Medicina e malattia in Occidente tra XI e XII secolo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ancora nei primi anni dell’XI secolo permane la preminenza della cura dell’anima rispetto a quella da fornire al corpo. Tuttavia già nei monasteri, nonostante la polemica con la medicina profana, incomincia a mostrarsi un più vivo interesse per la cura e il benessere fisico dei membri della comunità monastica che si concretizza sia nell’opera di raccolta e trascrizione di ricettari o collezioni di prescrizioni terapeutiche, sia nella gestione di spazi atti a ospitare il malato.
Tra l’XI e il XII secolo nell’Occidente europeo si avvertono i segnali di un miglioramento delle condizioni demografiche, economiche, civili e culturali. L’effetto più evidente di questa “rinascita” è l’incremento della popolazione e la rinnovata importanza assunta dai centri urbani; la medicina ne risente positivamente, come tutti gli altri elementi della cultura, uscendo da una stasi secolare. Per tutto il periodo dell’alto Medioevo ciò che resta della cultura classica e delle pratiche di vita comunitaria è stato custodito nelle abbazie e nei centri degli ordini monastici (Benedettini, Cluniacensi, Cistercensi). L’ideale della caritas assume grande importanza anche in Occidente, dove l’indistinzione del concetto di infirmus (“malato”), ampliato fino a comprendere tutti i fragili e i deboli, e dunque potenzialmente tutti i peccatori, non ha condotto a strutture organizzate di assistenza, ma a una riflessione teorica e agiografica che accentua la preminenza della cura da fornire all’anima rispetto a quella da fornire al corpo.
Dal XII secolo anche la dottrina dell’infirmitas (“malattia”) si articola, distinguendosi dalla paupertas (“povertà”), risentendo del clima mutato di maggiore agio e di nuova attenzione prestata al benessere fisico.
Ciononostante, molte regole degli ordini monastici mostrano, accanto alla polemica contro la medicina profana, un interesse per la cura e il benessere fisico dei membri della comunità monastica; e proprio nei monasteri si concentra l’attività di trasmissione dei testi medici e farmacologici e la pratica a essi connessa. I testi medici dei secoli fra il VII e il X sono in gran parte compilazioni a carattere pratico, come ricettari o collezioni di prescrizioni terapeutiche, senza un quadro generale o una sistematizzazione teorica che li spieghi o li inquadri.
Sono ancora quasi sempre i monaci o i rappresentanti della Chiesa coloro che gestiscono i pochi luoghi e momenti nei quali si fornisce un’assistenza medica collettiva, quali le infermerie monastiche, le chiese con annessi hospitalia (“ospizi”, il termine si afferma a partire dall’IX secolo) e bagni. Si fondano così anche in Occidente nuove istituzioni, che pur non essendo ancora destinate unicamente a una funzione terapeutica la comprendono fra le altre attività. Un esempio significativo è l’infermeria dell’abbazia benedettina di San Gallo, costruita tra l’820 e l’830, con uno spazio riservato ai medici e locali per la farmacia, per i bagni (che sono un diffuso e importante elemento terapeutico, prima e più che una pratica igienica) e per il salasso. In questo ambiente e in altri simili si scrivono manuali di terapeutica, farmacologia, botanica, e si copiano testi antichi relativi a questi argomenti.
A partire dall’XI secolo in ambiente monastico emerge la distinzione tra curanti che svolgevano diverse funzioni: flebotomi, infermieri, medici. All’ambiente monastico appartengono figure di intellettuali che sono anche curanti, come Ildegarda di Bingen, una delle più singolari e affascinanti figure di donna di questo periodo. Badessa dell’abbazia benedettina di Rupertsberg in Renania, Ildegarda conosce la musica e la teologia, ed è autrice di testi medici e di opere mistiche.
Alla fine dell’XI secolo, nell’epoca delle crociate, in Europa si diffonde una terribile malattia, la lebbra, fino a quel momento sconosciuta in Occidente. Il lebbroso è percepito dalle comunità urbane o dei piccoli centri abitati come un essere impuro, malato di un male non solo fisico ma anche e soprattutto morale. L’isolamento dei lebbrosi e il loro confinamento nei lebbrosari, che sono l’antecedente delle varie strutture – come i lazzaretti – destinate nel tardo Medioevo all’isolamento dei malati infettivi, non sono atti propriamente e unicamente medici, ma rispondono a esigenze più profonde e ambigue, quali quella di allontanare il male dalla comunità e di identificarne il portatore. Secondo la mentalità del tempo, infatti, il lebbroso non deve essere curato, ma rinchiuso perché il male non dilaghi.