MEDICI, Lorenzo de', detto il Magnifico
Nacque il 1° gennaio 1449 (1448 stile fiorentino) da Piero di Cosimo de' Medici e da Lucrezia Tornabuoni. Dalla madre, donna colta e virtuosa e poetessa non spregevole, fu prima educato alle lettere e alla pietà; da Gentile Becchi, al quale ottenne più tardi il vescovato di Arezzo, da M. Ficino, da C. Landino, da G. Argiropulo, apprese elementi di assai larga e varia cultura. Fanciullo di dieci anni, organizzò un'"armeggeria" per la venuta a Firenze del quindicenne Galeazzo Maria Sforza (aprile-maggio 1459); a sedici anni, accolse a Pisa Federico d'Aragona e lo accompagnò a Venezia e a Milano (1465). L'anno dopo, a Roma, saggiava le disposizioni del papa, nel momento pericoloso in cui scompariva Francesco Sforza; e a Napoli rafforzava in Ferrante la benevolenza per i Medici, quando il partito dei Pitti si accingeva a scrollarne la signoria; la sua prontezza di spirito salvò a Piero il potere e forse la vita (23 agosto). Con insolito privilegio fu chiamato allora a fare parte della balìa e a sedere nel Consiglio dei Cento in luogo del padre (2 settembre e 4 dicembre 1466). Così il giovanetto, fra gli affari di commercio e di banca, fra gli amori e le rime e le feste, si addestrava a raccogliere dalle deboli mani del padre la signoria. Le nozze volute da questo con Clarice Orsini (4 giugno 1469) elevavano L. sopra la classe borghese, da cui la sua famiglia era uscita; nel luglio, a Milano, dove egli fu padrino di Gian Galeazzo Sforza, gli fu dato onore come a principe.
Quando, due giorni dopo la morte di Piero (2 dicembre 1469), i più illustri di parte medicea invitarono L. ad assumere "la cura della città e dello stato", egli accettò, come scrisse nei suoi Ricordi, "per conservazione degli amici e sostanze nostre, perché a Firenze si può mal viver ricco senza lo stato". Può darsi che accettasse "mal volontieri", come più incline alla vita gioconda e alle lettere. Ma da allora volle e seppe, in veste di cittadino, essere principe.
Non trascurò gl'interessi economici della sua casa, ch'era la prima casa mercantesca e bancaria del mondo, ma già minacciata dall'eccessiva larghezza, dalla rivalità di altre case, dalla crescente concorrenza dei paesi d'oltralpe: anzi con fine accorgimento investì capitali in vaste tenute, soprattutto intorno a quella città di Pisa, ch'egli voleva fare rifiorire e legare alla fortuna medicea. Ma era già questo un espediente politico, inteso a rafforzare la signoria, facendo dipendere dai Medici le comunicazioni con Pisa e col mare. E i benefizî stessi, che egli procurò in numero ingente al figliolo secondogenito Giovanni, rivolto da lui alla prelatura, non erano tanto un ricco appannaggio a un cadetto di famiglia principesca, quanto anelli di una catena, che dai monasteri o dalle pievi, sparse nei luoghi più importanti commercialmente e strategicamente del dominio di Firenze, alle abbazie di Montecassino nel Regno e di Morimondo in Lombardia, ai lontani benefizî di Francia, doveva stringere intorno alla casa medicea Firenze e l'Italia e pesare persino sui consigli di Francia.
Fino dall'inizio del suo potere, apparve come la signoria medicea fosse giunta a quel punto del suo sviluppo, nel quale doveva assumere una forma esterna di principato, o sparire. Una balìa di XL, ch'era eletta dalla signoria e da accoppiatori di fiducia e nella quale era ammesso per privilegio "uno di qualunque età", cioè lo stesso L., costituiva nel luglio 1471 un "Consiglio maggiore", incaricato di fare lo squittinio dei magistrati, di approvare le leggi contro i ribelli e le imposte; il "Consiglio dei Cento", ricomposto in modo da togliere "la sementa di scandoli", aveva facoltà di votare da solo, senza approvazione degli antichi Consigli "opportuni" del comune e del popolo, quanto si riferisse agl'interessi pubblici: L. vi sedette a vita. E se, nel 1471, appare ancora come semplice cittadino nell'ambasceria inviata a Sisto IV, egli ha dal papa onori e doni, mentre al banco è accordata la depositeria della Chiesa e sono fatte concessioni rispetto alle allumiere della Tolfa.
La guerra volterrana è imposta da L. che è interessato nelle allumiere di Val di Cecina e che vuole insieme, soffocando lo spirito di ribellione, consolidare l'unità del dominio (1472). Le relazioni con Sisto IV si guastano, quando L. cerca di attraversarne il disegno di acquistare Imola per il nipote Girolamo Riario (1473); ai Pazzi, che hanno fornito il denaro, è data allora la depositeria, tolta ai Medici (1474). E, se Firenze appoggia Niccolò Vitelli di Città di Castello nella resistenza contro il papa (1474) e si lega con Milano e Venezia contro la nuova amicizia che si va delineando fra il papa e Ferrante (2 novembre 1474), se favorisce Carlo Fortebraccio negli assalti a Siena e a Perugia e nella difesa di Montone (1477) e tenta di occupare Citerna, se a Francesco Salviati, creato dal papa di propria iniziativa arcivescovo di Pisa (ottobre 1474), nega il possesso della sede, il papa non vede in questi atti la tradizionale politica della repubblica, intesa a impedire il consolidamento dello stato e della stessa autorità spirituale del pontefice, ma la volontà di L., abbattuto il quale egli farebbe di Firenze "quel che volesse".
Il pontefice irritato, l'ambizioso Riario, il vendicativo Salviati dànno la mano ai Pazzi, vogliosi di soppiantare la signoria de' Medici sotto colore di libertà. La congiura è diretta a togliere il potere a L.: cade ucciso in S. Reparata (26 aprile 1478) il fratello Giuliano. Ma i congiurati sono impiccati alle finestre del palazzo o uccisi a furore di popolo: la signoria cancella le insegne e il nome stesso dei Pazzi (23 maggio); la "lex Gismondina" dà agli Otto della gardia e balìa la giustizia penale, sottratta alle magistrature antiche del podestà e del capitano, con facoltà di punire i ribelli contro lo stato "per loro semplice partito et pienissima autorità" (17 novembre). Il papa tenta, con la scomunica lanciata contro L. e i suoi fautori, con l'interdetto e le minacce contro la città (1° giugno 1478) di staccare i Fiorentini da L.; ma quelli rispondono, accordando a L. una guardia del corpo come a sovrano, disprezzano l'interdetto, attaccano il papa nelle difese ufficiali e nell'irriverente diatriba del supposto sinodo fiorentino. E se Ferrante, ingelosito dell'autorità crescente di L. in Italia e voglioso di porre la mano su Siena, si allea col pontefice, se Venezia e Milano sostengono L. fiaccamente, il re di Francia spiega la sua attività diplomatica in favore del "cugino" L., e fa balenare lo spettro del concilio e proibisce intanto l'invio di denaro alla curia. Poi, quando la guerra volge male per i Fiorentini e presso Poggibonsi è disfatto l'esercito (7 settembre 1479) e sono occupate o devastate Val di Chiana e Val d'Elsa, L. compie il gesto magnanimo di "rivolgere sul solo suo capo il comune pericolo". In verità, partendo per Napoli (6 dicembre 1479), egli sa che l'inviato francese gli ha preparato il terreno, ed è intanto riuscito a trarre nelle sue mani la podestà di guerra e di pace. E, se è ardimento lasciare la città turbatissima e già minacciosa alla Signoria, l'accoglienza che a Napoli i principi aragonesi e la folla hanno fatto a L., ne rafforza l'autorità. Quando egli ritorna con i preliminari di un accordo, il migliore che si potesse in condizioni presso che disperate, l'entusiasmo non conosce più limite (15 marzo 1480). Il papa, prima di ribenedire Firenze, esige che un'ambasceria fiorentina chieda perdono e riceva i colpi della verga papale (3 dicembre): ma, questa volta, non è fra gli oratori Lorenzo.
La crisi decisiva è ormai superata. La Signoria (aprile 1480) nomina trenta cittadini, fra i quali, ultimo, L.; questi ne eleggono altri a formare con loro un nuovo Consiglio maggiore, che deve rifare tutti gli squittinî e riordinare lo stato e il Monte. Poi quei trenta, per volontà del Consiglio (19 aprile), eleggono altri quaranta fra "i savi et principali cittadini", "amici" dei Medici. È creato così il Consiglio dei LXX, che provvede da sé alla vacanza dei suoi seggi e sostituisce dei proprî membri chi gli piaccia e delibera in segreto tutte le provvisioni "contenenti così casi pubblici, come privati, le quali appartenessino allo stato" e nomina la Signoria e gli altri magistrati, organo di parte e insieme espressione sovrana del nuovo regime, al quale ormai piegano quanti aspirino a cariche pubbliche, o anche soltanto non vogliano essere colpiti. L'antica Signoria, i vecchi consigli sono ridotti a un'ombra: nel 1488 il gonfaloniere è ammonito, perché ha fatto cosa discara alla parte. Ogni sei mesi i LXX scelgono nel loro seno gli "Otto di pratica", i quali provvedono alla politica estera, alla difesa del dominio, agli affari segreti, e i "Dodici procuratori" che hanno l'amministrazione delle finanze, la materia delle imposte, il sindacato sulle magistrature.
L. si avvide tuttavia del pericolo che questa oligarchia di parte creava alla signoria, e si volse a scongiurarlo. Sebbene il Consiglio dei LXX, creato per cinque anni, sia prorogato (1484 e 1488) e duri fino alla morte di lui, ne è ristretta la competenza; l'elezione della Signoria è attribuita a fidi accoppiatori; una commissione di XVII, dei quali fa parte L., racconcia le gravezze e il Monte "ne' bixogni di L. d. M.": alle Tratte, alle Riformagioni, al Monte sono chiamati uomini oscuri o di contado. L. corrisponde direttamente con sovrani e capi di stato, riceve informazioni dagli oratori della repubblica e dà istruzioni; ha uomini di fiducia proprî, mercanti o banchieri, amministratori dei benefizî di Giovanni, e insieme veri diplomatici senza credenziali: principalissimo Baccio Ugolini, l'amministratore dell'abbazia cassinese, rappresentante di L. presso gli Aragonesi di Napoli. Il tesoro pubblico è ormai confuso con le finanze private dei Medici; si mormora, e non senza ragione, che il danaro dello stato, o peggio quello del Monte delle fanciulle, abbia servito a colmare il vuoto della banca medicea, o a pagare le spese per il cardinalato di Giovanni. La riforma della moneta, che ne peggiora la qualità e ne accresce il valore (1490), la nuova decima scalata aggiunta all'antica e distribuita ad arbitrio, sono addebitate a L. E il malcontento non è poco; ma, tranne una congiura tosto repressa (1481), nessuno pensa a scuotere il giogo. I più sentono ormai che la fortuna dello stato è congiunta con quella dei Medici, e vedono fiorire la città per industrie e crescere di popolazione; la plebe stessa "provvista delle cose necessarie, contenta con qualche liberalità et festeggiamenti pubblici" non rimpiange l'antica "libertà".
Fuori, L. è considerato e detto "capo della città". Ed egli riesce a circondarla di una cerchia di stati amici, Lucca, Siena, Perugia, Bologna; rafforza i confini con l'acquisto o il riacquisto di Pietrasanta (1484), di Sarzana (1487), di Piancaldoli (1488); dopo l'uccisione del conte Gerolamo tiene relazioni cordiali con i Riario di Forlì; dopo quella di Galeotto Manfredi, riesce a conservare la protezione su Faenza (1488); rinsalda, per mezzo del matrimonio di suo figlio Piero con Alfonsina Orsini (1487), l'amicizia con la famiglia potente nello stato pontificio e nel regno di Napoli. E, poiché alla casa medicea e alla città conviene la pace, nella quale si può svolgere tranquilla la vita economica e spirituale, si fa "ago della bilancia d'Italia". Quando il nepotismo del papa e l'ambizione dei Veneziani scatenano la guerra di Ferrara (1482), egli si unisce col duca di Milano e il re per "securtà e conservazione commune di tutta Italia", fa prendere Città di Castello, ch'è restituita al Vitelli, favorisce il tentativo di convocazione di un concilio a Basilea; poi entra nella lega papale contro Venezia e si reca personalmente come oratore del popolo fiorentino alla dieta degli alleati in Cremona (febbraio 1483). Quando papa Innocenzo VIII, accogliendo l'invito dei baroni e dell'Aquila insorta, muove guerra a Ferrante, vassallo riottoso e pericoloso vicino, L. vede la minaccia di uno sconvolgimento generale d'Italia; entra, non senza opposizione dei cittadini, in guerra col papa e, adoperandosi a sollevare contro di lui le città dello stato della Chiesa, contribuisce efficacemente alla salvezza dell'Aragonese.
Conchiusa la pace (11 agosto 1486), quando il papa gli si getta nelle braccia, egli vede nell'accordo con la Chiesa il mezzo per costituire un saldo presidio alla pace d'Italia ed escludere le pericolose ingerenze francesi. E consolida insieme l'accordo e ne trae vantaggio per sé, dando la sua Maddalena in sposa a Franceschetto Cybo, figliuolo del papa (25 febbraio 1487); e per Giovanni ottiene (9 marzo 1489) la dignità cardinalizia "in età forse non più udita" e lo accompagna a Roma (marzo 1492) con una lettera ricca di consigli prudenti, esortandolo a essere "buona catena" fra la casa e città sua e la Chiesa e a salvare "la capra e li cavoli". Così lo stato papale e l'Italia sono per più anni insolitamente tranquilli, e, se rumoreggia fra il papa e Ferrante la tempesta, L. può impedire che scoppi il fulmine devastatore. Di salute malferma, costretto a vivere di frequente lontano da Firenze, L. morì nella sua villa di Careggi l'8 aprile 1492.
E tuttavia questo consumato e spregiudicato politico è un sincero amatore della cultura e della bellezza. Il mecenatismo è per L. arte di governo in una città, dove la protezione della cultura è divenuta ufficio dello stato, e impulso spontaneo. La casa di via Larga, dove sono ospiti il duca di Milano (1471) e il re di Danimarca (1474), si affolla di uomini eruditi e geniali. Con Marsilio, Pico, Poliziano s'incontrano F. Filelfo e D. Calderini, Bernardo Bembo ed Ermolao Barbaro, Pandolfo Collenuccio, Giovanni Reuchlin, G. Biel. Aumenta la biblioteca medicea, per cui si raccolgono e trascrivono manoscritti per tutta Europa e fino nell'Asia; il debito, che il re d'Ungheria aveva col banco mediceo, è soddisfatto con libri. E crescono le collezioni di palazzo e del giardino di S. Marco; e qui s'ispirano i giovani all'arte antica, tra loro Michelangelo. Giuliano da San Gallo costruisce la villa medicea del Poggio a Caiano e il castello di Poggio Imperiale in Val d'Elsa, inizia il convento degli Agostiniani a Porta San Gallo, mentre M. Michelozzi disegna per gli Strozzi il palazzo famoso. Per L., o certo in Firenze, lavorano il Verrocchio e il Pollaiuolo, Benedetto da Maiano e Mino da Fiesole, il Botticelli e il Baldovinetti, Filippino Lippi e il Ghirlandaio, mentre Benozzo Gozzoli compie gli affreschi del Camposanto di Pisa. Nello Studio fiorentino sono maestri di lettere il Calcondila, l'Argiropulo, Andronico Callisto, il Landino, il Poliziano; in quello di Pisa, risorto (19 dicembre 1472) per volontà di L., professano diritto Baldo Bartolini, Pierfilippo da Cornio, Francesco Accolti, i due Decio, Giason del Maino, il Sozino, il Sandeo, professa fisica Piero Leoni. Con i tipi di Bernardo Cennini appare Virgilio (1471-1472), con quelli di Niccolò della Magna il Dante del Landino (1481), con quelli del monastero di Ripoli il Decameron (s. d., ma 1483); Demetrio Calcondila dà, per i tipi di Bartolomeo di Libri, l'edizione principe di Omero (1488). Agnolo Poliziano, accolto giovinetto all'ombra del lauro, continua per lui a tradurre l'Iliade e canta la Giostra di Giuliano, e compone i carmi e le Sylvae e profonde tesori di erudizione nei Miscellanea; Marsilio si studia di rendere cristiano il platonismo, il Pico di conciliare Platone e Aristotele, la Cabala e il Cristianesimo; fra Giocondo dedica a L. la sua raccolta d'iscrizioni, Bernardo Alberti il trattato d'architettura, incompiuto, del fratello Leon Battista; Paolo dal Pozzo Toscanelli invia da Firenze la lettera al Martinez sulla nuova via per le Indie.
L. stesso disputa di filosofia col Landino, di teologia con Giorgio Benigno; raccoglie le antiche rime toscane e le invia (1476-77) a Federigo d'Aragona con una lettera, che afferma il valore del volgare toscano. Ma, soprattutto, egli canta. Canta nelle Rime giovanili un amore ancora tutto platonico, pressoché sempre chiuso nelle forme convenzionali del "dolce stil novo" e dei petrarchisti, e accompagna al canto un Comento dottrinale, che risente della Vita nova dantesca; e nell'Altercatione male riesce a porre in versi una disputa filosofica sul sommo bene. Ma nelle fluide ottave delle Selve d'amore, accanto al contenuto platonico, sono episodî e descrizioni, ricchi di realismo persino eccessivo; nel Corinto e nell'Ambra la rappresentazione della natura si associa ad accenti di umana passione. E la Caccia col falcone è pittura vivace di una battuta quattrocentesca; e la Nencia è un idillio rusticano, non immune da volgarità e da sconcezze, ma simile ai teocritei "nella bella rozzezza e nella mirabile varietà"; e i Beoni sono argute, spesso grossolane, caricature di bevitori fiorentini. Alle fresche e leggiere Canzoni a ballo, ai Canti carnascialeschi, abbondanti di doppî sensi immorali, al mitologico, e pur vivo, Trionfo di Bacco e di Arianna, s'intrecciano le Orazioni e le Laudi, ricche di religiosità, e quasi d'un senso di stanchezza e di mistico abbandono, e la Rappresentazione de' santi Giovanni e Paolo, che ripete le forme del mistero medievale.
La tradizione piagnona, che lo rappresenta fieramente rimbrottato e non assolto dal Savonarola, è assai probabilmente fallace; più probabile l'altra, che lo dice confortato e benedetto dal frate nelle ultime ore. Il suicidio o l'uccisione del suo medico fece pensare a veleno. Fu sepolto in S. Lorenzo senz'onore di monumento; ma i suoi piansero "extincto el bene, la fede et bontà di tucta Italia". E gli anni torbidi che seguirono, fecero apparire più splendida la luce di colui, al quale i posteri attribuirono come proprio il titolo, ch'egli aveva comune con altri illustri, di Firenze e di fuori, "il Magnifico".
D'aspetto sgradevole, col naso schiacciato, la mascella inferiore sporgente, pallido il colorito, debole la vista, rauca la voce, L. apparve mirabile per la vivacità, la ricchezza, l'armonia dello spirito. E raccolse in sé vramente gli elementi più disparati di cultura e di vita. Credente in Cristo e in Platone, amante della consorte e dei figliuoli e invischiato da passioni non lecite, ispirato da alte idealità politiche di concordia e d'italianità e da interessi personali e familiari meschini, autore di canti osceni e di poesie religiose, mercante e uomo di stato e poeta, fu, come forse niun altro, espressione di un'età ricca di contraddizioni. Ma il tentativo di conciliare la vecchia fede e il paganesimo risorgente fallì; ma la signoria, ch'egli aveva tentato di trasformare copertamente in principato ereditario, non resse dopo la sua morte due anni. E la tempesta, che egli si era, con accorgimenti sottili, adoperato a stornare, travolse Firenze e l'Italia, fatalmente. Fu detto a ragione ch'egli morì in tempo per la sua fama.
Bibl.: Per le opere, vedi L. d. M., Opere a cura di A. Simioni, Bari 1913-1914. Una completa biogr. moderna manca: la migliore è quella di A. von Reumont, L. d. M. il M., 2ª ed., Lipsia 1883; fra le antiche, N. Valori, Laurentii Medices vita, Firenze 1749 e 1847; A. Fabroni, L. M. M. vita, Pisa 1784; G. Roscoe, Vita di L. di P. de' M., traduz. Bossi, Pisa 1816; E. L. S. Horsburgh, Lorenzo the Magnificent and Florence in her golden age, Londra 1908. Sulla sua attività politica, B. Buser, L. d. M. als ital. Staatsmann, Lipsia 1879; id., Die Beziehungen der Mediceer zu Frankreich, Lipsia 1879; A. Anzilotti, La crisi costit. della rep. fior., Firenze 1912; V. Ricchioni, La costituzione politica di Firenze ai tempi di L. il M., Siena 1913; R. Palmarocchi, La polit. ital. di L. de' M., Firenze 1933. Sull'attività economica: O. Meltzing, Das Bankhaus d. Medici, Jena 1906. Sulla letteraria, oltre alle lucide pagine di V. Rossi (Il Quattrocento, p. 236 segg.); A. Garsia, Il Magnifico e la Rinascita, Firenze 1923; E. Rho, L. il M., Roma 1926; L. di San Giusto, L. il M., Firenze s. a. (1934). Cfr. poi G. B. Picotti, La giovinezza di Leone X, Milano 1928, le opere di P. Villari sul Machiavelli e sul Savonarola, e le altre citate alla voce medici. Articoli recenti di R. Ridolfi, in Arch. stor. ital., s. 7ª, IX (1928), p. 205 segg., di R. Palmarocchi, in La cultura, n. s., XI (1932), p. 453 segg.