Abstract
In questi ultimi anni gli interventi legislativi in materia di processo civile presentano un dato ricorrente: l’introduzione di procedure conciliative nella convinzione che possano deflazionare il contenzioso e ridurre i tempi che contrassegnano i giudizi civili. In attuazione della l. delega 18.6.2009, n. 69, il d.lgs. 4.3.2010, n. 28 prevede una disciplina generale in tema di mediazione, introducendo per alcune controversie l’obbligatorietà del tentativo. Obbligatorietà che tuttavia la Corte costituzionale ha cancellato con la sentenza n. 272/2012, ritenendo che il legislatore delegato avesse ecceduto i limiti della delega.
Tra gli strumenti non giurisdizionali di risoluzione delle controversie un ruolo di primo piano è indubbiamente assunto dalla conciliazione. Con questo termine si suole indicare l’accordo che le parti in lite raggiungono grazie all’intervento di un terzo soggetto, che prospetta una soluzione da loro accettata.
Fino alla l. 18.6.2009, n. 69 nel nostro ordinamento si discorreva di conciliazione e di conciliatore, quest’ultimo da non confondere con l’organo al quale fino all’entrata in vigore del giudice di pace era attribuita la competenza a decidere in via giurisdizionale le controversie di modesta entità. La l. n. 69/2009, facendo propria la direttiva comunitaria 2008/52/CE, ha recepito una differente terminologia: mediazione è l’attività svolta per raggiungere un accordo tra le parti e conciliazione è il risultato di siffatta attività. Un mutamento di terminologia che a ben vedere non sembra comportare novità sostanziali.
La conciliazione può essere raggiunta sia in sede giudiziale sia in sede stragiudiziale e trova la sua disciplina tanto nel codice di rito, tanto in leggi speciali.
Ricordiamo innanzitutto che nel processo civile il giudice incaricato di risolvere la controversia può o deve tentare la conciliazione.
E così il giudice di pace nella prima udienza «interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione» (art. 320, co. 1, c.p.c.).
Nel processo ordinario di cognizione dinanzi al tribunale, invece, il giudice fissa la comparizione delle parti al fine di interrogarle liberamente «e di provocarne la conciliazione» solo se vi è richiesta congiunta delle stesse parti o se lo stesso giudice lo ritiene opportuno (art. 185, co. 1); un tentativo di conciliazione che comunque «può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione» (art. 185, co. 2).
Nel processo del lavoro (e delle locazioni, art. 447 bis c.p.c.), nell’udienza fissata per la discussione della causa, «il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva»; una previsione rafforzata dall’onere che ricade sulle parti di comparire personalmente e dalle conseguenze negative che la legge ricollega alla mancata comparizione (comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio) (art. 420, co. 1).
Nel giudizio di separazione, anche consensuale, il presidente del tribunale all’udienza di comparizione «deve sentire i coniugi …, tentandone la conciliazione» (artt. 708, 711 c.p.c.).
Anche il giudice di appello nella prima udienza «procede al tentativo di conciliazione ordinando, quando occorre, la comparizione personale delle parti» (art. 350, co. 3).
In caso di conciliazione, il giudice redige processo verbale che costituisce titolo esecutivo (art. 185, co. 3; art. 420, co. 3; art. 88 disp. att. c.p.c.). Se invece la conciliazione è raggiunta in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice con ordinanza non impugnabile «dichiara o conferma l’esecutorietà del decreto oppure riduce la somma o la quantità a quella stabilita dalle parti» (art. 652 c.p.c.).
La conciliazione può essere perseguita anche dal consulente tecnico di ufficio quando sia necessario esaminare documenti contabili e registri (art. 198, co. 1) oppure in caso di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696 bis c.p.c.). In questi casi viene redatto processo verbale, sottoscritto dalle parti e dal consulente, al quale il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo (art. 199; art. 696 bis, co. 3 – è anche titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale).
Una particolare ipotesi di conciliazione è quella disciplinata nell’art. 322 c.p.c.: la conciliazione in sede non contenziosa dinanzi al giudice di pace; la parte può proporre istanza per la conciliazione anche verbalmente al giudice di pace competente per territorio, pure per controversie che non rientrano nella sua competenza per valore. Se la conciliazione riesce, allora si redige processo verbale che costituisce titolo esecutivo solo se la controversia rientra nella competenza del giudice di pace. Negli altri casi il processo verbale ha valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio.
Prima della l. n. 69/2009 il legislatore ha previsto il tentativo di conciliazione come strumento da attivare al di fuori e prima del processo in alcune specifiche materie, nella convinzione che tale istituto, alternativo al giudizio, potesse ridurre il numero delle cause portate dinanzi all’autorità giudiziaria. Peraltro il legislatore non ha mostrato al riguardo chiarezza di idee perché non solo ha strutturato il tentativo in modo differente nelle diverse materie, in alcuni casi come facoltativo ed in altri come obbligatorio, in alcuni casi come condizione di proponibilità e in altri di procedibilità, ma ha in alcune materie nel tempo modificato la disciplina.
Ad esempio, in materia di locazione, nella l. 27.7.1978, n. 392, c.d. sull’equo canone, si previde negli artt. 43 e 44, relativamente alle controversie sulla misura del canone, il tentativo di conciliazione a pena di improponibilità della domanda, da promuovere dinanzi al giudice competente per la causa di merito. Tali norme sono state abrogate dall’art. 89 l. 26.11.1990, n. 353.
La l. 3.5.1982, n. 203, sui contratti agrari, contempla all’art. 46, a pena di improponibilità, il tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi all’ispettorato provinciale dell’agricoltura.
La l. 31.7.1997, n. 249 (Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo) prevede all’art. 1, co. 11, che le controversie in materia di comunicazione elettroniche, che possono insorgere fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze oppure tra soggetti autorizzati o destinatari di licenze tra loro, debbano essere sottoposte, a pena di improcedibilità, ad un tentativo obbligatorio di conciliazione.
La l. 18.6.1998, n. 192, disciplina della subfornitura nelle attività produttive, contempla all’art. 10 il tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie relative ai contratti di subfornitura, da svolgersi presso la camera di commercio industria, artigianato ed agricoltura nel cui territorio ha sede il subfornitore; ad ogni buon conto il legislatore non ricollega alcuna conseguenza al mancato esperimento del tentativo.
La l. 30.7.1998, n. 281, disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, contemplava una procedura conciliativa dinanzi la camera di commercio, che aveva carattere facoltativo e non obbligatorio. Abrogata tale legge dal d.lgs. 6.9.2005, n. 235, codice del consumo (c. cons.), il legislatore ha regolato una procedura conciliativa per la risoluzione delle controversie in materia di consumo, anche in via telematica, da promuovere dinanzi ad appositi organi di composizione extragiudiziale; una procedura comunque facoltativa, non potendo il consumatore «essere privato in nessun caso del diritto di adire il giudice competente».
La l. 24.11.2000, n. 340, in tema di delegificazione di norme e di semplificazione di procedimenti amministrativi, all’art. 35 prescrive che nelle controversie in materia di masi chiusi l’attore sia tenuto ad esperire il tentativo di conciliazione, in base all’art. 46 l. n. 203/1982.
Ma la situazione che mostra in modo evidente la poca chiarezza da parte del legislatore è rappresentata dalle controversie di lavoro. In un primo momento il tentativo di conciliazione è stato strutturato come facoltativo: nella l. 15.7.1966, n. 604 sui licenziamenti individuali (art. 7); nella l. 20.5.1970, n. 300, sullo statuto dei lavoratori (artt. 7, 18); nella l. 11.8.1973, n. 533, in via generale per le controversie di lavoro (art. 410 c.p.c.); nella l. 10.4.1991, n. 125, in tema di azioni per la realizzazione della parità uomo donna nel lavoro (art. 4, co. 4). La strada del tentativo facoltativo è stata abbandonata a partire dalla l. 11.5.1990, n. 108, in tema di impugnative di licenziamento individuale nei rapporti di lavoro in regime di stabilità obbligatoria, nella quale si contempla un tentativo obbligatorio di conciliazione (art. 5). Quindi il tentativo di conciliazione è stato previsto come obbligatorio nelle controversie di lavoro pubblico (d.lgs. 3.2.1993, n. 29, artt. 69 e 69 bis; artt. 65 e 66 d.lgs. 30.3.2001, n. 165) e poi nelle controversie di lavoro privato (d.lgs. 31.3.1998, n. 80 e d.lgs. 29.10.1998, n. 387 che hanno modificato gli artt. 410 e 412 c.p.c. e introdotto gli artt. 410 bis, 412 bis, ter e quater c.p.c.). Sta di fatto che con la l. 4.11.2010, n. 183 (art. 31) il legislatore è tornato sui suoi passi perché ha reintrodotto la facoltatività del tentativo di conciliazione, eliminando l’obbligatorietà, non solo per le controversie di lavoro privato (art. 410 c.p.c.), ma anche per quelle di lavoro pubblico.
Ecco allora che nel nostro ordinamento, senza un criterio ragionevole, si alternano ipotesi di conciliazione facoltativa e di conciliazione obbligatoria.
A nostro avviso non sembra che la conciliazione obbligatoria sia la strada da seguire per porre riparo alla crisi della giustizia civile. La conciliazione ha effetti deflattivi quando riesce, mentre in caso contrario si assiste inevitabilmente ad un prolungamento dei tempi necessari per conseguire dal giudice una pronuncia definitiva. D’altra parte non si può pensare che il solo obbligo di tentare la conciliazione trasformi la posizione delle parti in ordine alla soluzione della controversia: se le parti non intendono conciliare la lite non sarà certamente la previsione dell’obbligatorietà del tentativo ad indurle ad accordarsi. Inoltre non è detto che, in concreto, la conciliazione faccia conseguire sempre un buon risultato: «le conciliazioni stragiudiziali, per essere buone, esigono un’amministrazione della giustizia efficiente, in modo che non vi sia una parte indotta a speculare sulle durate processuali per fare accettare al suo avversario una conciliazione cattiva» (Chiarloni, S., Stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, 455). Il processo deve continuare ad essere considerato la sede ordinaria e primaria di risoluzione delle controversie, mentre le procedure conciliative, perché possano validamente operare, devono essere facoltative, rischiando in caso contrario di tradursi in inutili formalismi. E ciò senza considerare i gravi dubbi che sorgono allorché si tende a portare fuori della giurisdizione statale la risoluzione delle controversie civili o di alcun di esse, finendo per delegarla a privati, in nome della logica del mercato e con una manifesta deroga alla prerogative dello Stato in una materia così delicata qual è la giustizia civile.
Anche nella l. 18.6.2009, n. 69 il legislatore si è occupato di conciliazione e mediazione, ma con una differente impostazione rispetto ai precedenti interventi: dettare una disciplina generale. E così ha delegato il governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale (art. 60, co. 1).
Una previsione dovuta alla legislazione comunitaria, la quale assegna alle procedure extragiudiziali ed alternative un ruolo fondamentale per assicurare un miglior accesso alla giustizia. La direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008, all’art. 1, con riferimento alle controversie transfrontaliere, dispone che «la presente direttiva ha l’obiettivo di facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario».
Tra i principi e criteri direttivi fissati nella predetta legge delega alcuni riguardano gli organismi davanti ai quali la mediazione deve svolgersi, che devono essere professionali e indipendenti ed iscritti in un Registro apposito istituito presso il Ministero della giustizia; altri i mediatori-conciliatori, con previsione sia di un regime di incompatibilità tale da garantire la loro neutralità, indipendenza e imparzialità nello svolgimento delle funzioni, sia del regime delle indennità spettanti, da porre a carico delle parti, indennità stabilite, anche con atto regolamentare, in misura maggiore per il caso in cui sia stata raggiunta la conciliazione tra le parti; un altro ancora il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione; un altro la previsione, a favore delle parti, di forme di agevolazione di carattere fiscale; un altro i rapporti con il giudizio che dovesse essere promosso a seguito del fallimento del procedimento di mediazione; altri il procedimento di mediazione, che non può avere una durata eccedente i quattro mesi, e che in caso di conclusione positiva viene definito con verbale di conciliazione che ha efficacia esecutiva per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e costituisca titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Nessun criterio ha riguardato la natura della conciliazione.
In attuazione della delega contenuta nella l. n. 69/2010, il legislatore ha emanato il d.lgs. 4.3.2010, n. 28, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Facendo proprie le definizioni contenute nella direttiva n. 52/2008, il d.lgs. n. 28/2010 all’art. 1 precisa che mediazione è «l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa»; mediatore è «la persona o le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo»; conciliazione è «la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione».
Già nella definizione si descrivono due distinte figure di mediazione: quella “facilitativa”, che si ha quando il terzo si limita ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole; quella “valutativa”, che ricorre quando il terzo perviene a formulare una proposta al fine di pervenire alla risoluzione della controversia. Comunque come chiarisce la lett. b) dell’art. 1, il mediatore non può «rendere giudizi o decisioni vincolanti» (mediazione “aggiudicativa”).
L’art. 1 poi completa le definizioni precisando che «organismo» è «l’ente pubblico o privato, presso il quale può svolgersi il procedimento di mediazione» e «registro» è «il registro degli organismi istituito con decreto del Ministro della giustizia».
Il d.lgs. n. 28/2010 contempla quattro tipi di mediazione: facoltativa (art. 2); obbligatoria (art. 5, co. 1); delegata dal giudice (art. 5, co. 2); concordata tra le parti (art. 5, co. 5).
I) Per quel che concerne la mediazione facoltativa, l’art. 2 stabilisce che «chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili». Dunque in via generale è possibile avviare la mediazione, secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 28/2010, alla duplice condizione che deve trattarsi di una controversia civile e commerciale e soprattutto deve avere ad oggetto diritti disponibili.
II) La mediazione obbligatoria, per quanto si dirà nel paragrafo successivo, era prevista dall’art. 5, co. 1, per alcune specifiche controversie: in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari. In tutte queste ipotesi la parte, prima di iniziare il giudizio, doveva esperire il procedimento di mediazione. Il tentativo era condizione di procedibilità della domanda giudiziale, improcedibilità che doveva essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, se rilevava che la mediazione era già iniziata, ma non si era conclusa, doveva fissare la successiva udienza dopo la scadenza del termine previsto per la durata del procedimento (quattro mesi ex art. 6). Allo stesso modo doveva provvedere quando la mediazione non era stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
La mediazione obbligatoria aveva comunque natura eccezionale e le controversie suindicate erano tassative.
In ogni caso la mediazione obbligatoria non si applicava a) alle azioni previste dagli artt. 37, 140 e 140 bis c. cons.; b) ai procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata; c) ai procedimenti in camera di consiglio; d) all’azione civile esercitata nel processo penale.
Inoltre la mediazione obbligatoria non si applicava, sia pure limitatamente alla fase a cognizione sommaria, e) ai procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; f) ai procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’art. 667 c.p.c.; g) ai procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 703, co. 3, c.p.c. Per questi procedimenti, peraltro, non vi era unanimità di opinione riguardo al soggetto su cui ricadeva l’onere di iniziare il procedimento di mediazione.
Lo svolgimento della mediazione in ogni caso non precludeva la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale.
III) La mediazione delegata ricorre quando il giudice, anche in sede di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, ritiene opportuno invitare le stesse a procedere alla mediazione. In questo caso l’invito deve essere rivolto alle parti prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Se le parti aderiscono all’invito, il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine previsto per la durata del procedimento di mediazione, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
Si tratta di un invito non vincolante e il rifiuto della parte non può mai essere valutato ai sensi dell’art. 116 c.p.c., come argomento di prova, o come violazione del dovere di lealtà e probità (art. 88 c.p.c.). Un invito che il giudice dovrebbe esercitare con estrema ponderazione, dal momento che su di lui ricade il dovere di decidere la controversia sottoposta al suo esame.
IV) La mediazione concordata si ha quando una clausola di mediazione o conciliazione è inserita in un contratto, statuto o atto costitutivo dell’ente. In questa ipotesi, se il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, deve assegnare alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissare la successiva udienza dopo la scadenza del termine previsto per la durata della mediazione (art. 6). Allo stesso modo il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi.
La domanda è presentata davanti all’organismo indicato dalla clausola, se iscritto nel registro, ovvero, in mancanza, davanti ad un altro organismo iscritto, salva comunque la facoltà per le parti di concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo, l’individuazione di un diverso organismo iscritto.
La scelta del legislatore di generalizzare la mediazione obbligatoria è stata fin dall’inizio oggetto di diffuse critiche. Sollevata da più giudici l’eccezione di legittimità costituzionale, la Consulta con sentenza 6.12.2012, n. 272 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 5, co. 1, d.lgs. n. 28/2010, per eccesso di delega, nonché, ai sensi dell’art. 27 l. 11.3.1953, n. 87, di altre previsioni dello stesso d.lgs. concernenti la «conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale».
In tale pronuncia il Giudice delle leggi ha, in primo luogo, analizzato la direttiva 2008/52/Ce, le risoluzioni del Parlamento europeo del 25.10.2011 (2011/2117-Ini) e del 13.9.2011 (2011/2026-Ini) e la sentenza della Corte di giustizia 18.3.2010, cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08, per affermare che da questi atti «non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione»; infatti, «fermo il favor dimostrato verso detto istituto, in quanto ritenuto idoneo a fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale, il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il procedimento può essere strutturato …, ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del modello obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio». Ragion per cui il richiamo contenuto nella legge delega alla direttiva comunitaria non può «essere interpretato come scelta a favore del modello di mediazione obbligatoria».
In secondo luogo, ha evidenziato che «la legge delega, tra i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, 3° comma, non esplicita in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione». Carattere obbligatorio che neppure si può desumere implicitamente dall’art. 60, co. 3, lett. a), laddove si «aggiunge la frase “senza precludere l’accesso alla giustizia”».
In terzo luogo la Corte ha richiamato l’art. 60, co. 3, lett. n), della legge delega che, a proposito del dovere dell’avvocato di informare il cliente, discorre di «possibilità» di avvalersi della mediazione, possibilità che «significa, evidentemente, facoltà, e non obbligo, di avvalersi».
In quarto luogo la Corte ha considerato che «si è posto in essere un istituto (la mediazione obbligatoria …) che non soltanto è privo di riferimenti ai principi e criteri della delega, ma, almeno in due punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa delegata». Escluso qualsiasi parallelo con la conciliazione obbligatoria prevista negli artt. 410, 410 bis e 412 bis c.p.c. (nel frattempo eliminata), atteso che quelle disposizioni si inserivano nel contesto di una più ampia riforma, comunque circoscritta alle controversie di lavoro, la Corte sottolinea che la norma censurata «delinea un istituto a carattere generale, destinato ad operare per un numero consistente di controversie, in relazione alle quali, però, … il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione non trova alcun ancoraggio nella legge delega».
La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 5, co. 1, ha quindi comportato, come detto, in via consequenziale l’illegittimità costituzionale di altre norme. Ragion per cui, – l’esperimento del procedimento di mediazione non è più condizione di procedibilità (art. 5, co. 1); – l’avvocato non deve informare l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità (art. 4, co. 3, secondo periodo); – il giudice, dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, non può desumere argomenti di prova ex art. 116, co. 2, c.p.c. (art. 8, co. 5); – il mediatore, prima della formulazione della proposta, non deve informare le parti che in caso di rifiuto della stessa possono verificarsi conseguenze negative nel successivo giudizio (art. 11, co. 1, ultimo periodo); - in caso di rifiuto della proposta avanzata dal mediatore non vi sono conseguenze nel processo in ordine alle spese (art. 13).
Come si è visto, la sentenza della Consulta ha inciso su una serie di norme del d.lgs. n. 28/2010, con la conseguenza che compito dell’interprete è di adeguare il procedimento di mediazione disciplinato nel predetto d.lgs. eliminando le previsioni dichiarate incostituzionali.
Anche perché oggetto di uno specifico criterio direttivo contenuto nella legge delega, è rimasto il dovere per l’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, di informare il cliente, chiaramente e per iscritto (il documento deve poi essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio), della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione e delle agevolazioni fiscali (art. 20 d.lgs. n. 28/2010). Si tratta di un dovere particolarmente rilevante, perché la sua violazione è sanzionata con l’annullabilità del contratto tra l’avvocato e l’assistito. Una annullabilità che può ovviamente essere fatta valere solo su iniziativa del cliente.
Ai sensi dell’art. 3 «al procedimento di mediazione si applica il regolamento dell’organismo scelto dalle parti», regolamento che «deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento», «nonché modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico».
La mediazione, comunque, può svolgersi secondo modalità telematiche previste dal regolamento dell’organismo, non essendo peraltro gli atti del procedimento soggetti a formalità.
La domanda di mediazione è presentata mediante deposito di un’istanza presso l’organismo scelto dalla parte, in caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione deve svolgersi davanti all’organismo presso il quale è stata presentata la prima domanda. Per determinare il tempo della domanda si ha riguardo alla data della ricezione della comunicazione (art. 4, co. 1).
La legge non fissa alcun criterio di competenza territoriale, con la conseguenza che la parte è libera di scegliere l’organismo davanti al quale deve svolgersi il procedimento di mediazione. Una mancanza che lascia oltremodo perplessi.
L’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa.
Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione interrompe la prescrizione, al pari della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di mancata conciliazione presso la segreteria dell’organismo.
Il procedimento di mediazione ha una durata non superiore a quattro mesi (art. 6); questo termine decorre dalla data di deposito della domanda di mediazione, ovvero dalla scadenza di quello fissato dal giudice per il deposito della stessa e non è soggetto a sospensione feriale.
Ai sensi dell’art. 7 il predetto periodo non si computa ai fini di cui all’art. 2 l. 24.3.2001, n. 89. Una previsione che, sia pure dopo la pronuncia della Corte costituzionale, può condividersi dal momento che la mediazione è ora facoltativa e non obbligatoria.
All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre quindici giorni dal deposito della domanda (art. 8). La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari. Il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali.
Il procedimento si svolge senza formalità presso la sede dell’organismo di mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell’organismo. Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura.
L’intero procedimento è caratterizzato da riservatezza. Ai sensi dell’art. 9, chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o comunque nell’ambito del procedimento di mediazione è tenuto all’obbligo di riservatezza rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo. Non solo perché, rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate e salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni, il mediatore è altresì tenuto alla riservatezza nei confronti delle altre parti.
Strettamente legato al dovere di riservatezza è poi la previsione, contenuta nell’art. 10, per la quale le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio. Ugualmente, il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione, né davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità.
Particolarmente importante è la previsione per la quale lo svolgimento della mediazione non preclude la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari e neppure la trascrizione della domanda giudiziale.
In primo luogo può accadere che il procedimento di mediazione si concluda con il raggiungimento di un accordo; in questo caso il mediatore forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere; al processo verbale è allegato il testo dell’accordo.
Il verbale di accordo, il cui contenuto non è contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, è omologato, su istanza di parte e previo accertamento anche della regolarità formale, con decreto del presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo. Nelle controversie transfrontaliere di cui all’art. 2 della direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008, il verbale è omologato dal presidente del tribunale nel cui circondario l’accordo deve avere esecuzione.
Il verbale è titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. È esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di € 50.000,00, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente.
Quando è esercitata l’azione di classe prevista dall’art. 140 bis c. cons., la conciliazione, intervenuta dopo la scadenza del termine per l’adesione, ha effetto anche nei confronti degli aderenti che vi abbiano espressamente consentito.
In secondo luogo, se l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione; deve invece formularla quando le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento.
In questo caso la proposta di conciliazione è comunicata alle parti per iscritto. Le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata. Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento.
Se invece le parti aderiscono alla proposta del mediatore si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere.
Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’art. 2643 c.c, per procedere alla trascrizione dello stesso, la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento.
In terzo luogo, se la conciliazione non riesce, il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della proposta eventualmente avanzata; il verbale è sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Nello stesso verbale, il mediatore dà atto della mancata partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione.
In ogni caso il processo verbale è depositato presso la segreteria dell’organismo e di esso è rilasciata copia alle parti che lo richiedono.
Per quel che concerne gli organismi di mediazione, va detto che essi devono essere iscritti in un apposito registro. L’organismo, unitamente alla domanda di iscrizione nel registro, deve depositare presso il Ministero della giustizia il proprio regolamento di procedura e il codice etico, comunicando ogni successiva variazione. Nel regolamento devono essere previste le procedure telematiche eventualmente utilizzate, in modo da garantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati. Al regolamento devono essere allegate le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati. Ai fini dell’iscrizione nel registro il Ministero della giustizia valuta l’idoneità del regolamento.
Inoltre, presso il Ministero della giustizia è istituito, con decreto ministeriale, l’elenco dei formatori per la mediazione.
Il legislatore delegato ha previsto che i consigli degli ordini degli avvocati possano istituire organismi presso ciascun tribunale, avvalendosi di proprio personale e utilizzando i locali loro messi a disposizione dal presidente del tribunale. Tali organismi sono iscritti al registro a semplice domanda.
Ugualmente i consigli degli ordini professionali possono istituire, per le materie riservate alla loro competenza, previa autorizzazione del Ministero della giustizia, organismi speciali, avvalendosi di proprio personale e utilizzando locali nella propria disponibilità.
Tali ultimi organismi e quelli istituiti ai sensi dell’art. 2, co. 4, l. 29.12.1993, n. 580, dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura sono iscritti al registro a semplice domanda.
Relativamente al mediatore, l’art. 14 d.lgs. n. 28/2010 stabilisce che il mediatore e i suoi ausiliari non possono assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indirettamente, con gli affari trattati, fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla prestazione dell’opera o del servizio. Non possono inoltre percepire compensi direttamente dalle parti.
Il mediatore in ogni caso deve sottoscrivere, per ciascun affare per il quale designato, una dichiarazione di imparzialità; deve informare immediatamente l’organismo e le parti delle ragioni di possibile pregiudizio all’imparzialità nello svolgimento della mediazione; deve formulare le proposte di conciliazione nel rispetto del limite dell’ordine pubblico e delle norme imperative; deve corrispondere immediatamente a ogni richiesta organizzativa del responsabile dell’organismo.
I criteri e le modalità di iscrizione nel registro degli organismi di mediazione e nell’elenco degli enti di formazione nonché le indennità spettanti agli organismi sono fissati nel d.m. n. 180/2010, modificato dal d.m. n. 145/2011.
Artt. 185, 320, 322, 410, 411, 708 c.p.c.; art. 88 disp. att. c.p.c.; art. 60 l. 18.6.2009, n. 69; d.lgs. 4.3.2010, n. 28.
Bove, M. (a cura di), La mediazione per la composizione delle controversie civili e commerciali, Padova, 2011; Cuomo Ulloa, F., La conciliazione. Modelli di composizioni dei conflitti, Padova, 2008; Dalfino, D., La «nuova» mediazione in materia civile e commerciale nel contesto delle Adr, in Giusto proc. civ., 2011, 113; Danovi, F.-Ferrarsi, F., La cultura della mediazione e la mediazione come cultura, Milano, 2013; Impagnatiello, G., La domanda di mediazione: forma, contenuto ed effetti, in Giusto proc. civ., 2011, 701; Reali, G., La mediazione obbligatoria e delegata: riflessi sul processo civile, in Annali facoltà giurisprudenza Taranto, 2011, 531; Santagada, F., La mediazione, Torino, 2012; Trisorio Liuzzi, G., La nuova disciplina della mediazione. Gli obblighi informativi dell’avvocato, in Giusto proc. civ., 2010, 979.