Medici, Lorenzo de’, detto il Magnifico
Nacque a Firenze nel 1449, da Piero di Cosimo (→ Medici, Piero di Cosimo de’) e Lucrezia Tornabuoni. Appena ventenne ereditò la posizione eminente che fu del nonno e del padre nell’orizzonte politico cittadino, che pure si conservava formalmente repubblicano. Nel corso degli oltre venti anni del suo dominio, l’azione di Lorenzo consentì un deciso accentramento e consolidamento del potere da parte della famiglia Medici, che pure fu più volte messo in pericolo dalle guerre esterne e dalle lotte interne, il cui esito più clamoroso fu la congiura del 1478 capeggiata dalla famiglia Pazzi. Uscito dall’aggressione soltanto ferito, mentre il fratello Giuliano venne ucciso, Lorenzo riuscì a non capitolare nemmeno nella seguente guerra che lo oppose a papa Sisto IV e al re di Napoli Ferdinando d’Aragona, finendo anzi per accrescere il suo prestigio presso le corti e gli Stati italiani del tempo.
Eccellente scrittore in volgare, autore di numerose opere, soprattutto in versi, di contenuto comico, pastorale, amoroso e filosofico, Lorenzo si circondò di prestigiosi intellettuali e artisti e intraprese una politica di promozione della cultura fiorentina e del volgare toscano.
Pur menzionato varie volte in diverse opere machiavelliane, Lorenzo de’ Medici è un personaggio centrale solo nelle Istorie fiorentine (da qui in poi abbreviato nelle citazioni Ist. fior.), dove un suo celebre profilo chiude l’ottavo e ultimo libro.
Se della coloritura medicea delle Istorie non c’è ragione di dubitare, gli inevitabili chiaroscuri, rilevabili, più che nel celebre ritratto conclusivo, nell’analitica esposizione dell’azione politica di Lorenzo, paiono congrui al proposito di fuggire l’adulazione dichiarato nella dedica dell’opera. Rispetto alle pagine riservate a Cosimo spicca, infatti, la maggiore continuità dell’attenzione di M. nel narrare le gesta di Lorenzo e nell’intestargli successi, e più di rado errori, della politica fiorentina: corrispettivo, forse, del più diretto agire di Lorenzo – soprattutto dopo il fatidico 1478 – nell’agone politico.
Come ha ben evidenziato Paul Larivaille (in Laurentia laurus, 2004), Lorenzo nelle Istorie è un personaggio in formazione, che consegue solo alla fine di un lungo percorso la fama che gli si tributa nel ritratto.
L’affacciarsi del Magnifico nell’opera machiavelliana, in ragione di questa struttura ascendente della narrazione, appare anch’esso graduale. M. pare attento a dosare in un sapiente equilibrio elementi diversamente connotati nell’interpretazione storiografica: certi tratti ricalcano le critiche degli oppositori al regime mediceo – le sue nozze con Clarice Orsini, di famiglia romana e ‘principesca’, sono accolte con grande scandalo a Firenze –; altri episodi sono narrati secondo la vulgata cortigiana – la giostra vinta da Lorenzo, nel 1469, «non per grazia, ma per proprio suo valore» (VII xii 4), in contrasto con quanto lo stesso Lorenzo riconosce nei propri Ricordi. Firenze, dopo la repressione della congiura del 1466 e la successiva guerra, era ormai saldamente nelle mani dei Medici, ma la preoccupazione che alla morte di Piero colse gli uomini del reggimento rifletteva un sentimento diffuso: non solo la «gioventù» di Lorenzo e Giuliano «sbigottiva ciascuno» (VII xxiii 15), ma anche lo scarso interesse sino ad allora dimostrato per le cose di Stato faceva temere che i due fratelli si sarebbero rivelati impari al gravoso compito che li attendeva.
La crescita di Lorenzo passa anche per alcuni gravi errori politici, discretamente, ma chiaramente riconosciuti nella narrazione machiavelliana: e se l’impresa di Volterra finì con il fruttare al Medici «reputazione grandissima» (VII xxx 13), primo segno di quella «fortuna» che assisterà tutta la sua azione, l’intervento a Città di Castello generò invece «i primi semi della inimicizia intra Sisto e i Medici» (VII xxxi 3). Gravide di ancor più nefaste conseguenze saranno le molteplici e pesanti ingiurie fatte alla famiglia dei Pazzi: a rinfacciarle a Lorenzo sarà addirittura Giuliano, padre del committente delle Istorie fiorentine, che muove, come già nella fonte di M. (Giovanni di Carlo), un’esplicita accusa al fratello di mettere a rischio il loro potere per ingordigia (VIII ii 13).
Il lungo episodio della congiura dei Pazzi funge da baricentro nella biografia machiavelliana dell’eroe, ma segna anche un punto decisivo di svolta del potere mediceo in Firenze, che dopo il 1478 diventa «più acerbo». Quanto questo passaggio sia decisivo lo testimonia il primo capitolo dell’ottavo libro, che, subito dopo l’ampia esposizione della riuscita congiura milanese ai danni di Galeazzo Maria Sforza, perfetto tiranno, introduce l’altra e più importante congiura che occupa tutta la prima parte del libro: tale capitolo proemiale inscrive quel fatto storico entro la riflessione teorica di M. sulle congiure, a cui esplicitamente si rimanda (oltre a Discorsi III vi, cfr. anche Principe xix 9-19), e intende dimostrare come l’effetto delle congiure sia di regola contrario a quello perseguito dai congiurati, finendo esse per aumentare il prestigio e la «grandezza» del principe, e farlo persino diventare «cattivo», se prima era «buono». Il fallimento dell’impresa pazziana prova, in particolare, la difficoltà delle congiure di cui si muti in corso d’opera il piano esecutivo (Discorsi III vi 100-18), soprattutto se messe in atto da inesperti (122-27) e contro più persone simultaneamente; e in generale prova l’inutilità di tali iniziative (128-35).
L’orazione di Lorenzo, retoricamente impegnatissima, davanti a «tutti i qualificati cittadini», fatti radunare «in palagio» nel giugno del 1478, giunge al culmine del dettagliato racconto della congiura (Ist. fior. VIII x 4 e segg.) e svela il senso e la qualità del regime mediceo. Il compiacimento esordiale per il consenso che sostiene il potere dei Medici nel drammatico frangente è subito controbilanciato dall’enfasi posta sull’ormai comprovata insicurezza della famiglia egemone, che apre la via a una critica strutturale alla tradizionale idea dello Stato fiorentino quattrocentesco, intrinsecamente debole, e pone le premesse di una svolta di regime che sarà senza ritorno. Centrale è, di conseguenza, il ribadimento dei fondamenti che giustificano la supremazia medicea, che è sorta grazie a «umanità, liberalità» e «benefizii» (Ist. fior. VIII x 16), e non per quel «desiderio di dominare» (§ 17) che è da addebitare piuttosto agli antagonisti, animati da invidia e insorti contro la patria, rei dunque di «confundere le inimicizie private con le ingiurie pubbliche» (§ 24). Il nodo della guerra fatta a «privati» era del resto fondamentale nella fase seguita alla congiura: i nemici di Firenze proclamavano, infatti, di muovere guerra non alla città, ma a Lorenzo e alla sua famiglia.
La totale identificazione della casa medicea con la città, resa possibile dal sostegno e dal consenso a essa garantito, prepara il colpo di teatro finale, con Lorenzo che offre – ma solo nella finzione retorica – la possibilità di scindere quel binomio, esponendo la propria persona al pericolo pur di salvare la patria. Eventualità che gli eventi successivi renderanno però concreta e reale, quando il Medici si giocherà il tutto per tutto recandosi a Napoli per trattare la pace separata con l’Aragonese.
L’apologia di Lorenzo è smentita nei fatti dal racconto dello storiografo (per es., le ingiurie private perpetrate ai danni dei Pazzi sono negate nel discorso di Lorenzo, ma ben dettagliate nei capp. ii e iii); Lorenzo, insomma, è sì l’eroe della storia, ma appare un personaggio come gli altri quando parla pro domo sua e si cimenta in una prova che sembra appartenere più al genere giudiziario che a quello deliberativo: la sua voce non si identifica del tutto con quella dello storiografo.
Questo elemento rientra nell’uso che M. fa, nelle Istorie, del «discorso, diretto o indiretto, [che] è sempre un uso esplicativo di tipo ideologico: è il suo modo di mostrare le posizioni ideologiche in campo. [...] veicolo essenziale dell’argomentazione “di parte”, elemento insostituibile in un processo di ricostruzione dialettica della verità» (Anselmi 1979, p. 183) che concede anche ai vinti di avere voce e persino di suscitare pietà e commozione: esemplare il caso del vecchio e saggio Renato de’ Pazzi, vittima tutto sommato innocente della furia degli eventi.
A sancire la definitiva nascita dell’eroe è la missione a Napoli. Già qui il personaggio – di cui pur non si celebra eccessivamente questa coraggiosa azione, attribuita peraltro, nel racconto machiavelliano, a una decisione collegiale, determinata dal malcontento dei fiorentini per la guerra (Ist. fior. VIII xvii 3-9) – presenta evidenti caratteri eroici, venendo a incarnare con la sua iniziativa l’ultima residua speranza di non soccombere dei fiorentini. La già vasta reputazione causata dalla «grandezza degli inimici che egli aveva avuti» (VIII xix 1) risulta accresciuta dalla forte impressione che dall’incontro con Lorenzo riceve il re di Napoli, colpito dalla «grandezza dello animo suo», dalla «destrezza dello ingegno» e dalla «gravità del giudicio» (§ 2). Al ritorno, Lorenzo è celebrato come salvatore della patria e la reputazione così accresciuta gli consente di «ristrignere il governo» (§ 10) con l’istituzione del Consiglio dei Settanta, in verità contestatissimo dagli stessi medicei: la svolta, che Francesco Guicciardini e altri non esiteranno a definire tirannica, è sostenuta dai successi ottenuti e giustificata con ragioni di politica estera.
L’ultimo Lorenzo, del resto, è contraddistinto da doti quasi taumaturgiche: il suo apparire sul teatro degli avvenimenti determina il successo militare dei fiorentini (così per l’impresa di Sarzana, VIII xxxi 6-12 e xxxiii 9-13); ugualmente, negli ultimi capitoli dell’opera la sua figura campeggia come personalità eminente della politica italiana, capace di intessere un’accorta politica matrimoniale che lo riavvicina al papa e gli consente di fungere da mediatore, con la sua saggezza, tra i conflitti dei principi (xxxiii 1-3).
Si fa strada anche l’idea della predestinazione di Lorenzo e della protezione divina sul suo operato, confermata dagli eventi soprannaturali che accompagnarono la sua morte (Discorsi I lvi 4; Ist. fior. VIII xxxvi 21-22); ed è ovvio che questi elementi si infittiscano nei passaggi di maggiore pathos: l’accenno, nell’orazione di Lorenzo, alla volontà di Dio, che avrebbe salvato la casa medicea e la sua «giusta causa», e soprattutto il ritratto finale, dove Lorenzo risulta amato dalla fortuna e da Dio, sembrano avvalorare l’idea di una fiducia provvidenzialistica, che vuole che i giusti siano favoriti.
La magnificenza costituisce il fondamento del potere mediceo in Firenze, il che dovrebbe sconsigliare iniziative eversive come quella dei Pazzi. In Lorenzo tale virtù è affiancata non solo dall’altrettanto tradizionale «prudenzia», ma anche dalla «fortuna», componente essenziale per la riuscita dell’azione politica del principe machiavelliano, di cui il Medici delle Istorie incarna in qualche modo un modello aggiornato a uso dei nuovi dominatori di Firenze (cfr., soprattutto, Ist. fior. VIII xxxvi 15-16).
Ma anche certi difetti emergono bene dalla narrazione machiavelliana: l’ingordigia e l’ambizione determinano alcuni gravi, tragici errori (VIII ii-iii). E M. non omette nemmeno di dar conto delle varie calunnie che colpivano Lorenzo, anche dopo alcuni dei suoi più considerevoli successi («per salvare sé aveva venduta la sua patria»), benché il rilievo sia subito temperato dal riconoscimento dello scarso credito che si deve riservare al giudizio del popolo fiorentino, che «le cose dai successi e non dai consigli giudica» (VIII xxii 4-5).
Il ritratto finale si colloca dunque al culmine di un processo ascensionale che termina nella celebrazione della «felicità» fiorentina e italiana sotto Lorenzo, pacificatore dell’Italia e capace di «fare grande sé e la sua città» (VIII xxxvi 1). Il ritratto – che pur non tace alcune mende, come l’essere «quanto alla mercanzia, infelicissimo», benché, al solito, «per il disordine dei suoi ministri» (§ 5) – insiste soprattutto sul prestigio ottenuto grazie a un’accorta strategia matrimoniale e a una politica piena di successi diplomatici e militari; i vizi, invece, che connotano un profilo solo apparentemente bifronte (le «due persone diverse, quasi con impossibile coniunzione congiunte», § 19), non «maculano» il ritratto perché se le virtù sono tutte pubbliche e accrescono la reputazione, i vizi si concentrano nell’ambito privato (la lussuria, il confondersi in giochi puerili con i figli e il circondarsi di uomini faceti e mordaci) e non toccano l’azione del principe (dell’importanza di questa distinzione per M. è testimone la lettera del 31 gennaio 1515 a Francesco Vettori: Lettere, pp. 348-51).
Dopo aver rimarcato la capacità di tenere «sempre la patria sua in festa» con il triplice, decisivo fine di «tenere la città abundante, unito il popolo e la nobilità onorata» (VIII xxxvi 10; che corrisponde alle esigenze da soddisfare nel progetto di riforma dello Stato proposto nel Discursus florentinarum rerum), M. dà ampio spazio al Lorenzo mecenate e promotore degli studi, che fece di Firenze una capitale della cultura; né si omette di rilevare la partecipazione diretta a questo clima da parte del Medici, intendente di architettura, musica e poesia.
L’immagine di una città «felice» e soprattutto «quieta» quale fu sotto il Magnifico è il modello ideale continuamente traguardato dalla considerazione retrospettiva di M., non solo nelle opere ufficiali come le Istorie fiorentine, ma anche in testi almeno formalmente ‘privati’ come l’epistola a una gentildonna (post 16 settembre 1512, Lettere, pp. 231-35), e il breve scritto mandato a Vettori che traccia un rapido ma efficacissimo profilo di Lorenzo il Giovane, dove sono espliciti il confronto con l’omonimo predecessore e il vagheggiamento di un ritorno a quella sorta di età dell’oro (M. a Francesco Vettori, febbr.-marzo 1514, Lettere, pp. 316-17). E se anche quel mito pareva superato nell’analisi tecnica delle strutture politiche fiorentine consegnata al Discursus, restava intatto il fascino di quell’irripetibile stagione.
Bisognerà infine almeno accennare al peso della figura di Lorenzo poeta nella cultura di M., considerevole soprattutto nelle opere in versi: eloquenti testimonianze si possono ora rintracciare nel commento a quei testi nell’Edizione nazionale.
Bibliografia: G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979, in partic. pp. 150-55; C. Dionisotti, Machiavelli storico, in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 365-409, in partic. pp. 398-404; N. Rubinstein, Machiavelli storico, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia», 1987, 17, 3, pp. 695-733, in partic. pp. 711-16 e 721-22; G. Pieraccioni, Note su Machiavelli storico, 1, Machiavelli e Giovanni di Carlo, «Archivio storico italiano», 1988, 538, pp. 635-64, in partic. pp. 659-64; G. Pieraccioni, Note su Machiavelli storico, 2, Machiavelli lettore delle Storie fiorentine di Guicciardini, «Archivio storico italiano», 1989, 539, pp. 63-98; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993, pp. 466-85; Laurentia laurus. Per Mario Martelli, a cura di F. Bausi, V. Fera, Messina 2004 (in partic. N. Rubinstein, Il discorso di Lorenzo de’ Medici dopo la congiura dei Pazzi: versioni fittizie e il verbale della cancelleria fiorentina, pp. 3-10; P. Larivaille, Sul ritratto machiavelliano di Lorenzo il Magnifico nel capitolo finale delle Istorie fiorentine, pp. 11-38); M. Marietti, Machiavelli: l’eccezione fiorentina, Fiesole 2005 (capp. I Medici: immagine e destino, pp. 13786, in partic. pp. 154-62 e 174-78, e Una retorica della passione, pp. 187-269, in partic. pp. 253-58); M. Martelli, Schede sulla cultura di Machiavelli, in Id., Tra filologia e storia. Otto studi machiavelliani, a cura di F. Bausi, Roma 2009, pp. 52-98, in partic. pp. 60-72; I. Walter, Medici Lorenzo de’, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 73° vol., Roma 2009, ad vocem (con ampia bibl.).