Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Negli anni che precedono la peste del 1348 si osserva in gran parte d’Europa un aumento del consumo di cura, accompagnato da un atteggiamento molto realistico e “razionale” nei confronti della medicina. Accanto a una medicina di “lettori” di testi latini (Jacquart), portata a interpretare e a frammentare i testi, accanto cioè alla medicina dei physici, si sviluppa una vivace e ricca pratica che è ancora per certi versi poco conosciuta, gestita da figure tradizionalmente poco visibili nella documentazione scritta, come le donne o i semplici curanti. Nonostante non vi siano conflitti particolarmente aspri fra i curanti, la medicina colta riesce a stabilirsi e a far valere le proprie ragioni, anche se non ad affermare completamente la propria preminenza nel mercato della cura. Il successo della medicina colta e universitaria, inoltre, non sembra tanto dovuto ai suoi praticanti/rappresentanti, ma agli stessi pazienti, che si trovano in prima fila nel promuoverne le ragioni e nel fondare il sistema di controllo e di licenze che li vede protagonisti.
Non esiste solo il mondo delle università e dell’alta cultura medica: così come ai testi in latino si accompagna una produzione di testi in vernacolo, più o meno ricca a seconda delle regioni europee e della cronologia considerata, molti curanti acquisiscono le tecniche attraverso una trasmissione informale, a bottega o in famiglia, e a esercitare la cura nei contesti più vari, dalla famiglia al vicinato, dalle aree rurali ai monasteri e ai conventi.
Le donne, come è stato dimostrato dalla storica statunitense Monica Green, non si limitano a prestare aiuto ad altre donne, cioè a trattare casi ostetrici o ginecologici; in molti casi documentati – come a Salerno nell’XI-XII secolo, o a Firenze e nel Regno d’Aragona nel periodo successivo – le donne esercitano in proprio il mestiere della cura, e si fregiano del titolo di medicae. Le conoscenze e le credenze della medicina colta universitaria filtrano poi lentamente in altri ambiti professionali e sociali, raggiungendo anche il livello più umile dei curanti. Ciò è testimoniato dall’ampia varietà di testi scritti e diffusi per un pubblico in grado di accedere alla lingua scritta, ma – ad esempio – non al latino o alle forme più sofisticate di elaborazione filosofica. Testi in vernacolo derivati dalla produzione “alta” sono molto probabilmente letti e utilizzati anche dai pazienti.
Un esempio interessante dei mutamenti connessi alle attività di cura e di igiene è quello dell’utilizzazione a scopo terapeutico delle fonti di acque minerali, il cui uso probabilmente non si era mai perso, ma che certo conosce una rinnovata fortuna a partire dal Due-Trecento. In Italia le aree privilegiate sono al principio quelle – ricche di richiami classici – dei Campi Flegrei, a nord di Napoli; in seguito l’uso dei bagni si estende verso nord, indirizzandosi a fonti non menzionate nei testi classici, e sull’onda di quella che è stata identificata come la nuova fortuna della nozione di recreatio corporis (Paravicini Bagliani).
I medici physici comprendono rapidamente come convenga assecondare il gusto dimostrato dalle élite per questo tipo di cura, e riutilizzano la ricca letteratura antica per la redazione di trattati specifici. In questo genere si distinguono gli italiani, come Gentile da Foligno, morto durante la peste del 1348, che compone i primi trattati espressamente dedicati ai bagni e alle acque minerali. I medici mettono a frutto la propria “doppia” expertise in filosofia naturale e medicina per proporsi al pubblico come mediatori privilegiati nella pratica dei bagni, nello sforzo di indurre i pazienti a un uso regolato e medicalizzato di questa forma terapeutica.
In generale, infatti, – e questa considerazione vale tanto per i physici quanto per i chirurghi – la pratica poteva essere molto più remunerativa dell’insegnamento, e di solito lo accompagnava, consentendo ad alcuni medici “di eccellenza” di mantenere, insieme alla cattedra universitaria, un’ampia clientela. Il medico fisico diviene in questo periodo un esperto cui si richiedono – e si pagano – pareri in ambiti contigui alla medicina, in discipline o saperi, come l’astrologia o la determinazione della costituzione individuale, che il medico aveva appreso all’università; ma anche in quelle, come la magia o la fabbricazione di talismani, che erano più facilmente trasmesse attraverso canali extrauniversitari. Benché solo una parte ristretta della popolazione possa pagarsi una cura, l’accesso alla medicina non è limitato quanto si potrebbe pensare, e l’offerta di cura è differenziata e in continua crescita, almeno fino alla cesura rappresentata dall’epidemia di peste del 1347/1348. Benché fino a quella data in molte zone d’Europa i physici in possesso di un titolo universitario scarseggino, per ovvi motivi di distanza dai centri universitari, e benché sia piuttosto difficile valutare realisticamente la proporzione fra il numero di abitanti e la quantità di curanti, i dati disponibili per alcune zone dove la documentazione è più abbondante – o almeno più studiata – come Firenze, il Regno d’Aragona o la Francia, mostrano una situazione di presenza omogenea dei curanti, e una loro distribuzione sul territorio non dissimile da quella del periodo rinascimentale.
Il caso, studiato da Michael McVaugh, della pratica medica nel Regno d’Aragona prima della peste, è tanto più significativo in quanto la documentazione conservata negli archivi è molto ricca, e consente non solo un paragone tra le città e le zone meno abitate della regione spagnola, ma anche una comparazione con altre zone d’Europa. A fruire dei servizi della medicina non è solo la famiglia reale aragonese, e a fornire cure non sono solo i physici e i chirurghi, ma anche una varietà di barbieri e speziali: lo testimonia la diffusione del termine “medico” (metge), usato nel senso generico di curante. Anche coloro che sembrerebbero esclusi da un mercato che incomincia a privilegiare l’educazione formale in medicina risentono dunque in maniera benefica dell’ampliarsi del pubblico dei “consumatori di salute”. Nel regno si verifica un aumento nel numero di curanti fino circa al 1330, quando la proporzione con la popolazione declina insieme all’economia (non solo, ma soprattutto, nelle città). Particolarmente interessante è la lenta transizione verso un sistema di licenze incentrate sulla preminenza del physicus: iniziato alla fine del Duecento, il processo appare completato intorno al 1330. La preminenza della medicina colta è testimoniata anche dai testi in circolazione: si leggono molto Avicenna e Teodorico Borgognoni, autore di opere chirurgiche.
I medici sono in gran parte laici, specialmente in Italia, anche se non mancano medici o curanti appartenenti al clero, soprattutto a quello regolare. In gran parte i medici professano la religione cristiana, ma nelle zone confinanti con i domini islamici, come appunto in Aragona, si osserva la presenza di curanti di questa religione, perlopiù adibiti a mansioni basse o occupati in professioni umili, in netto contrasto con la valutazione positiva della cultura medica islamica. Molto più attivi, e fino al primo Trecento comunemente accettati come curanti anche dai cristiani, sono i medici ebrei, che tuttavia nel corso del secolo conoscono una certa limitazione e contrazione delle loro attività, a causa e in nome dell’irrigidirsi dei precetti dell’ortodossia religiosa. Ai curanti ebrei si comincia velatamente ad attribuire l’intenzione di avvelenare o ledere i loro pazienti cristiani: le successive persecuzioni di ebrei durante la peste vengono dunque precedute dal diffondersi dell’ostilità nei loro confronti.
In ogni caso, i medici e gli altri curanti sanno sfruttare al meglio le opportunità di miglioramento di status professionale e sociale offerte dalla pratica medica e dalla frequentazione delle élite. Si sviluppa così, almeno per la classe superiore dei curanti, cioè per i physici e i chirurghi, una deontologia ricalcata, con non poche novità, sui testi antichi, in particolare su quelli ippocratici, e incentrata sul rapporto di confidenza con il paziente e sui modi migliori per ottenerne e conservarne la fiducia. Come già accennato, le tariffe dei curanti variano in modo significativo, anche all’interno della stessa professione, ed esistono già “contratti di guarigione” che impegnano il curante a ottenere determinati risultati, o almeno a prestare la propria opera per un periodo determinato. Il legame tra medico e paziente non si gioca però solo a livello individuale, ma, come e più che nella tarda Antichità, i medici possono essere ingaggiati con contratti di diverso tipo dalle città o dalle comunità rurali, monastiche, o dagli eserciti. Il nuovo ruolo attribuito ai medici physici nella cura del pubblico nelle città si riflette in alcuni mutamenti che investono il governo della sanità pubblica, come nel caso della medicalizzazione della lebbra, fino ad allora considerata piuttosto come il contrassegno di una impurità morale, o in quella della nuova fondazione e organizzazione di ospedali, intesi non più solo come ospizi per poveri e pellegrini, ma come luogo di ricovero e trattamento degli infermi.
Naturalmente molti medici lavorano presso le corti, reali, nobiliari o dell’alta prelatura, divenendo parte integrante del seguito delle persone di distinzione, dove conservano uno statuto intermedio (non servi né semplici consiglieri) riflesso nella trattatistica sulle corti.
Il rapporto più stretto e di fiducia con il paziente, nonché l’importanza in dottrina al controllo delle res non naturales e alla medicina preventiva, danno origine a un genere di scrittura scientifica destinato a una fortuna secolare, quello dei consilia e dei regimina scritti dai medici per i loro pazienti. Gli scritti contenenti precetti di dietetica e di regime erano un genere già presente nella tradizione antica, trasmesso agli arabi e rinnovato nel Medioevo occidentale. I testi, distinti per età, genere, costituzioni individuali, elaborano prescrizioni generali per adattarle a regimi di vita individuali, ed erano rivolti a – e spesso commissionati da – un pubblico delle classi sociali elevate. All’inizio sono redatti prevalentemente in latino, ma nel corso del XIV secolo sempre più spesso in vernacolo. Gli scritti seguono uno schema fisso: si prendono in considerazione le arie, i venti, l’esercizio (molto consigliato il cammino), i bagni e i massaggi, l’alimentazione, il sonno, le escrezioni, l’igiene personale, la sessualità, il controllo delle emozioni. Sul piano della terapia, oltre al controllo del regime di vita, si utilizzano di preferenza le purghe e la flebotomia come rimedi per controllare l’eccesso di umori, ma anche i farmaci e la chirurgia, questo come ultimo rimedio, non sorprendentemente sgradito al paziente e a cui far ricorso solo nei casi estremi.
Più o meno personalizzati, gli scritti destinati a guidare il paziente nella vita quotidiana, ma anche in caso di eventi eccezionali, quali viaggi o malattie, ci dicono molto delle relazioni tra il medico e il paziente ma anche e soprattutto di quelle con la rete dei colleghi, sia dello stesso livello che di livelli più bassi, ad esempio dei rapporti tra physici e chirurghi. Allo stesso tempo, questi scritti mettono in luce l’importanza rivestita dalle questioni di reputazione – individuale, professionale – nell’affermarsi del medico sulla scena sociale. Almeno in ambito chirurgico, ma non solo, sembra si vadano distinguendo uno stile francese, che non prevede consilia in absentia, e che dunque accentua l’importanza della visita e dell’intervento diretto sul paziente, e uno stile italiano, che invece prevede la possibilità che il medico dia pareri anche senza aver incontrato il malato. In questo modo in Italia i consilia diventano generi di scrittura, forme letterarie, e restano appannaggio dei medici che li usano perlopiù per malattie croniche o a decorso lento, evolvendosi nel genere dei consulti, pareri espressi per via epistolare; in questa tradizione i consulti chirurgici sono quasi del tutto assenti.
oroscopi appartengono a un genere contiguo a quello dei consilia. Come ha sottolineato la storica della medicina Nancy Siraisi, non tutti gli astrologi sono medici, ma molti medici praticano l’astrologia. I confini fra teoria e pratica astrologica e filosofia naturale sono molto incerti e fluidi (come è evidente nello studio dell’influenza dei pianeti sulle stagioni o nel calcolo dei giorni critici e dei “mesi medici”), e sia i medici che gli astrologi sono interessati alla questione della prognosi. Nonostante ciò, alcuni precisi limiti attinenti alla commistione tra medicina, astrologia e magia vanno rispettati: il medico Cecco d’Ascoli nel 1327 viene condannato e arso vivo come eretico, con l’accusa di avere insegnato un’astrologia deterministica e di aver praticato la necromanzia.
La magia, o forme di pensiero magico riguardanti la malattia e la cura, sono del resto vive in tutta Europa, e non certo limitate a settori marginali della popolazione e della cultura. Il fenomeno dei “re taumaturghi”, analizzato da Marc Bloch in un suo studio ormai classico, resta uno dei capitoli più affascinanti dell’intersezione fra mentalità e credenze in merito alle malattie, al sacro e alla sfera politica. A partire dall’XI secolo, ma con una decisa accentuazione nei secoli successivi, e fino al Rinascimento – la credenza non viene comunque abbandonata prima della fine dell’ancien régime – in Francia e in Inghilterra si afferma una ritualità incentrata sulla guarigione miracolosa, da parte del sovrano legittimo, dei malati di scrofole (rigonfiamenti delle ghiandole, in particolare del collo, che potevano essere di origine tubercolare). Il re cura, dettaglio non secondario, attraverso il contatto delle mani, dunque con un gesto affine a quello del chirurgo, e distante dal sapere intellettuale del medico.