto di brevi incursioni distinte e isolate quanto di un flusso mediatico ininterrotto.
In secondo luogo, le immagini e i suoni che riempiono l’ambiente mediatico cambiano rapidamente. In verità i lettori e gli ascoltatori si attendono proprio questo, perché stasi significa noia e noia è sinonimo di morte. Le frasi sono brevi, come le canzoni di successo. I contenuti vengono rielaborati in modo da evidenziarne il dinamismo. Nell’inquadratura, la telecamera non rimane ferma. Le immagini si susseguono con l’accelerazione che si desidera. Tutto fluisce da uno stato all’altro. Non solo le immagini e i suoni cambiano, ma è nostro desiderio farli cambiare. Ricerchiamo spasmodicamente l’accesso più rapido, i paragrafi più brevi, i downloads più veloci, l’opzione ‘ricerca automatica’ nelle autoradio e il tasto Tab sui browsers di Internet. Il futuro è un accrescimento di obsolescenza. ‘Storia’ significa conclusione. Non stupisce che il disturbo cognitivo caratteristico del nostro tempo sia la sindrome da deficit di attenzione. Il mondo sensoriale esiste per intrattenere e in un mondo che trasmette 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 non ci sono scuse plausibili per i tempi morti.
Parlare dei media come equipaggiamento necessario per costruirsi un modo personale di stare al mondo significa adottare una visione allargata delle relazioni che le persone stabiliscono attraverso i media, una nozione più ampia e adeguata rispetto all’usuale nozione di informazione. I media non trasmettono semplicemente concentrati di informazioni tra individui già completi, ma costruiscono invece quel ‘senso del mondo’ tramite il quale molte persone diventano sé stesse in quanto individui e comprendono la loro relazione con gli altri. I media costruiscono le atmosfere, organizzano, acclimatano, estetizzano e anestetizzano. Sia che i media assumano la forma di comunicazione uno-verso-molti (trasmissioni in generale), uno-verso-pochi (trasmissioni per destinatari specifici) o uno-a-uno (telefono, e-mail), essi popolano il mondo. Il senso che gli individui portano con sé del colore, dei limiti e delle possibilità del mondo nel quale vivono deriva sostanzialmente dall’intreccio di impressioni che i media riescono a comunicare.
Le origini della saturazione dei media
Le società contemporanee sono saturate dai media: in esse passiamo molta parte della nostra vita a tenerci aggiornati nei confronti del torrente mediatico, inventando strategie di navigazione per aprirci la strada attraverso il flusso delle immagini e dei suoni. Queste società così permeate dai media si sono comunque evolute da società più semplici dove la loro presenza era più discreta. Le continuità sono importanti. Ci troviamo in un mondo enormemente differente da quello dei nostri antenati, nonostante ciò i desideri e l’indulgenza dei nostri antenati devono aver reso possibile questo nostro mondo e non sono riusciti a impedirne lo sviluppo. La società saturata dai media è il prodotto finale di un desiderio collettivo che ha dominato l’umanità per secoli; essa rappresenta la sublimazione del sogno di liberazione individuale della modernità. Questo sogno è anteriore alla fotografia, all’elettricità, ai tubi catodici e ai chip in silicone. Ciò che si è largamente diffuso sono i mezzi per accedere a questo sogno e un livello di prosperità che permette a così tante persone di soddisfare i loro desideri. La saturazione dei media nelle nostre società moderne si è verificata per un reciproco rinforzarsi, una dinamica circolare di domanda e offerta. L’offerta degli attuali strumenti tecnologici si moltiplica perché bisogna trarre profitti dalla monetizzazione dell’attenzione che la gente è disposta a dare. La domanda cresce perché gli individui vengono gratificati dai loro contatti con i media. Per oltre un secolo, domanda e offerta si sono rincorse l’una con l’altra in maniera da permettere alla tecnologia di aumentare il raggio d’influenza: il telefono a gettoni, l’autoradio, la radio a batterie, la radio a transistor, la segreteria telefonica consultabile a distanza, il fax, il telefono in macchina, il computer portatile, il walkman della Sony, il telefono in aereo e in treno, il lettore CD portatile, il cercapersone, il telefono cellulare, il computer palmare, l’accesso a Internet e così via. Contrariamente a quanto sostenuto dalla teoria del consenso nei confronti dell’industria culturale elaborata dalla Scuola di Francoforte, non è che gli individui si abituino a consumare beni e ad assorbire segnali docilmente e in tutta naturalezza: in realtà essi giungono al punto di aspettarsi dai beni, dai servizi e dai media una certa qualità di esperienze, gratificazioni, sensazioni ed emozioni. Con la crescita della disponibilità di tempo e denaro, i media crescono in rapida progressione. Dopo i giornali e le riviste sono venute la radio commerciale e in seguito la televisione. A mano a mano che i costi si riducevano, le tecnologie che inizialmente erano state a uso esclusivo dei ricchi sono divenute accessibili alla classe media e in seguito, in un tempo sbalorditivamente breve, sono diventate oggetto di consumo di massa. Con la televisione e i suoi sistemi ausiliari, quello che fino ad allora era stato un diritto esclusivo a un’attività di lusso si è trasformato in un generale diritto a collegarsi, e, con il sistema via cavo, nel diritto a collegarsi a un canale a proprio piacimento.
Dal 15° sec., quando la stampa a caratteri mobili rese la pubblicazione dei libri molto più veloce, la letteratura è divenuta portatile. Più tardi, la macchina fotografica stereoscopica e la radio portatile hanno rappresentato alcune prove dei vantaggi della miniaturizzazione delle immagini e dei suoni. Durante i nostri spostamenti quotidiani non volevamo essere ‘fuori dal giro’. Non volevamo essere costretti a dipendere unicamente da luoghi commerciali per inviare un telegramma, trovare un juke-box o chiamare da un telefono a pagamento. Dotarsi di un accesso da casa è stato il primo obiettivo, seguito dall’assicurarsene uno da qualunque luogo. Subentrava, infatti, un forte desiderio di indipendenza dal luogo dove ci si trovava. Perché dunque non liberare sé stessi da tutti i vincoli dei luoghi in cui ci si trova e rendere i propri divertimenti personali portatili? L’autosufficienza, il più dirompente tra i temi della modernità, viene percepita come una sorta di liberazione, fino al momento in cui diventerà banale e nascerà il bisogno di una nuova liberazione. Trasportabilità e miniaturizzazione – rappresentando entrambe un tipo di libertà – sono i concetti intorno a cui gravitano gli individui nella loro vita quotidiana.
Inoltre, i media non avrebbero potuto avere una diffusione così estesa e così rapida solo perché le industrie produttrici traevano dei vantaggi dalla loro commercializzazione, ma dovevano anche apportare benefici. Le comunicazioni determinano esperienze umane, aumentano la nostra consapevolezza, le nostre connessioni con il mondo e l’appagamento che da esse deriva. Questo non vuol dire che l’informazione vera e propria che le comunicazioni trasmettono non abbia alcun valore in sé stessa. In una società complessa, gli individui, separati gli uni dagli altri, sentono la necessità di sapere quello che succede al di fuori dell’ambiente che li circonda e che ciò è fondamentale per prevenire le incognite e coordinare le proprie attività. Questi individui hanno un desiderio spasmodico di informazioni per molte ragioni: l’informazione è contatto e genera appagamento. Non è solo nei diversi mercati finanziari che le informazioni possono essere tradotte in valori monetari. Le valutazioni basate sulle informazioni sono importanti nelle relazioni, nelle distinzioni di ceto e così via. Le informazioni sono però utili non solo in senso strumentale: non sono infatti elementi sterili e hanno invece il potere di concentrare in sé e offrire l’appagamento dei desideri. Spesso esse riguardano persone famose con le quali ci piace stabilire una specie di contatto immaginario e il coinvolgimento mentale è una componente fondamentale del contatto con i media.
La maggior parte delle emozioni e delle sensazioni trasmesse dalle immagini e dai testi dei media è labile e, in un certo senso, usa-e-getta. In effetti, il fatto di essere usa-e-getta è parte integrante del loro valore. Esse non richiedono molto all’individuo, possono essere eliminate per far posto a reazioni successive e non interferiscono con l’andamento della vita quotidiana. La loro flessibilità è parte del loro valore.
Per indurre emozioni o per ‘sedarle’ i media si sono dunque moltiplicati. L’accesso sensoriale dagli spazi pubblici e dalle case progredisce spinto dalla forza della spirale di accelerazione della domanda dei consumatori, dell’innovazione tecnica e degli investimenti. In tutto il mondo, l’industria è impegnata nella continua e competitiva ricerca del prossimo sistema di trasmissione dati per soddisfare appetiti insaziabili. Non appena uno di questi sistemi riscuote successo, ecco che nasce il desiderio di un nuovo mezzo di comunicazione più rapido e adattabile.
Framing e declino dell’impegno politico
Per anni le ricerche sulla comunicazione hanno posto l’accento sull’impatto diretto dei messaggi dei media su convinzioni, conoscenze e preferenze degli individui. I risultati delle indagini conoscitive, degli esperimenti e dell’etnografia, pur essendo diversi sotto molti punti di vista, tendono qui a convergere. La maggior parte delle ricerche porta alla conclusione che i media hanno realmente effetti diretti di diverso tipo (un’efficace panoramica si trova in Joseph T. Klapper, The effects of mass communication, 1960; trad. it. 1964): a) essi suscitano, plasmano, fanno circolare, danno forza o influenzano opinioni e sentimenti; b) producono effetti sulla priorità e la rilevanza delle questioni di interesse pubblico, offrendo una prospettiva precisa in cui inquadrare determinate questioni rispetto ad altre (framing) e ‘istruendo’ gli individui a considerare alcuni elementi della realtà politica al di sopra di altri; c) questi effetti sono intensificati al massimo grado nel caso di quegli argomenti sui quali gli individui non hanno un’opinione propria e mancano di conoscenze e orientamenti acquisiti autonomamente; d) tendono inoltre a passare inizialmente dai media agli opinion leaders, i quali in seguito trasmettono le loro idee a un pubblico più ampio; e) vengono trasmessi anche attraverso i contenuti di intrattenimento oltre che attraverso le comunicazioni di specifico profilo giornalistico.
L’osservazione ha inoltre evidenziato l’esistenza di effetti ideologici dei media in relazione a particolari questioni e orientamenti; si sono riscontrate oscillazioni influenzate dai media nell’apprezzamento generale riguardante candidati politici e movimenti sociali, sebbene entrino in gioco contemporaneamente diversi fattori e i media solo in rari casi agiscano autonomamente. È indubbia l’efficacia della propaganda come fattore che ha condotto ad attacchi genocidi contro intere popolazioni ed è credibile che i media, con il passare del tempo, abbiano influenzato profonde tendenze culturali. Con il sottoporre gli individui a una pioggia di immagini di persone diverse da loro ritratte in maniera inoffensiva, i media hanno probabilmente contribuito a diffondere la tolleranza e, ancora di più, il sentimento egalitario e quello di critica all’autoritarismo (già nel 1950 The lonely crowd. A study of the changing American character, trad. it. 1956, di David Riesman, analizzava i casi in cui la televisione aumenta la tolleranza). Sono stati inoltre ipotizzati effetti in relazione agli stili intellettuali, in particolar modo in relazione alle reazioni emotive nella politica. Si è affermato a buon titolo che il sopravvento degli stili mediatici porti a, o rafforzi, la propensione alla semplificazione e all’imbarbarimento nella vita pubblica – una propensione che, negli Stati Uniti, ha favorito l’aumento di ascolto dei talk radios della destra da quando la Commissione federale sulle comunicazioni ha eliminato il criterio della par condicio riguardante i dibattiti politici nel 1987. Da questo punto di vista, i media radiotelevisivi americani hanno contribuito apertamente allo sviluppo delle bellicose trasmissioni della destra, in particolare alla radio ma anche, in grado inferiore, in televisione. Il dibattito pubblico, dunque, risulta frequentemente di parte perché le emittenti radiotelevisive si procacciano l’attenzione del pubblico sia con la loro capacità di produrre trasmissioni caratterizzate da dinamismo, episodicità, personalizzazione e conflittualità, sia con il fatto di frammentare sistematicamente gli argomenti più ampi in blocchi più piccoli.
Questa spiegazione è valida in particolar modo per la situazione dei media radiotelevisivi americani, da molto tempo legati al settore privato e che con ritardo hanno iniziato a costituire un servizio pubblico radiotelevisivo, avendo come risultato delle gravi limitazioni nel settore non commerciale. Prendendo in considerazione il mondo industrializzato nel suo insieme, un ragionamento generale ancora più convincente suggerisce che l’insorgenza della saturazione mediatica produce un declino dell’impegno politico, e che dunque, al di sopra e al di là di specifiche influenze ideologiche, la frenetica ricerca di sensazioni e sentimenti usa-e-getta causa uno svuotamento di significato della vita pubblica nel suo complesso. La perdita di lettori da parte dei giornali e della stampa non a carattere frivolo, anche nelle loro versioni web, e soprattutto la diminuzione di lettori giovani e con buona formazione culturale è un fenomeno che si sta verificando in ogni parte del mondo industrializzato, senza contare il fatto che è stato più volte evidenziato come l’approccio dei lettori alle notizie pubblicate sul web sia superficiale e che spesso essi si concentrano sui titoli e sulle pagine dedicate agli spettacoli. Tutto questo ha come conseguenza l’esaltazione della personalità dei politici a scapito della loro serietà nella formulazione di principi e di politiche. La velocità e la fluidità che caratterizzano una vita così permeata dai media mettono in risalto, per contrasto, la lentezza, la tediosità e (per curioso paradosso) l’aggressività della vita politica; il funzionamento di una vita privata così saturata dai media e così decisamente propensa all’edonismo, in altre parole, genera insofferenza da parte dei cittadini nei confronti delle attività di chi li governa.
Dare una spiegazione incontestabile delle origini di tutto questo è estremamente difficile. La società non si evolve in maniera meccanica ma come un insieme, un insieme composito, ma pur sempre interconnesso. La vita economica e politica è saturata dalle comunicazioni, che a loro volta portano i segni delle dinamiche economiche e politiche all’interno delle quali esse si sviluppano. È impossibile fare un esperimento controllato nel quale i media, come ‘variabile indipendente’, vengano modificati mentre le altre dimensioni della vita sociale rimangano inalterate, in modo da individuare gli effetti specifici dovuti ai media stessi. Un attento esame delle diverse fasi di sviluppo fornisce però indicazioni abbastanza attendibili circa l’esistenza di una relazione di causa ed effetto.
Una convincente argomentazione a favore dell’esistenza di una relazione tra esposizione ai media e vita politica è stata elaborata dal politologo Robert D. Putnam (2000). Gli americani che si dichiarano ‘assolutamente d’accordo’ con l’affermazione che la televisione sia la loro principale forma di intrattenimento hanno il doppio di possibilità di non essere registrati come votanti rispetto a quelli che dichiarano di ‘non essere affatto d’accordo’. Sebbene seguire i telegiornali e la lettura dei giornali venga associato a una più alta percentuale di voto negli Stati Uniti, seguire i programmi televisivi in generale viene associato a una percentuale più bassa di voto. Secondo Putnam, in diverse indagini condotte tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del 20° sec., tra gli americani che avevano indicato di guardare la televisione più che in passato il numero di coloro che partecipava a incontri pubblici, operava in associazioni locali, sottoscriveva petizioni e cose simili era molto inferiore rispetto al numero di americani appartenenti allo stesso quadro demografico ma che avevano risposto di passare meno tempo davanti alla televisione. Più la quantità di tempo passata dagli individui a guardare la televisione aumentava, più la percentuale di coloro che risultava esercitare il proprio diritto di voto diminuiva: da questa analisi emerge quindi come gli individui che vedono la televisione abitualmente, quelli cioè che accendono la televisione senza fare caso ai programmi trasmessi e la lasciano accesa come elemento di fondo, sono particolarmente indifferenti all’impegno civico. Queste correlazioni si erano manifestate con costanza statisticamente significativa quando altri fattori – inclusi l’istruzione, l’età, il sesso, il reddito e la razza – erano stati mantenuti invariati. In generale, Putnam conclude la sua analisi sostenendo che, tra tutti i fattori che possono far presagire il disimpegno civico, «la dipendenza dalla televisione per svago non è soltanto un predittore significativo di disimpegno civico. È quello più coerente» (trad. it. 2004, p. 283). E quindi quell’ora al giorno in più che gli americani hanno passato in media davanti alla televisione nel 1995 rispetto al 1965 potrebbe essere all’origine di un quarto del generale declino dell’impegno civico. Sappiamo che una correlazione non è automaticamente una causa, tuttavia, nell’attenta analisi di Putnam dell’evidenza logica dei fatti, sembra plausibile che la televisione sia la causa e il disimpegno l’effetto.
Si può affermare che questo disimpegno è responsabile di una particolare inclinazione politica? Da una parte, si può sostenere che la forte dipendenza da ciò che è puro intrattenimento non solo indebolisce la società civile ma, in generale, spinge probabilmente le politiche nazionali verso destra. Dopo tutto, il declino dell’impegno politico riguarda con maggiore frequenza le fasce di popolazione più indigenti, i poveri e i meno istruiti, che costituiscono da sempre il gruppo con la percentuale più bassa di votanti e di individui che credono che votare apporti risultati concreti. I periodi di trasformazione nella politica americana sono periodi in cui gruppi che erano in precedenza estranei alle attività politiche entrano invece nel sistema. Tale evoluzione ha favorito la sinistra negli anni Trenta e Sessanta del 20° sec., mentre dal 1980 a oggi sono stati principalmente i cristiani fondamentalisti che hanno fatto ingresso in politica, a vantaggio del partito repubblicano di Ronald Reagan e di George W. Bush. Nel settore economico, la riforma liberale rende necessaria una mobilitazione da parte dei cittadini, per evitare che prevalgano incontrastati gli interessi dettati dal potere economico delle grandi aziende. Sono coloro che vogliono spostare l’equilibrio di potere verso la sinistra – i poveri, le minoranze e la classe operaia – che devono dare inizio a un’azione. Questa saturazione dei media certamente la ritarda, sebbene, anche in questo caso, non perché le entità che gestiscono i media lo vogliano intenzionalmente (il loro unico obiettivo è catturare l’attenzione perché l’attenzione è il prodotto venduto agli inserzionisti), ma perché esse sono coinvolte in una interazione con un pubblico già incline al disimpegno.
Il disimpegno non è comunque il solo prodotto della saturazione dei media. In tempi di gravi tensioni internazionali, gli individui che sono abitualmente meno coinvolti si concentrano maggiormente su o addirittura si immergono nei media e i media a loro volta incrementano il livello generale di bellicosità. Questo non avviene unicamente per la posizione predominante della Casa Bianca nella gestione della propaganda o per la sua abilità nel rinforzare l’immaginario manicheo e far abituare gli individui all’idea della guerra (così, per es., dopo che Ṣaddām Ḥusayn aveva invaso il Kuwait nell’agosto del 1990, i media sono stati capaci in pochi giorni di innalzarne la figura dall’oscurità a una dimensione hitleriana, per poi rimetterlo nel dimenticatoio a guerra finita). Vi sono anche delle ragioni formali. Il pervenire continuo di notizie, con tutta la loro immediatezza, crea una sorta di oasi nella routine quotidiana, ma paradossalmente si tratta di un’oasi con un costante risuonare di tamburi che acutizzano l’attesa che avvenga qualcosa e che sembrano annunciare l’avvento della guerra come una forma di liberazione psicologica.
Pensiamo, per es., alla prima guerra su cui la televisione via cavo ha avuto la possibilità di dare notizie 24 ore su 24 e 7 giorni su 7: la prima guerra del Golfo. Nella prima settimana di guerra dal 15 al 21 gennaio 1991, la CNN ha raggiunto in pochissimo tempo uno share di ascolti in prima serata più alto dei principali network e ha più che decuplicato i suoi ascolti ordinari. Alcune rilevazioni suggeriscono che la diffusione da parte dei media di notizie riguardanti sia la crisi sia la guerra abbia fatto aumentare immediatamente lo spirito di bellicosità degli americani, non solo presso gli spettatori più in sintonia con i messaggi dei media, con maggiore istruzione e più vicini a posizioni belligeranti (repubblicani, bianchi e maschi) ma anche presso le donne e le minoranze, gruppi ordinariamente più distaccati, nonché presso coloro che si opponevano alla guerra. Le reti televisive in particolare, collaborando con i militari, hanno moltiplicato gli strumenti che permettono a questi ultimi di orchestrare l’opinione pubblica a favore dell’intervento americano. Durante la guerra in ῾Irāq iniziata nel 2003, per es., l’esercito fece ricorso a giornalisti embedded, cioè incorporati nelle truppe, i cui servizi erano nella maggior parte dei casi necessariamente limitati a filmati stile documentario di viaggio. I media hanno mandato in onda gli interventi di analisti militari presentati come indipendenti, la maggior parte dei quali avevano diretti legami economici con le industrie militari, legami che i media non hanno reso pubblici. Nonostante questo, neanche un mezzo di informazione così facilmente manipolabile e compiacente può assicurare che una guerra continui a riscuotere l’interesse del pubblico se viene percepita come inefficace, come le esperienze in Vietnam e in ῾Irāq dimostrano.
La saturazione dell’attenzione dei media sulle disgrazie umane può avere effetti quantificabili e concreti, non solo attirando l’interesse sulle sofferenze ma spingendo a fare delle donazioni per beneficenza o perfino costruendo la base per un intervento concreto che includa i rifornimenti di viveri, l’assistenza sanitaria e così via, fino alle sanzioni e/o all’intervento militare di fronte alle resistenze di governi brutali o che rifiutano di collaborare. È fuori da ogni dubbio che le immagini della carestia che ha colpito l’Etiopia durante la metà degli anni Ottanta del 20° sec., dello tsunami che ha infierito sulle coste dell’Oceano Indiano nel 2004, dell’uragano che ha imperversato nel Sud-Est degli Stati Uniti nel 2005 distruggendo New Orleans, dello tsunami che ha devastato Myanmar, del terremoto che ha colpito la Cina nel 2008 e così via hanno destato sentimenti di solidarietà, consentito di incrementare gli aiuti di prima necessità, messo in discussione la legittimità di alcuni governi e suscitato pressioni verso azioni di ricostruzione e di compensazione. La comunità internazionale si è mobilitata per i curdi, per i rifugiati haitiani, per gli etiopi, per i somali, per i bosniaci e per gli albanesi del Kosovo, per i ruandesi vittime del genocidio e per gli abitanti del Dārfūr, per i malati di AIDS e per altri in ogni luogo. Senza dubbio la consapevolezza dell’importanza dei diritti umani, pur nelle loro contestabili e contestate definizioni, deriva in non piccola misura dalla facilità con cui le immagini vengono diffuse a livello mondiale. D’altra parte, i conflitti e le malattie che non superano la soglia della divulgazione mediatica (per es., la guerra civile in Congo e la malaria) non attirano le stesse quantità di aiuti.
Che il risultato di pressioni selettive per favorire interventi e aiuti si dimostri efficace dipende, naturalmente, dalla situazione politica in generale. Per i politici è qualche volta comodo parlare di ‘effetto CNN’ quando intervengono, come se fosse la visibilità delle sofferenze a forzare la loro mano. È opinione comune, per es., che Bill Clinton abbia ritirato l’esercito dalla Somalia nel 1993 perché la CNN aveva mostrato il cadavere di un americano trascinato per le strade di Mogadiscio. Allo stesso modo, si afferma frequentemente che il comunismo è fallito perché la televisione consentiva di vedere l’apparenza accattivante dei beni di consumo, trasmettendo informazioni sulla situazione dei Paesi liberi, come accadeva nella Germania Orientale rispetto alle notizie provenienti dalla Germania Occidentale. Nel 1989, Ted Koppel, noto giornalista della rete ABC, realizzò uno speciale sull’impatto delle nuove tecnologie sulla televisione a livello mondiale, dal significativo titolo Television - Revolution in a box.
Tuttavia, queste affermazioni semplicistiche ignorano le controprove. Il fatto che ci sia un flusso internazionale di informazioni non significa che vi sia una ‘comunità internazionale’ con una forte coscienza, un unico modo di intendere i fatti o un potere di vigilanza. L’‘effetto CNN’ è un fattore, non un preciso mandato e dunque non funziona in maniera sistematica. Se e in che misura la televisione possa mettere a disagio i potenti non è in alcun modo chiaro. L’osservazione attenta da parte dei media dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti non ha limitato le azioni di Slobodan Milošević né in Bosnia né in Kosovo. La ‘pulizia etnica’ e l’assedio di Sarajevo e di altre città bosniache sono stati tra le notizie di primo piano negli Stati Uniti e in Europa tra il 1992 e il 1995 e ciononostante gli attacchi dei serbi sono continuati, e spesso sotto gli occhi delle telecamere. In quello stesso lasso di tempo, venivano proferite roboanti minacce, si tenevano colloqui e venivano sottoscritti e violati accordi. Nonostante l’attenzione data dai media, in nessun momento durante quegli anni l’opinione pubblica ha appoggiato significativamente l’ipotesi di un intervento americano o europeo in Bosnia, intervento che è avvenuto dopo tre anni di massacri. Allo stesso modo, la presenza della televisione non ha inibito l’intervento del governo cinese in piazza Tian’anmen e nei suoi dintorni nel 1989. Le dittature in Myanmar, Zimbabwe e altrove continuano impunemente a ostacolare in ogni modo i giornalisti e la diffusione di notizie via Internet e sembrano perfino godere di quel senso di abominio che ispirano.
Bisogna inoltre considerare che le immagini di popolazioni distanti in preda a sofferenze vengono diffuse in un mondo in cui l’interesse si esaurisce presto. Le immagini di morti e di sofferenze si contendono l’attenzione del pubblico con argomenti molto più banali. Il torrente dei media commercia in sensazioni, e ogni sensazione svanisce appena ne emergono di nuove. Se c’è un villaggio globale (come aveva teorizzato Marshall McLuhan a partire dal suo libro Understanding media. The extensions of man, 1964; trad. it. Gli strumenti del comunicare, 2008) quello che si raccoglie intorno al suo ‘fuoco da bivacco’ elettronico è un pubblico in fuga, soggetto a episodici scoppi di bellicosità, compassione e riflessione; la guerra civile, la fame e i genocidi sono oggetto della sua attenzione, come anche questioni meno impegnative e più vicine alla sua vita. In rari casi, questo pubblico può portare soccorso alle vittime, agire in modo da influenzare le élites politiche e finanziarie e perfino opporsi ai piani dei governi autoritari. L’interessamento e la solidarietà non sono però le uniche possibili reazioni alle immagini di atrocità e disastri. Gli osservatori passivi che vengono spinti all’azione sono un numero di gran lunga inferiore rispetto a coloro che cambiano subito canale evitando di soffermarsi, o rispetto a coloro ai quali per sentirsi sollevati basta il fatto di essere rimasti a contemplare per un certo tempo le catastrofi che avvengono in Paesi lontani, provando una combinazione di inquietudine, senso di colpa, sdegno, pietà, irritazione, tristezza e senso di inutilità. È così che una comunità mondiale di individui abbastanza ben informati coesiste con i disastri. Gli spettatori vengono resi coscienti della loro distanza dal teatro della sofferenza e vengono, in un certo senso, coinvolti nella loro mancanza di coinvolgimento. La comunità dei bene informati si sente del tutto a suo agio in un mondo dove è normale che mentre qualcuno viene ucciso vi è qualcun altro che guarda le immagini di quell’uccisione.
La nascita dei netroots americani
Fin dagli albori di Internet, gli ottimisti erano convinti che le nuove tecnologie avrebbero potuto trasformare il torrente impetuoso dei media e che, anzi, lo avrebbero sicuramente fatto. Si parlava molto della promessa di nuove reti di media in grado di stimolare una mobilitazione politica, movimenti sociali in un certo senso virtuali. Un alone utopistico risplendeva intorno a Internet, con la sua capacità di eludere il controllo dell’autorità centrale e di offrire ad associazioni estese ma povere di risorse l’opportunità di creare una rete, coordinarsi e di concentrare le proprie energie. I teorici e gli attivisti avevano dichiarato all’unisono di attendersi da questo una reviviscenza democratica, ma tali aspettative hanno avuto una vitalità inversamente proporzionale al numero di anni di utilizzo delle nuove tecnologie. Esiste una lunga storia di questo tipo di proiezione romantica: a partire dall’introduzione della radio, ciascun nuovo mezzo di comunicazione è stato accolto con enfatici discorsi sulle sue potenzialità utopistiche. Su Internet fiorisce di tutto: intrattenimenti e sport, pornografia e gioco d’azzardo, reti terroristiche ed enciclopedie, shopping e chat rooms, instant messaging e gossip, reti sociali, banche dati e archivi. Anche se le proteste sociali e le riflessioni politiche dei cittadini occupano solo una ridotta porzione dei siti Internet e del tempo dedicato a visitarli, anch’esse vi prosperano. Dei molti milioni di bacheche e blog sulla rete mondiale una piccola percentuale diffonde notizie, commenti e appelli, creando e dando sostegno a gruppi di cittadini accomunati da affinità politiche. Chi parla russo o la lingua farsi, i dissidenti cinesi, gli storici americani e gli intellettuali dei diversi Paesi del mondo hanno tutti i loro luoghi di incontro. Cosmopoliti e fondamentalisti s’incontrano in modo simile. È indubbio che Internet sia di aiuto alle reti decentralizzate nelle loro attività politiche, nella ricerca di adesioni, nel reperimento di fondi e nell’elaborazione di tattiche e strategie; molto più difficile è però definire con sicurezza quali siano i suoi effetti politici e sociali. In una fase ancora così iniziale della storia di queste opportunità tecnologiche è molto probabile che coloro che ne sono stati i beneficiari del primo momento non continuino a esserlo in un secondo momento, ma l’esperienza riscontrabile fino a ora suggerisce che, almeno negli Stati Uniti, la politica del centro-sinistra ne abbia tratto più vantaggi della politica di centro-destra. Ciò è dovuto in parte al fatto che l’opposizione alla presidenza di George W. Bush è stata così diffusa e radicale da superare la capacità di assimilarla dell’esistente partito democratico e dei gruppi di interesse del centro-sinistra. Questa opposizione era alla ricerca di canali attraverso i quali riconoscersi e dare avvio a un’azione. La rapida e spontanea diffusione della rete Internet era adatta alla natura anarchica e anti-autoritaria di questi attivisti. Il neologismo netroots nasce per descrivere questa informale aggregazione di siti web e liste di discussione elettroniche che coinvolgono milioni di cittadini perché prendano parte alle azioni politiche della sinistra (intesa in senso lato).
I principali iniziatori dei netroots erano aderenti al partito democratico ancora prima di far parte di qualsiasi movimento in particolare. Nel tentativo di riconciliare le due componenti normalmente opposte di qualsiasi tendenza politica – il partito, costituito da professionisti della politica e incline ad atteggiamenti di compromesso, e il movimento, dilettantistico e moralista – essi identificarono sé stessi come un movimento a sostegno di un partito. Si trattava per la maggior parte di uomini tra i venticinque e i quarant’anni, non ancora così tanto legati a un settore professionale convenzionale da non essere capaci di adattarsi alle nuove tecnologie. Questi individui erano in grado di comporre rapidamente testi brillanti e vivaci richiamandosi alla mancanza di inibizioni della cultura popolare. Erano in grado di dare dinamismo al loro sito, modificarne i contenuti facilmente, ospitare dispute tra partecipanti. I blog e i siti del centro-sinistra hanno accolto con favore le contese, molto più dei loro equivalenti di centro-destra.
La prima significativa manifestazione della potenzialità di Internet per la mobilitazione politica fu un appello al Congresso lanciato sulla rete nel 1998 da Wes Boyd e Joan Blades, due coniugi titolari di una ditta di software di Berkeley. Attivandosi contro la campagna di impeachment voluta dai repubblicani, essi fecero appello al Congresso perché esprimesse la propria disapprovazione formale nei confronti del presidente Bill Clinton e poi «move on», considerasse cioè chiusa la questione, da cui il nome del sito: MoveOn.org. In tutto, la loro petizione raccolse mezzo milione di firme. Clinton fu comunque messo sotto inchiesta ma, sull’onda del loro successo in quanto a numero di adesioni, Boyd e Blades organizzarono altre petizioni e iniziarono a raccogliere fondi, per i candidati al Congresso prima e per la candidatura del democratico John Kerry alle elezioni presidenziali del 2004 (che portarono alla rielezione di Bush) poi. Nel 2004 MoveOn aveva raggiunto i tre milioni di aderenti che avevano donato milioni di dollari, qualche volta in una sola notte, per i candidati e per la loro pubblicità, avevano finanziato il personale impegnato nella campagna elettorale e avevano fatto centinaia di migliaia di telefonate nei cosiddetti dodici swing States, che sono gli Stati altalenanti tra voto democratico e voto repubblicano. Per tutto il 2004 MoveOn ha condotto in alcuni Stati prescelti una campagna di propaganda contro Bush, che probabilmente ha preparato il terreno a una forte opposizione; i suoi agenti elettorali hanno ritenuto che questa campagna, nella prima fase, abbia da sola indebolito considerevolmente la quota di consenso nei confronti di Bush. Durante la fase del «get-out-the-vote», in cui cioè si mettono in atto delle strategie per convincere il maggior numero di persone possibile ad andare a votare, MoveOn ha affermato di aver procurato a Kerry 470.000 elettori ritenendo che il proprio sostegno abbia allora assicurato più voti di quanti fossero necessari per ottenere la vittoria negli Stati del New Hampshire e del Wisconsin.
Il primo candidato presidenziale vero e proprio a trarre vantaggio dalle reti elettroniche è stato Howard Dean, ex governatore del Vermont e figura marginale nel partito democratico, protagonista di una vertiginosa ascesa all’interno del partito nel 2004 in virtù della sua opposizione alla guerra in ῾Irāq e del suo uso pionieristico di Internet. I sostenitori di Dean furono l’avanguardia di quella forza in seguito conosciuta come netroots. Nel 2004 vi erano circa 2 milioni e 250.000 attivisti di orientamento democratico che operavano in rete negli Stati Uniti, un numero di aderenti molte volte superiore a quello di qualsiasi altro gruppo di interesse liberale, sebbene non necessariamente più grande della somma di questi gruppi, e corrispondente a solo un settimo circa del numero degli iscritti al sindacato negli Stati Uniti. Quello che però i netroots non ottenevano con la quantità lo ottenevano con la convinzione, l’energia e le competenze. Nel 2006 grazie a un software più avanzato e a un aumento nel numero degli aderenti, MoveOn ha dichiarato di aver promosso una campagna telefonica con 7 milioni di telefonate e di aver speso 25 milioni di dollari per sostenere i candidati della casa democratica. MoveOn ha inoltre contribuito a orientare verso sinistra il partito democratico aiutando un vero e proprio dilettante, il milionario pacifista Ned Lamont, a sconfiggere Joseph Lieberman, il senatore repubblicano favorevole alla guerra nelle primarie in Connecticut. Non bisogna però ritenere che la destra sia rimasta apaticamente inattiva riguardo l’utilizzo di Internet. Nel 2004 aveva già colto l’importanza delle nuove tecnologie. I giornalisti politici hanno parlato molto della campagna promossa via Internet da H. Dean, che aveva riunito in un’unica lista di comunicazione elettronica gli indirizzi e-mail attivi di 600.000 sostenitori, mentre hanno ignorato il successo della campagna di Bush nella costituzione di una propria mailing-list, composta da 7 milioni e mezzo di nominativi. Mentre, da una parte, i democratici avevano utilizzato gli strumenti disponibili su Internet per la ricerca di attivisti negli swing States, i repubblicani, dall’altra, si erano mossi in maniera equivalente nelle aree rurali ed extraurbane.
Inoltre, sebbene Bush nel 2004 sia stato rieletto presidente, i netroots hanno contribuito a ridurre il suo potere nel suo secondo mandato e continuano a rappresentare attualmente una forza di intervento nella politica. Quando Bush mise in gioco il proprio peso politico per una campagna sulla privatizzazione della previdenza sociale si scontrò con un’opposizione unificata che era stata generata in parte dalle campagne dei netroots. Anche i blog hanno avuto un ruolo importante nell’evidenziare lo scandalo dell’abuso di potere dei repubblicani legato al licenziamento di alcuni procuratori federali che si erano opposti alle richieste di parte di iniziare azioni legali contro alcuni democratici. Sebbene i diversi autori di blog non siano stati inizialmente simpatizzanti del senatore Barack Obama durante la sua campagna per la candidatura democratica alla presidenza, la sua abilità nel raccogliere fondi via Internet è stata un elemento cruciale del suo successo, che lo ha portato nel novembre del 2008 a diventare presidente degli Stati Uniti.
Il futuro dei gruppi di controllo
Nessuna indagine sugli sviluppi politici nei media sarebbe completa senza alcuni commenti sull’ascesa dei magnati dei media che si occupano di politica e sul declino dei giornali.
Vi è una lunga tradizione di editori che usano le loro pubblicazioni per diffondere le loro opinioni politiche, abitualmente in modi che non vengono definiti in maniera lusinghiera. I nuovi sviluppi, nel caso di Silvio Berlusconi e di Rupert Murdoch, sono una questione di proporzioni. Berlusconi controlla la maggior parte delle emittenti televisive in Italia. Gli interessi di Murdoch hanno un’influenza importante su giornali, televisione e Internet in tre continenti. Entrambi sono evidentemente uomini di destra ma operano in maniera differente: Berlusconi ha utilizzato il potere dei media per arrivare al successo politico, mentre Murdoch promuove quei candidati e quelle iniziative che vengono incontro ai suoi interessi economici. Tra il 2001 e il 2006 Thaksin Shinawatra, ‘re’ dei media miliardario, ha potuto governare la Thailandia in maniera corrotta e autoritaria fino a quando non è stato cacciato da un golpe militare. Altre testate giornalistiche della destra hanno avuto il ruolo di piattaforme dalle quali gli industriali difendono con aggressività i loro diritti. Con la fondazione del «Washington times», da sempre in deficit, la Chiesa dell’Unificazione di Sun Myung Moon ha insediato una voce di estrema destra nella capitale più potente del mondo, a beneficio dell’amministrazione Reagan negli anni Ottanta del 20° secolo. La pagina editoriale del «Wall street journal» nello stesso periodo ha dato ampio sostegno al pensiero conservatore, conferendo rispettabilità a concetti assai discutibili come la supply-side economics, ossia la politica economica che punta alla crescita dell’offerta la quale a sua volta genera una crescita della domanda, o la ‘guerra globale al terrore’, anche se le pagine di cronaca del giornale evitavano di fare della propaganda.
L’esistenza di questi canali ha favorito il rafforzamento dell’inclinazione a destra degli esperti televisivi. Negli Stati Uniti, i programmi di commento politico hanno rappresentato un significativo punto di forza della destra a partire dagli anni Ottanta del 20° secolo. Durante l’amministrazione Clinton, questi programmi hanno favorito la campagna per l’impeach-ment del presidente e, durante la crisi elettorale del 2000, si sono decisamente indirizzati a favore delle posizioni di Bush nel contestato testa a testa elettorale in Florida con il candidato democratico Al Gore.
È fuor di dubbio che Berlusconi e Murdoch siano uomini potenti. I giornali di Murdoch in Gran Bretagna hanno esercitato una considerevole influenza sugli orientamenti politici per trent’anni. I suoi giornali americani sono molto meno influenti (sebbene il fatto di essere proprietario del giornale scandalistico in deficit «New York post» dia peso alla sua presenza nella principale città americana), ma non è una cosa di poco conto che l’acquisto del network televisivo Fox gli abbia permesso di trasformare in un successo economico il suo network via cavo Fox News di orientamento di destra, capace di influenzare le opinioni di Washington nonostante il numero ridotto di spettatori. È troppo presto per vedere cosa farà con l’acquisizione del «Wall street journal», avvenuta nel 2007. Allo stesso tempo, in generale, e contemplando la possibilità di un’importante eccezione come Murdoch, l’influenza politica diretta dei giornali probabilmente diminuirà nettamente a causa della loro sempre minore capacità di generare profitti. Perdendo lettori e introiti pubblicitari polarizzati da Internet, essi hanno probabilmente già superato l’apice della loro diretta influenza politica. D’altra parte, anche se il pubblico televisivo si frammenta, la televisione rimane una forza politica significativa sia direttamente, per la sua capacità di identificare e inquadrare le questioni, sia indirettamente, per i costi della pubblicità, che favoriscono la corruzione del sistema politico a causa delle enormi somme che i candidati politici devono raccogliere. È azzardato fare predizioni a proposito dell’aspetto del panorama mediatico ma, per quanto riguarda gli sviluppi prevedibili, la televisione resterà probabilmente una forza sotto tutti gli aspetti esplorati in questo saggio.
Bibliografia
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