MEDIAZIONE
. Diritto internazionale. - È l'interposizione di uno stato fra altri contendenti allo scopo di condurli a un accordo. Essa può essere offerta o domandata spontaneamente, oppure dovuta o imposta in virtù di obblighi convenzionali. In mancanza di tali obblighi lo stato richiesto è libero di rifiutare la sua mediazione e gli stati ai quali è offerta sono liberi di declinarla. Lo stato mediatore dirige i negoziati, riceve le reciproche dichiarazioni delle parti, suggerisce infine il modo di por termine alla controversia. Gli stati interessati non sono punto obbligati a seguire i consigli del mediatore: se li seguono e adottano la soluzione proposta, il mediatore non è tenuto a garantirne l'esecuzione.
Giova differenziare la mediazione da uno dei più antichi mezzi pacifici di risoluzione delle controversie internazionali, quali sono i buoni uffici, e da uno dei più recenti, quale la conciliazione. Coi buoni uffici una terza potenza si sforza di avvicinare le parti in lite e di preparare la via a loro negoziazioni dirette, mentre nella mediazione la terza potenza prende essa stessa l'iniziativa delle negoziazioni per avviarle a un accordo. Fra i mezzi moderni la conciliazione è indubbiamente il più vicino alla mediazione, ma se ne distingue per un'organizzazione che la mediazione, nonostante le varie proposte fatte in proposito, non ha mai potuto raggiungere. Inoltre la mediazione non può essere esercitata che da stati o sovrani, mentre la conciliazione si esercita da commissioni di privati, che godono di una grande riputazione e della fiducia delle parti contendenti. Infine uno stato può offrire la sua mediazione senza che alcuno dei contendenti gliela domandi, mentre l'organo di conciliazione - almeno secondo la maggior parte dei trattati - non esamina una controversia che su domanda di almeno una delle parti. In fatto la mediazione è caduta in discredito per la profonda e giustificata diffidenza dei piccoli stati, rispetto ai quali la mediazione è troppo spesso apparsa come un intervento autoritario e come un mezzo per servire agl'interessi politici del mediatore: la conciliazione, invece, ha avuto negli ultimi anni un favore crescente, poiché offre uno strumento più perfetto e appropriato della mediazione.
La mediazione ebbe un grande sviluppo lungo tutto il corso del Medioevo. In quell'epoca la mediazione pontificia valse spesso a scongiurare guerre e contribuì alla conclusione di parecchi importanti trattati di pace. Nell'epoca moderna la funzione mediatrice fu assunta dalle potenze che nei diversi periodi avevano maggiore prestigio e importanza politica. Nel sec. XIX è notissima la mediazione esercitata da Napoleone III nel 1866 fra l'Austria da una parte, la Prussia e l'Italia dall'altra. Nel 1878, per eliminare il trattato di S. Stefano che sconcertava l'Europa, il principe di Bismarck al congresso di Berlino fece compiere alla Germania l'ufficio di "onesto sensale". Memorabile la mediazione papale, a torto talora qualificata come arbitrato, nella controversia fra Germania e Spagna per le Isole Caroline. Nella seconda metà del sec. XIX con varie disposizioni di trattati collettivi si tentò, per quanto con scarso successo, di dare alla mediazione un certo regolamento giuridico. L'art. 8 del trattato di Parigi del 30 marzo 1856 stabilì che, sopravvenendo fra la Porta e una o più altre potenze firmatarie un dissenso che minacciasse il mantenimento delle loro relazioni, la Porta e ciascuna delle potenze, prima di ricorrere all'impiego della forza, avrebbero messo le altre parti contraenti in condizioni di prevenire quest'estremo con la loro azione mediatrice. Questa disposizione non fu mai applicata, nonostante le occasioni che si presentarono per la sua applicazione. Lo stesso congresso di Parigi del 1856 inserì in un protocollo un voto che raccomandava l'impiego generale della mediazione. L'art. 12 dell'Atto generale della conferenza di Berlino del 26 ottobre 1885 diede una disposizione analoga a quella sopra ricordata del trattato di Parigi rispetto alle controversie concernenti i territorî situati nel bacino del Congo. Nella convenzione per il regolamento pacifico dei conflitti internazionali fatta a L'Aia nel 1899 e riveduta e completata nella seconda conferenza della pace del 1907, fu stabilito che le potenze firmatarie, in caso di gravi dissensi, prima di addivenire ad atti di ostilità ricorressero, in quanto le circostanze l'avrebbero permesso, ai buoni uffici o alla mediazione di una o più potenze amiche. La clausola delle circostanze indebolisce talmente l'efficacia obbligatoria della disposizione, da renderla quasi evanescente e da ridurre l'apparente obbligo giuridico alla nuda sostanza di un obbligo morale.
Si può ritenere giustificata l'osservazione che fino alla guerra mondiale l'ordinamento giuridico della mediazione non aveva fatto alcun progresso e rimaneva come un mezzo politico di scarsa vitalità. Progressi notevoli sono invece segnati dal patto della Società delle nazioni che in varie sue disposizioni (articoli 11, 12, 15) attribuisce al Consiglio un'importantissima funzione mediatrice, pure senza obbligare gli stati membri a ricorrervi e anzi lasciando loro la completa libertà nella scelta del mezzo ritenuto opportuno per risolvere una controversia. Bisogna tuttavia ricordare che l'attribuzione alla funzione del Consiglio della qualifica di mediatrice vale a stabilire una semplice analogia e non una perfetta equiparazione col procedimento classico della mediazione, potendo gli effetti delle deliberazioni del Consiglio avere un'efficacia molto più estesa dei semplici suggerimenti emananti da un comune mediatore. In altri termini, in base al patto e nell'ambito del suo vigore, la mediazione ha subito quella trasformazione, che è conseguenza del carattere, da essa assunto, di procedimento sociale.
Bibl.: G. Fourchambault, De la médiation, Parigi 1900; N. Politis, L'avenir de la médiation, in Rev. gén. de droit internat. public, 1910, pp. 136-163; J. Zampiresco, De la médiation, Parigi 1911; De La Barra, La médiation et la conciliation internat., in Rec. des cours de l'Acad. de droit internat., 1923, pp. 557-566; W. Schücking, Das Völkerrechtliche Institut der Vermittlung, nelle pubblicazioni dell'Istituto Nobel norvegese, V, 1923; Efremoff, L'organisation de la médiation, in Rev. de droit internat. et de lég. comparée, 1925, pp. 201-08.
Diritto privato.
Una rilevante parte dell'attività che si svolge nel mondo del commercio ha come proprio oggetto e scopo l'agevolare la stipulazione degli affari altrui. Agenti di commercio, institori, commessi di negozio, mandatarî con o senza rappresentanza, mediatori, svolgono tutti un'attività ausiliaria rivolta, con diversi mezzi e con diverse caratteristiche, a facilitare la conclusione di contratti ai quali essi rimarranno estranei. Su questo sfondo, comune sotto il profilo economico, le singole figure indicate si differenziano nettamente sotto il profilo giuridico.
Gli elementi del rapporto di mediazione sono, come viene pacificamente ammesso, i seguenti: un'attività svolta da un soggetto (il mediatore) affinché venga stipulato un determinato contratto; libertà del mediatore di abbandonare in qualsiasi momento l'attività intrapresa; libertà dei presunti futuri contraenti di respingere in qualsiasi momento i risultati dell'attività del mediatore; diritto del mediatore a compenso (provvigione) solo ad avvenuta conclusione del contratto; estraneità - di regola - del mediatore a tutto quanto attiene all'esecuzione del contratto stipulato mercé la sua opera.
Quale sia la qualificazione giuridica del rapporto di mediazione, così come sorge dagli elementi qui sommariamente indicati, è molto controverso. La mediazione dà luogo a un contratto (contratto di mediazione) tra il mediatore e i futuri contraenti, o l'attività del mediatore si svolge indipendentemente da un rapporto con i futuri contraenti e diviene rilevante per il diritto unicamente a contratto avvenuto? Ammesso che si sia in presenza di un contratto, è sufficiente che l'incarico sia dato al mediatore da uno dei futuri contraenti o è necessario, perché sorga il rapporto di mediazione, che ambedue i futuri contraenti conferiscano l'incarico al mediatore? E qual'è la natura giuridica di questo contratto?
I dubbî e le divergenze accennati derivano principalmente da due caratteristiche del rapporto di mediazione: che, cioè, fino alla conclusione dell'affare le parti sono libere di respingere l'opera del mediatore, ancorché da esse precedentemente sollecitata, e a sua volta il mediatore può desistere dall'occuparsi dell'affare; che il diritto alla provvigione sorge solo a conclusione avvenuta.
Ciò ha condotto a ritenere che l'attività del mediatore sia attività irrilevante per il diritto fino a che l'affare non è conchiuso; e solo a conclusione avvenuta, e, indipendentemente da un rapporto contrattuale con i contraenti, divenga giuridicamente rilevante facendo sorgere nel mediatore il diritto alla provvigione. Tale opinione, che ebbe alquanto seguito nella dottrina germanica, è respinta a ragione dalla dominante dottrina italiana, la quale pone in rilievo, da un lato, come essa non risponda al pratico svolgimento del rapporto di mediazione, dall'altro, come sia possibile conciliare le peculiari caratteristiche del rapporto con la sua natura contrattuale. È difatti concepibile nel nostro sistema giuridico l'esistenza di un rapporto contrattuale perfetto tra le parti che consenta il recesso unilaterale a ciascuno dei contraenti, se pure di regola tale recesso non sia ammesso: e, quanto all'altra caratteristica del rapporto di mediazione, che riconosce al mediatore il diritto alla provvigione unicamente ad affare compiuto, essa corrisponde all'elemento tipico della locatio operis, a cui si suole giustamente dai più ricondurre il contratto di mediazione.
Riconosciuta al rapporto di mediazione la natura contrattuale, e particolarmente la natura di locatio operis qualificata dalla facoltà di recesso, si è tuttavia disputato se a porre in essere il contratto di mediazione sia sufficiente che uno dei due contraenti conferisca l'incarico al mediatore, di guisa che, ove l'incarico sia dato da ambedue i futuri contraenti, si pongano in essere due contratti di mediazione; o se sia per contro necessario, per aversi vera e propria mediazione, che i due futuri contraenti si accordino sulla persona del mediatore dando luogo così alla bilateralità d'incarico, mentre nel caso d'incarico unilaterale si avrebbe non mediazione, ma mandato. Tale teorica poggia particolarmente sull'obbligo dell'imparzialità che incombe al mediatore, almeno come elemento normale, se non essenziale, della sua funzione. Ma si deve notare che tale obbligo non viene meno anche quando il mediatore sia incaricato da una sola delle parti; mentre è fuori della realtà immaginare che i futuri contraenti, per lo più l'uno all'altro ignoti, si accordino preliminarmente per stipulare insieme un contratto col mediatore, avente per oggetto d'incaricare il medesimo di agevolare la stipulazione del contrato ch'essi hanno in animo di porre in essere! Onde a ragione tale teorica, per quanto tenacemente sostenuta, non ha raccolto che scarsi suffragi.
Raggiunta la conclusione del contratto, l'opera del mediatore è finita ed è maturato il suo diritto alla provvigione: tutto quanto si riferisce all'esecuzione del contratto per suo mezzo stipulato rimane fuori della sua sfera d'azione (cfr. art. 29 cod. comm.); né egli è responsabile per tale esecuzione.
Tale norma, per altro, soffre una deviazione, quando il mediatore tace a uno dei contraenti il nome dell'altro. A tale proposito si deve preliminarmente osservare come, mentre il codice di commercio del 1865 faceva obbligo al mediatore di manifestare, prima della conclusione del contratto, alla parte che ne facesse domanda, il nome dell'altra, la disposizione - oggetto di critiche vivaci - non fu mantenuta nel codice vigente; né si adottò nel codice la norma - che pure era stata proposta nel corso dei lavori preparatorî - per la quale, nel caso in cui il mediatore non palesasse il nome del contraente, il mediatore si dovesse considerare contraente in proprio. Si venne invece alla seguente disposizione formulata nell'art. 31 cod. comm. "Il mediatore, che non manifesta ad uno dei contraenti il nome dell'altro, si rende responsabile dell'esecuzione del contratto ed eseguendolo resta surrogato nei diritti verso l'altro contraente".
Ove tale norma si consideri in sé e per sé, liberi dal peso di dottrine formatesi sotto altri sistemi legislativi, se ne desume agevolmente la portata. Per essa il mediatore è libero di tacere ai contraenti il loro nome; il contratto, ch'essi stipulano, non viene per ciò a perdere la sua unità; non si scinde in due contratti, nei quali il mediatore muta la propria figura in quella di contraente diretto. Il contratto resta uno solo; ma il mediatore è responsabile dell'esecuzione. Se uno solo dei contraenti serba l'anonimo, il mediatore risponde dell'esecuzione dovuta dall'altro. Eseguito il contratto, il mediatore è surrogato nei diritti che spettavano al contraente del quale egli ha adempiuto l'obbligo nei confronti dell'altro. Così, se uno solo dei contraenti serbò l'anonimo, egli è surrogato nei diritti del contraente palese nei confronti del contraente anonimo; se ambedue serbarono l'anonimo, come nei confronti di ambedue egli è responsabile dell'esecuzione, così, a esecuzione prestata, è surrogato nei diritti che a ciascuno spettano verso l'altro.
Bibl.: F. Carnelutti, La prestaz. del rischio nella mediazione, in Riv. del dir. comm., I (1911), p. 19; C. Vivante, Tratt. di dir. comm., 5ª ed., Milano 1922, I; L. Bolaffio, Dei mediatori, in Codice di comm. comment., II, 5ª ed., Torino 1923, p. 128; Grünhut, Makler u. Kommissionsgeschäfte, in W. Endemann, Handb. d. Handelsrechts, III, p. 132 segg.; E. Heymann, Der Handelsmakler, in V. Ehrenberg, Handb. d. ges. Handelsrechts, V, i, Lipsia 1929, p. 321.