Medicina e sanità
L'approccio alla medicina veneziana sul principio dell'età moderna pone molteplici difficoltà in parte immanenti all'evoluzione della medicina stessa ed in parte legate a indubbie peculiarità geografiche, economiche e politiche.
Per quanto riguarda il rapporto diretto con la storia della medicina, il periodo considerato coincide con la progressiva emancipazione del sapere occidentale dagli schemi medioevali e con la riscoperta della scienza greca che il mondo veneziano favorisce fortemente grazie al lungo contatto con Costantinopoli, custode privilegiata del sapere e dei codici degli antichi.
Per la diffusione della cultura greca attraverso Venezia va ricordata, in modo particolare, l'opera svolta dal cardinale Bessarione che nel. 1468 dona alla chiesa di S. Marco la propria biblioteca che costituisce il nucleo più prezioso della "libreria" Marciana. Ed ancor oggi, come ricorda Zorzi, la Marciana conserva "trenta manoscritti medici raccolti dal cardinale, oltre a vari altri scritti di medicina sparsi in codici miscellanei" (1).
Ma la vicinanza fra Venezia e Padova, che dal '400 fa parte del Dominio, pone un altro e più sottile problema in merito al possibile gioco di rimandi che va tessendosi fra una capitale che sa valorizzare le proprie istituzioni ed uno studio, quello di Padova, dove prende corpo la medicina moderna.
La medicina moderna infatti è attivata dalla rinascita anatomica che proprio a Padova con Benedetti, Vesalio, Acquapendente ecc. erode e falsifica la dottrina tradizionale di Galeno.
A Venezia, del resto, fin dal medioevo scorre il tempo del capitalismo emergente e dello slancio commerciale e tutto assume un sapore intenso. Ed anche nel tormentato periodo fra '40o e '500, nonostante le innegabili difficoltà, la città continua ad essere un efficiente scalo di mare ed un vivace mercato di interscambio fra il Mediterraneo e l'Europa continentale: nelle banchine del suo porto si mescolano pertanto, incessantemente, merci e uomini ma anche contagi che vengono da lontano dopo aver preso consistenza in partibus infidelium. La città con i suoi traffici si configura così come frontiera della cristianità e porta del contagio.
Pure l'esperienza spirituale e tutta medioevale del pellegrinaggio verso Gerusalemme rivela a Venezia, dove avviene l'imbarco con evidenti e fatali implicazioni finanziarie, un forte spessore secolare. Qui lo stesso personaggio evangelico dello storpio sembra muovere in un mondo singolarmente attento al profitto; narra al proposito Santo Brasca, in viaggio verso la Terrasanta alla fine del '400, di aver visto "in su la piaza de San Marcho" una donna castigliana "a natura senza braze" che mangiava, beveva, tagliava, filava, cuciva e faceva "tuti li altri exercitj muliebri con li piedi quanto faria un'altra con le mane" e commenta rapito che "da lei concorreva tutto el populo con molte elimosine" (2). Invalidità ed attivismo convergono, in altre parole, nel promuovere un barlume d'autonomia.
Nei trasporti e nel commercio, ad ogni modo, non si esauriscono le spinte produttive della città. Anche l'artigianato rivela una decisa forza imprenditoriale articolandosi a vari e contrastanti livelli con l'andamento della salute. Si pensi alla fortunata lavorazione del vetro che, con la fornitura di lastre per finestre (3), migliora quanto prima l'igiene delle abitazioni e che, anche per altro verso, incide sulla salute mediante la produzione di protesi sanitarie che sono raccomandate fin da Fabrizio d'Acquapendente; scrive Fabrizio che in caso di ferite agli occhi "s'ha d'attendere alla bellezza; il che si farà, se v'aggiusteremo un occhio di vetro, simile all'altro; così facilmente schifaremo la deformità, restituendo equivocamente l'occhio, quale qualche volta par così simile al sano, ch'inganna anche i periti, né pare occhio finto, ma vero. E questi tali occhi si fanno in Venetia" (4). L'elevazione dell'igiene e dell'immagine della salute favorita dalla lavorazione del vetro hanno peraltro un inevitabile prezzo nei rischi per il benessere degli artigiani. Ramazzini, buon conoscitore delle vetrerie di Murano, scriverà nel primo trattato di medicina del lavoro quanto possa essere dannosa questa lavorazione per l'esposizione al calore intenso ed ai vapori tossici. Una pericolosità che accompagna anche altre attività veneziane, quali la fabbricazione degli specchi o la doratura, che comportano l'impiego del mercurio (5).
Il tempo terreno dei commerci e dei profitti aziendali scorre in questa città in uno spazio indubbiamente singolare: una sottile lingua di terra sospesa fra cielo ed acqua dove necessità igieniche eccezionali - l'approvvigionamento idrico, la bonifica dei canali, ecc. - rientrano nella quotidiana routine. Fra medioevo e rinascimento intorno a questo spazio, tanto singolare da sembrare onirico, la geografia vissuta si contrae con ritmi imprevedibili ed ora si dilata verso orizzonti sconosciuti permettendo, forse più che altrove, la circolazione delle idee ma anche il già citato rincorrersi dei contagi che non sempre le disposizioni amministrative riescono ad arginare. In queste oscillazioni dello spazio vissuto la chiusura ad Oriente provocata dalla caduta di Costantinopoli sembra trasmettere un brivido più profondo di ogni altro avvenimento. Nicolò Barbaro che nel 1453 si trova a Costantinopoli, imbarcato in una galera veneziana quale medico di bordo, scrive che allora, con l'irruzione dei Turchi, "si fexe una gran taiada de cristiani per la tera; el sangue se coreva per la tera come el fosse stà piovesto, e che l'aqua si fosse andada per rigatoli cusì feva el sangue; i corpi morti cusì de cristiani, come de Turchi, queli si fo butadi in nel Dardanelo, i qual andava a segonda per mar, come fa i meloni per i canali" (6).
Nello stesso secolo, tuttavia, la Repubblica si espande verso la Terraferma. Nel 1405 assorbe Padova impegnandosi a tutelarne lo studio. Alla fine del secolo si misura poi con l'esercito di Carlo VIII che tanto contribuisce alla diffusione della sifilide lungo la penisola. Questa progressiva espansione verso terra, che suscita le ben note riserve di Machiavelli, porterà nel 1509 alla tragedia di Agnadello. Ma Venezia si riprende rapidamente per quanto corrano anni difficili per la pressione del Turco in Levante, l'ingerenza del papato, il serpeggiare dell'eresia protestante.
Nel secondo '400, fra la caduta di Costantinopoli e la scoperta delle Indie, mentre oscillano i riferimenti geografici della tradizione, sbiadiscono itinerari mercantili che per generazioni erano stati fiorenti. Proprio allora, mentre tutto appare incerto, mutano con l'avvento della stampa le regole stesse della comunicazione. A Venezia l'introduzione tempestiva della stampa a caratteri mobili attiva però fiorenti aziende industriali e contribuisce più che mai al rinnovamento della cultura umanistica, scientifica (7) e medica. E in medicina il libro stampato non solo facilita la divulgazione delle più diverse teorie scientifiche ma con l'illustrazione permette di esibire in modo concreto l'immagine del corpo e di proporre il disegno finalmente preciso degli strumenti chirurgici che i copisti non sempre riproducevano con fedeltà.
La tensione del tempo del lavoro, la singolarità dello spazio della vita, la partecipazione forte al rinnovamento della comunicazione scritta fanno, insomma, di Venezia un punto nodale per l'affiorare della sensibilità moderna stimolata dall'interesse per il profitto e, soprattutto, da una rinata curiosità per l'uomo che tocca ogni corda: quella erotica, quella macabra, quella dello spettacolo conoscitivo. Il rinnovamento della medicina prende, così, consistenza in un clima di insecuritas sostanziato da una vibrante curiosità antropologica.
Se a Padova, come si è ricordato, nasce la medicina moderna, è peraltro a Venezia che si stabiliscono le regole del gioco non solo sul piano della suggestione ideologica ma anche su quello concreto delle norme che sono in grado di orientare effettivamente la vita e la cultura di tutto il Dominio.
Nota Ventura che la "tenace permanenza della tradizione municipale e aristocratica consentì alla Repubblica di S. Marco di tramandare una concezione oggettiva e non personalizzata dell'ufficio pubblico" (8); un orientamento che si fa felicemente sentire in merito all'organizzazione sanitaria. La fitta rete di norme che interessa la tutela della salute non rimanda naturalmente ai soli provvedimenti promulgati dall'autorità dello stato per arginare la malattia, ma investe anche l'organizzazione interna delle varie professioni e di quelle sanitarie innanzi tutto. Medici, chirurghi, barbieri e speziali operano infatti nel rispetto di regolamenti che definiscono le rispettive competenze.
Risale al 1258 il Capitulare medicorum, recentemente pubblicato da Stefanutti (9) che ripropone il materiale di interesse sanitario raccolto da Monticolo. Dello stesso periodo è il Capitulare de specialibus (10). Il Capitolare dei barbieri risale invece al 1270 (11).
Ma la tutela della salute coinvolge quanto prima anche altre categorie professionali come quella degli "stueri" che conducono i bagni pubblici, o dei "cristalleri" che si occupano della costruzione di lenti e occhiali.
Per venire agli aspetti organizzativi interni delle professioni sanitarie, si ricorda che fin dal XIV secolo sono presenti due Collegi. Il più antico, secondo Bernardi (12), sarebbe quello dei chirurghi, ai quali spetta fin dal 1381 la concessione dell'autorizzazione a professare. Dal 1397 per esercitare la medicina è poi necessario essere addottorati e iscritti nel "Rottolo" del Collegio. Vi è insomma la preoccupazione di mantenere ordinato ed elevato il livello professionale; del resto il maggior consiglio in data 7 maggio 1368 aveva stabilito l'obbligo della frequenza ad almeno un'autopsia per anno e ad una riunione mensile per discutere i casi clinici più difficili (13).
La storia del Collegio medico è purtroppo piena di lacune in quanto un incendio, del gennaio 1800, ha distrutto l'archivio quando il Collegio era sistemato nella sede di S. Giacomo dall'Orio. Nei primi tempi le riunioni avvenivano invece presso la chiesa di S. Luca. Del Collegio fanno parte medici illustri ed anche clinici dello studio padovano attirati dal successo professionale che promette Venezia e, con l'avvento della stampa, anche dalla possibilità di pubblicare più facilmente che altrove. Fra gli associati più illustri del '500 si ricordano Benedetti, Bonafede, Massa, Trincavella.
È noto, per quanto riguarda il titolo accademico necessario per l'esercizio professionale, che dal '400 sarà lo studio di Padova a concederlo. Tuttavia, il 16 febbraio 1469, Federico III d'Asburgo concede al Collegio dei fisici la facoltà di conferire 8 lauree all'anno in Arti e medicina mentre Paolo II con Bolla del 18 gennaio 1470 autorizza addirittura l'istituzione di uno ῾Studio Generale' che comprende anche la facoltà di medicina.
Ma questa Bolla non ha alcun seguito concreto in quanto avrebbe creato un'alternativa inopportuna per il funzionamento dell'università padovana. Sarà invece applicato il privilegio imperiale. Nel '500 infatti si diplomano a Venezia circa 600 medici fra i quali Cardano, da Monte e Mercuriale (14).
Nel XVI secolo migliora anche il contesto professionale dei farmacisti; nel 1565 gli speziali da medicine si riuniscono infatti nel Collegio degli speziali per difendere l'Arte dall'infiltrazione dei ciarlatani.
La particolare, ininterrotta sensibilità della Repubblica per quanto concerne la salute si concretizza nell'istituzione del magistrato alla sanità; è un traguardo al quale si giunge per tappe. Nel 1348 durante l'epidemia di Peste Nera, in un clima teso di urgenza pubblica, vengono dapprima istituiti i tre savi alla sanità, ma solo quale magistratura straordinaria e temporanea che si ritrova in occasione di altre epidemie. Solo in data 30 ottobre 1460 mentre è in atto una ennesima impennata epidemica si delibera che tre patrizi "continuis temporibus" vigilino per difendere la città dal contagio. Il provvedimento, che rivela l'esigenza di una magistratura sanitaria permanente, resta però inattivato fino al 7 gennaio 1485 (m.v.) quando i "provisores super salutem" diventeranno un organo stabile, con ampi poteri igienici, per occuparsi della "comune et universal salute". Dal 1556 il magistrato alla sanità sarà addirittura integrato da due sopra provveditori che nel secolo successivo diventeranno figure permanenti (15).
Il contagio per peste è la grande molla che stimola l'organizzazione della sanità pubblica. La peste è infatti un cavaliere sinistro che spopola la città e ne devasta l'economia. Si sa che il primo regolamento per il controllo dell'epidemia viene introdotto nel 1377 da Ragusa che accoglie le navi provenienti da zone appestate solo dopo un mese di isolamento in due isole al largo delle proprie coste. Misure analoghe vengono attuate dalla Milano dei Visconti nel 1398-1400. Anche Venezia nel 1400, non senza allusioni che sanno di ritorsione, vieta l'ingresso delle navi provenienti da Ragusa colpita dalla peste, ma è solo nel 1423 che l'accesso ai viaggiatori provenienti da zone infette è sistematicamente proibito. Nello stesso anno, il 28 agosto, viene fondato un ospedale per appestati nell'isola di S. Maria di Nazareth: è il Lazzaretto Vecchio. Nel 1468 si ordina infine la costruzione del Lazzaretto Nuovo, presso l'isola di S. Erasmo, che accoglierà i convalescenti per la quarantena ed i sospetti (16).
Questo rapido cenno alla griglia amministrativa ed alle norme elaborate per la tutela della salute rivela con evidenza come il problema fosse profondamente avvertito nella sua complessità. La salute che sottende il destino della città e ne condiziona i commerci non è, in effetti, una semplice questione tecnica da abbandonare nelle mani dei medici, con le loro dottrine contraddittorie e con le loro dispute. La Repubblica, comunque, valorizza la medicina ma controlla l'operato dei medici e addirittura, come in merito al contagio, ne orienta le teorie anticipando, con l'istituzione delle norme contumaciali, la dottrina fracastoriana del contagio vivo che oggi appare tanto acuta e moderna.
Quando il citato Santo Brasca, proprio nell'età in cui si assiste alla rinascita dell'anatomia, si accinge a compiere il pellegrinaggio in Terrasanta, visita a Venezia innumerevoli reliquie dopo aver assistito alla spettacolare processione per il "Corpo de Christo". Scrive: "procurando vedere li corpi sancti che sono nella cità mi furono monstrati tuti li infrascripti, quali vidi e tochai" ed elenca, accanto a corpi interi, teste di santi, mascelle, denti, sangue, braccia, mani, una costa di s. Stefano, varie ossa della gamba e della coscia (17). Con l'allusione a tante reliquie sembra quasi voler elaborare una sorta di anatomia dello spirito che, evidentemente, non affascina i soli pellegrini ma risponde piuttosto a complessi bisogni della sensibilità collettiva.
Lo rileva, fra l'altro, un gustoso episodio riferito da Benedetti, l'insigne anatomo. Narra, appunto, Benedetti che un proprio scolaro dopo aver preparato alcune ossa a scopo di studio le ripose in una cassetta che, all'ingresso in Venezia, fu scoperta dai gabellieri e questi, non appena viste le ossa biancheggianti e ben riposte fra erbe odorose, si tolsero il cappello e, genuflessi, le venerarono come si usa con le reliquie (18). Un rimando spontaneo ed immediato, fra un frammento del corpo e la realtà celeste, che indica, senza bisogno di tanti commenti, il sentire comune di quei tempi.
Il complesso movimento culturale, che, discostandosi da questo atteggiamento emotivo, rende possibile il fiorire dell'anatomia, passa attraverso itinerari lunghi e complessi ed è superfluo ricordare che non si tratta di un fenomeno interno all'evoluzione della sola medicina anche se, come è inevitabile, sono i medici ad occuparsi elettivamente di anatomia con una puntigliosità superiore a quella dimostrata dagli artisti, altrettanto affascinati dalla forma del corpo.
Gli è che la rinascita anatomica è dovuta a sollecitazioni di varia natura che trasformano l'immagine dell'uomo e gli ideali tradizionali della vita. Questo rinnovamento antropologico è annunciato per tempo dall'insistere sulla corporeità della lirica cortese e coincide con la laicizzazione della vita che segna la fine del medioevo.
Alberto Tenenti, in un saggio ormai classico, analizza i complessi stati d'animo che accompagnano l'avvento della nuova sensibilità che culmina nella scoperta del macabro. Egli nota infatti che proprio l'incontro secolarizzato con la morte scandisce quel "rivolgimento del senso della vita" (19) che sostanzia l'età moderna con la caduta dello sguardo dal cielo alla terra. L'interesse per il macabro, testimoniato dalla crescente fortuna iconografica dello scheletro lungo il '300, è in effetti l'ambiguo motivo che sottende la ricerca anatomica in quanto implica un rapporto del tutto nuovo con il corpo, certo incoraggiato dal clima di inquietudine che dalla metà del '300 suscitano le ripetute epidemie di peste con la fatale e travolgente dimestichezza con il cadavere imposta ai sopravvissuti.
A Venezia si coglie esemplarmente l'ambiguità del momento: sincere espressioni di religiosità tradizionale coesistono infatti, almeno sul piano culturale, con forti richiami al naturalismo ed alla concretezza terrena. Si pensi all'aristotelismo e ai tratti, veramente terreni, della pittura.
La fortuna del naturalismo si impone fin dai tempi di Petrarca che entra in conflitto con un gruppo di filosofi aristotelici contro i quali elabora una celebre invettiva che, scrive Kristeller, "va intesa come un attacco da parte degli studia humanitatis [...> contro la medicina e contro la filosofia naturale aristotelica" (20). Proprio il lascito di uno dei nemici di Petrarca, Tomà Talenti, permetterà poi che a Venezia nasca la scuola di Rialto, una scuola di filosofia naturale preparatoria allo studio della medicina (21).
Anche la pittura, allontanandosi dallo spiritualismo bizantino, rivela con il passare degli anni accenti naturalistici sempre più espliciti che, valorizzando il corpo nella sua carnalità, incoraggiano il ruolo dello sguardo nella ricerca anatomica, così come l'aristotelismo la favorisce sul piano dottrinale. Premuda, in particolare, ha richiamato l'attenzione sul tizianismo di Vesalio (22), il vero inventore dell'illustrazione anatomica.
Suggestioni assai complesse stimolano, insomma, ed accompagnano, la crescita veneziana dell'anatomia. Del resto, fin dal 1368 poco dopo la prima grande pestilenza, il maggior consiglio ha lucidamente presente l'importanza della ricerca morfologica tanto che viene decretato per medici e chirurghi l'obbligo, su cui insistono volentieri gli storici, di assistere ad almeno un'autopsia all'anno (23). Ma il vero, originale contributo veneziano all'anatomia si configura solo nel secondo '400 e nella prima metà del secolo successivo.
Si tratta, ancora una volta, di un fenomeno complesso che, fra l'altro, risente favorevolmente della rinascita degli studi del greco che permette di rinnovare il linguaggio e di accostare correttamente le opere scientifiche degli antichi. Ed ancora, la fortuna dell'anatomia è favorita dal vigore dell'industria editoriale. A Venezia viene stampato il Fasciculus medicinae; e pure ricercatori eminenti come Zerbi, Benedetti, Massa e lo stesso Vesalio pubblicano presso stampatori veneziani.
Il Fasciculus medicinae esce in prima edizione latina presso Giovanni e Gregorio de' Gregori nel 1491 con il nome di Johannes de Ketham, che si è voluto identificare con Hans von Kircheim, professore di medicina a Vienna. Nel 1494 viene invece data alle stampe la prima edizione italiana: accanto a vari scritti, fra i quali il Consilio per la peste di Pietro da Tossignano, questa edizione contiene la versione in volgare dell'anatomia di Mondino e alcune illustrazioni di grande interesse per la storia dell'anatomia. Fra le tavole, che Luigi Firpo (24) ritiene opera di un artista vicino alla cerchia del Bellini, alcune esigono un commento: la prima mostra il corpo nel suo insieme con rudimentali indicazioni anatomo-funzionali di sapore medioevale, un'altra rappresenta invece una figura femminile con l'addome aperto che permette di individuare la prima raffigurazione dell'utero, la terza mostra infine una scena d'anatomia con il maestro in cattedra e alcuni operatori affaccendati intorno al cadavere. Il contributo veneziano alla ricerca anatomica con la pubblicazione del Fasciculus medicinae è indiretto, eminentemente editoriale e iconografico, ma non per questo di banale significato.
Altrettanto interessante il contributo di Gabriele de Zerbis (Verona circa 1435 - Dalmazia 1505) che nel 1502 pubblica a Venezia il proprio trattato anatomico, ricco di preoccupazioni e di spunti teoretici (25). Suggestivo è l'invito a non restar fermi al sapere libresco ma a guardare direttamente alla natura. In questa prospettiva l'anatomia viene considerata l'alfabeto dei medici e deve pertanto essere ben conosciuta da quanti intendono accostarsi alla medicina (26). Premuda peraltro, sia pure prendendo atto del bisogno di rinnovamento dello Zerbi, è piuttosto scettico in merito alla portata concreta delle sue affermazioni: si tratta, infatti, di un aristotelico attento soprattutto al problema dell'anima e agli aspetti logici della medicina piuttosto che a quelli pratici (27).
Ben più mirate rispetto a quelle di Gabriele de Zerbis, sono le fatiche di Alessandro Benedetti (Legnago circa 1450 - Venezia 1513) che, dopo la laurea a Padova, vive per anni a Candia e in Grecia, perfezionandosi nella lingua. Benedetti, che nel 1490 è condotto alla cattedra padovana di medicina pratica, è presente anche a Venezia dove esercita a lungo la professione e proprio a Venezia, città della stimolante tradizione anatomica, pubblica nel 1502 l'Historia corporis humani sire Anatomice (28). L'indubbio interesse per la pratica anatomica nella città lagunare durante l'ultimo '400 è testimoniato dall'allestimento nel 1488 di una mensa anatomica mobile per rendere più funzionale la ricerca settoria (29). Un provvedimento in chiara sintonia con i suggerimenti di Benedetti che descrive un teatro anatomico mobile costruito alla maniera dell'Arena di Verona e del Colosseo per poter accogliere il maggior numero possibile di spettatori distribuendoli in base alla dignità, sotto l'occhio vigile di un custode che tenga lontana la plebe. Quello dell'anatomia è insomma uno spettacolo avvincente che ruota intorno al cadavere, posto su un tavolo sopraelevato al centro del teatro; e, come ogni spettacolo, anche l'anatomia implica una raccolta di denaro, indispensabile per l'acquisto delle suppellettili: rasoi, coltelli, trapani, spugne, torce per la notte (30). Interessante l'allusione, da parte del Benedetti, alla possibile presenza di personaggi illustri come l'imperatore Massimiliano, accanto a patrizi veneziani, filosofi e letterati (31); proprio la presenza di questi personaggi dimostra infatti che l'anfiteatro anatomico non ha mere funzioni scientifiche ma viene, piuttosto, inteso come il luogo di punta di un avvincente spettacolo antropologico; la dissezione del cadavere, dice Benedetti nella Dedica a Massimiliano dell'Anatomice, è "materia suo theatrali digna spectaculo". Beninteso che l'invito allo spettacolo è rivolto elettivamente a medici e chirurghi perché possano vedere davanti agli occhi le opere della natura come si svelano nella realtà; uno sguardo sofferto che comporta la verifica della parola del maestro e il confronto critico con la scrittura del libro di Galeno. Con l'allestimento del "teatro" Benedetti promuove, in effetti, un'autentica rivoluzione metodologica.
Anche in merito alla scelta del cadavere, quale oggetto di ricerca, Benedetti si dimostra all'altezza della situazione: raccomanda, infatti, che le indagini non si fermino ai soli cadaveri di giustiziati ma siano estese anche a quelli dei deceduti per malattie sconosciute. Non si tratta, certamente, di un mero teorico, tanto che Haller lo annovera fra i primi ricercatori che hanno contribuito al progresso dell'anatomia con l'uso della mano (32). Lascia, del resto, la propria impronta nell'anatomia normale occupandosi con originalità dell'apparato sessuale femminile: descrive l'orificio delle ghiandole parauretrali interpretando correttamente la funzione del corrispondente secreto, nega poi che la parte destra e sinistra dell'utero intervengano - come allora si credeva nella determinazione del sesso del nascituro. Si occupa anche di anatomia patologica sezionando malati deceduti per sifilide e confrontando la congestione cerebrale degli impiccati con quella degli apoplettici. Il valore di questi contributi, di vasta portata dottrinale, è puntualmente rilevato da Cervetto (33) che è il più attento dei biografi.
Con Niccolò Massa (Venezia 1489-1569) l'anatomia veneziana compie un ulteriore progresso (34). Personaggio di grande rilievo, Massa fa parte del Collegio dei fisici della città dove nel 1532 pubblica 1'Anatomiae liber introductorius, ripetutamente edito intorno alla metà del secolo. Questo libro è da ritenere per l'epoca un trattato esemplare; più ampio di quello di Mondino è infatti elaborato attraverso osservazioni e ricerche essenzialmente personali, condotte presso il veneziano Ospedale dei SS. Giovanni e Paolo. L'opera, come allora si usava, è ricca di osservazioni anatomo-patologiche e di utili suggerimenti per la pratica chirurgica.
Contribuisce, fra l'altro, a modernizzare il linguaggio; Massa, ad esempio, parla di peritoneo alla maniera greca, e ricorda che il vocabolo corrisponde al vecchio termine arabo "sifac", ormai caduto in disuso. Interessanti le descrizioni della prostata e della famosi; buone le note anatomo-patologiche in merito ai calcoli renali ed alla patologia cardio-polmonare. Massa è l'ultimo grande anatomo che precede Vesalio, l'autentico riformatore dell'anatomia (35).
Fra tanti contributi e momenti significativi è, in ogni caso, la fugace presenza veneziana di Vesalio (1514-1564), un fiammingo di origine tedesca, a segnare il momento più alto per la storia dell'anatomia cittadina; l'importanza del suo contributo va infatti ben oltre i confini del Dominio (36). Vesalio, dopo aver frequentato Lovanio e Parigi, giunge a Venezia nel 1537 e da qui prosegue per Padova dove il 5 dicembre si laurea in medicina ed è subito nominato explicator chirurgiae. A Padova fra il 6 e il 24 dicembre tiene la prima lezione d'anatomia, che era allora integrata nell'insegnamento di chirurgia, e pochi mesi dopo, nell'aprile del 1538, pubblica a Venezia le Tabulae anatomicae sex che vedono la luce (37) in coincidenza con la riedizione, curata dallo stesso Vesalio, delle Institutiones anatomicae di Galeno (Venezia 1538), il compendio tradotto da Günter von Andernach che era stato suo maestro a Parigi. Le sei Tabulae, figure didattiche riservate agli studenti, illustrano gli apparati genitale, vascolare ed osseo alla maniera di Galeno; una settima avrebbe dovuto essere riservata ai nervi. È stato rilevato che, sul piano dottrinale, le tavole testimoniano un sapere anatomo-fisiologico meno evoluto di quello di Massa: fra gli errori più significativi si riscontrano infatti il fegato a cinque lobi, la verticalità del cuore come nella scimmia rhesus, lo sterno a sette segmenti ancora una volta come nella scimmia ma non nell'uomo ecc. Scrive peraltro Premuda che le Tabulae, nonostante gli errori "rappresentano nella storia dell'anatomia come nella storia dell'iconografica anatomica una tappa fondamentale" (38). L'aspetto più vitale dell'opera risiede infatti proprio nell'idea stessa dell'illustrazione didattica ben articolata per la quale Vesalio si avvale della collaborazione dell'amico fiammingo Jan Stephan van Calcar (1500 circa - 1547/50) come testimonia l'incisione posta ai piedi di un tronco d'albero della VI tavola dove si legge: "Imprimebat Vene/tijs B. Vitalis Ve/netus sumptibus/ Joannis Stephani/ Calcarensis. Pro/strant vero in offi/cina D. Bernardi./A. 1538".
Di ben altro livello rispetto alle Tabulae è, d'altro canto, la Fabrica che Vesalio elabora durante il soggiorno padovano. In quest'opera il dissenso da Galeno, come è risaputo, erode ormai ampiamente l'anatomia tradizionale. Ma nella Fabrica, accanto alle novità scientifiche proposte dal testo, sono di fondamentale interesse anche le illustrazioni che Vasari attribuisce con insistenza al Calcar. Narra Vasari che "gli undici pezzi di carte grandi di notomia" di Vesalio sono state "disegnate da Giovanni di Calcare fiammingo pictore eccellentissimo", allievo di Tiziano e "tanto pratico nella maniera d'Italia, che le sue opere non erano conosciute per mano di Fiammingo" (39). In realtà vi è un indubbio salto di qualità fra le figure dell'apparato scheletrico che fanno parte delle Tabulae, sicuramente di mano del Calcar, e le corrispondenti figure della Fabrica di più elevato livello artistico e documentario, tanto che per queste immagini si è pensato addirittura al Tiziano e alla sua cerchia. Le figure della Fabrica, del resto, sono di più mani. Al di là di queste puntualizzazioni si può in ogni caso rilevare che se Vesalio trova in Padova i presupposti scientifici per la più moderna ricerca anatomica, Venezia promuove l'atmosfera scientifica e prepara gli artisti coinvolti nell'illustrazione. Vesalio tuttavia non stampa a Venezia il proprio capolavoro ma, come Erasmo, preferisce ricorrere a Basilea dove sceglie quale tipografo Giovanni Oporino. Da Venezia spedisce infatti ad Oporino i legni per le xilografie accompagnandoli con una dettagliata lettera dove è evidente l'importanza attribuita alla precisione figurativa ed alla consonanza fra testo e immagine. Proprio per la qualità dei legni, elaborati nell'ambiente artistico veneziano, la prima edizione della Fabrica è oggi più apprezzata rispetto alla seconda che contiene incisioni, di più modesto livello, intagliate a Basilea. Con la Fabrica, elaborata fra Venezia e Padova, è comunque nata l'anatomia moderna ed anche se il finalismo galenico sarà ancora presente ed operante fino ad Harvey, Vesalio è ben consapevole della propria originalità metodologica e della propria indipendenza da Galeno che vuole riconosciuta per le stesse Tabulae anatomicae sex (40).
Malgrado la defezione di Vesalio l'industria editoriale veneziana continuerà a servire l'anatomia ed anche la forza trainante dell'ambiente artistico continuerà ad influenzarne le modalità espressive: si pensi alle tavole a colori di Fabrizio d'Acquapendente, ora custodite presso la Biblioteca Marciana (41).
La valorizzazione della mano - l'apparato che affascina Vesalio e dalla Croce è quanto permette di unire il destino dell'anatomia e della chirurgia che, alle origini dell'età moderna, risentono del nuovo decoro che ormai compete alla costruzione empirica del sapere. Vesalio (42) si rammarica, con tono dolente, che l'uso terapeutico della mano fosse stato per troppo tempo abbandonato ad operatori privi di consapevolezza dottrinale; dalla Croce (43), nel contempo, indica nella conoscenza dell'anatomia la premessa metodologica indispensabile per una corretta manualità chirurgica.
Grazie al risveglio dell'anatomia la medicina tradizionale, con il suo sapere fortemente astratto ed analogico, si confronta allora, con toni aspri ma vitali, con la chirurgia alla faticosa ricerca di un nuovo statuto dottrinale. Storico appassionato di questo significativo momento è Francesco Bernardi che si occupa, in particolare, della fortunosa vicenda del Collegio dei medici-chirurghi. Accanto a Bernardi l'altro grande storico della chirurgia veneziana è Davide Giordano (44) che, pur muovendo sulla falsariga di Bernardi, guarda soprattutto al più illustre chirurgo della città lagunare, Giovanni Andrea dalla Croce che, del resto, era stato elogiato anche da Bernardi (45). In effetti il personaggio di dalla Croce, messo a fuoco da entrambi gli storici citati, acquista un valore emblematico in quanto si impone dopo un consolidato periodo di indagini anatomiche ininterrotte.
Prima della rinascita dell'anatomia pure la chirurgia veneziana, come quella degli altri paesi, muove in un contesto empirico con modesti supporti dottrinali anche se la precoce valorizzazione di Guy de Chauliac, tempestivamente apprezzato dal Collegio chirurgico (46), rivela che il livello delle aspettative professionali è ben presto aggiornato.
Guy de Chauliac è infatti fra i più illustri chirurghi della propria generazione; il suo manuale, dopo elementari cenni di anatomia, si dilunga, con opportuna descrizione dei principali strumenti, soprattutto sulle piaghe, sugli ascessi e sulle ulcere ma anche sulle fratture (47).
Con la fine del medioevo, ad ogni modo, la chirurgia si incammina verso un periodo difficile; fra il '300 e il '500 la disciplina attraversa, infatti, una fase di profondo rinnovamento per l'avvento delle armi da fuoco che modificano le ferite di guerra tradizionali, ma anche per la comparsa della peste e della sifilide che comportavano a quel tempo qualche manualità chirurgica. Lungo questo complesso periodo di rinnovamento, a Venezia non mancano i contributi significativi soprattutto con Benedetti e Massa che anticipano, per così dire, la figura di dalla Croce. Fra i chirurghi più originali presenti nel '400 si deve tuttavia ricordare almeno Leonardo da Bertipaglia (?-post 1448), autore di una Cirurgia in cui polemizza contro la medicina accademica (48); fra i chirurghi del '500, d'accordo con Bernardi (49), è doveroso invece richiamare l'attenzione su Mariano Santo (1490-1550) sottolineandone il particolare interesse per gli strumenti operatori che sono indispensabili per un effettivo progresso della disciplina.
Ma è con Benedetti che la chirurgia rivela aspetti decisamente nuovi. Più noto come anatomo, Benedetti è un abile clinico che nella prestigiosa veste di medico capo dell'armata veneta contro Carlo VIII si occupa anche di chirurgia di guerra (50). Gli scontri militari sono ormai cambiati e sul campo di battaglia "le palle di ferro, di bronzo e di piombo suffolando" (51) attraversano l'aria e colpiscono da lontano.
Una vittima è il ῾Conte da Pittigliano', ferito da una palla d'archibugio che lo colpisce sotto il rene destro e poi raggiunge la spalla sinistra. Per un paziente tanto illustre Benedetti è coinvolto personalmente, a capo degli altri medici e chirurghi: il ferito è attentamente interrogato, sono magistralmente esaminati i vari organi ed apparati e alla fine viene formulata una prognosi favorevole ma senza promettere la guarigione immediata. Il Conte tuttavia è smanioso di abbandonare il letto e si affida a "un certo non medico ma ciurmadore, il quale ebbe ardire di promettere di ruarirlo subito, dandogli a bere acqua incantata" (52). È ancora una volta Benedetti che interviene e con abilità smaschera la frode del ciarlatano che, nell'atmosfera inquieta del campo di battaglia, aveva avuto un facile gioco. Il caso in esame è interessante non solo sul piano clinico, ma anche perché rivela la singolarità dell'atmosfera che alle origini dell'età moderna accompagna la professionalità del chirurgo che, pur fornito di un sapere tecnicamente evoluto, deve misurarsi con le aspettative irrazionali di una sensibilità ancora medioevale.
Benedetti comunque si dimostra all'altezza della situazione non solo per quanto interessa la semeiotica e l'approccio al malato ma anche in merito ai possibili interventi chirurgici; lo rivelano vari suggerimenti, ad esempio per la calcolosi vescicale (53), e soprattutto lo rivela la descrizione della rinoplastica. Benedetti infatti ricorda fra i primi che si può ricomporre il naso con i tessuti del braccio in modo da formarne uno nuovo che però mal sopporta i rigori dell'inverno e può addirittura cadere se viene manipolato prima di un perfetto attecchimento dei tessuti (54).
Anche Niccolò Massa, che come Benedetti è un grande anatomo, lascia la propria impronta nella storia della chirurgia. Del resto le osservazioni di interesse chirurgico, come quelle di pertinenza anatomo-patologica, sono formulate proprio nel fortunato trattato di anatomia. Pieno (55), quasi a testimonianza della citata solidarietà fra anatomia e chirurgia, dà rilievo alla tecnica raccomandata in caso di ascesso perirettale dove Massa vuole l'incisione a semiluna nel rispetto della morfologia e della funzione dello sfintere anale che risulterebbero lese da un'incisione trasversale. Interessanti, nell'opera di Massa, sono poi alcuni avvertimenti, per così dire, di ordine tecnico: tali il suggerimento di lavare con vino cotto le anse intestinali fuoriuscite e la proposta di suturare con fili di membrana di agnello trattata come si usa fare per ottenere la pergamena.
Benedetti e Massa per quanto brillanti come chirurghi sono, ad un tempo, clinici ed anatomi. Solo con Giovanni Andrea dalla Croce (1509-1575) la chirurgia veneziana trova un chirurgo nel senso pieno del termine. Il nome di questo illustre clinico, secondo Bernardi, deriverebbe dal luogo della sua "abitazione in Dorso Duro nella parrocchia della Croce" (56). Il volto, secondo Giordano, sarebbe poi quello dell'operatore che compare nelle vignette del manuale di chirurgia. Accolto nel Collegio medico-chirurgico nel 1532, fu più volte priore. È certamente uno dei chirurghi più insigni del '500, tanto che Giordano tenta un confronto con Parè (57).
In effetti, la Cirurgia di dalla Croce, più volte edita in latino e in italiano, esprime il momento più maturo della chirurgia veneziana. Particolarmente interessante è l'ampia prefazione di ordine metodologico dove dalla Croce fa il punto sulla posizione dottrinale della disciplina, illuminandone gli aspetti teorici e tecnici più significativi (58). Il chirurgo veneziano, ben lontano dall'empiria semplicistica dei chirurghi-barbieri, muove nell'ambito aristotelico e galenico, difendendo con puntigliosa consapevolezza il livello scientifico della disciplina. Insiste poi sullo stretto rapporto che la chirurgia deve avere con l'anatomia.
Avverte dalla Croce che il chirurgo, come ogni buon medico, prima di accingersi ad intervenire deve conoscere adeguatamente i momenti essenziali della medicina: dalla parte "fisiologica", che concerne la struttura e il funzionamento del corpo, alla parte "causiologica", che riguarda la patogenesi. Ma deve conoscere anche quanto interessa l'etiologia, la prognosi, la profilassi e la terapia che costituiscono gli altri fondamentali capitoli della medicina. I vari momenti del sapere ora citati devono infatti "essere intesi, e considerati dal buon Chirurgo, come da buon Medico non essendo altrimenti la medicina divisa". La chirurgia, in particolare, deve poi essere fondata - insiste dalla Croce - sulla pratica anatomica affinché il chirurgo possa "sapere e conoscer li luoghi, e la natura delle parti, dove egli opera".
Giovane, sano, privo di "sospetto odore" il personaggio del chirurgo ideale si serve di almeno sei strumenti essenziali: il rasoio, la forbice, la pinza, lo spicillo, l'ago e la lancetta ma in caso di bisogno ricorre ad ogni altro opportuno utensile. Interviene sempre con prudenza, soprattutto nell'estrazione dei corpi estranei evitando di traumatizzare l'organismo ed aspettando piuttosto, se necessario, la putrefazione dei tessuti. Arresta l'emorragia con la compressione manuale, con la sutura e con l'applicazione del freddo ma in casi estremi ricorre al fuoco. Usa aghi adeguati alle ferite da suturare servendosi del filo di lino piuttosto che della seta che può strappare i tessuti. Conosce le tecniche di bendaggio più opportune. La chirurgia, in sintesi, è esercitata da un personaggio giovanilmente efficiente,; prudente e dotto che non ha nulla da spartire con la pratica inconsapevole dei barbieri ma opera all'insegna di un sapere scientifico autentico fondato sulla conoscenza morfologica del corpo. La valorizzazione della manualità sia in ambito anatomico che chirurgico, la fiducia nell'empiria criticamente vagliata e l'interesse attento per gli strumenti, elaborati in un mondo artigianalmente evoluto, fanno insomma del chirurgo un personaggio decisamente moderno.
Va rilevato che le numerosissime figure che ornano il trattato di dalla Croce sono in gran parte dedicate proprio agli strumenti che rendono possibili i rispettivi interventi. Brillanti sono poi alcune vignette che mostrano il chirurgo in azione, con i suoi strumenti, in un mondo che appare oggi quasi incredibile perché colloca l'operatore fra le pareti domestiche, circondato da parenti affranti e da animali domestici perfettamente a proprio agio.
Il trattato di dalla Croce, nonostante la distribuzione della materia ancora tradizionale, non è privo di interesse clinico. Stimolante, in particolare, è il capitolo sui traumi cranici e, naturalmente, quello dedicato alle ferite d'arma da fuoco: ferite per lo più complicate, indotte "da quegli diabolici instromenti, detto archibugio, e schioppo, moschetto, spingarda, falconetto". Fra gli strumenti proposti per estrarre i corpi estranei scagliati dalle armi da fuoco è naturalmente illustrato il celebre "alfonsino", dal nome dell'inventore Alfonso Ferro: lo strumento è formato da tre rami che servono per raggiungere i proiettili, mentre un anello permette di bloccare i rami stessi prima di procedere all'estrazione (59).
Con dalla Croce, in conclusione, la chirurgia si appella ormai ad uno statuto modernamente scientifico.
Fin dal secolo scorso gli studiosi di Venezia guardano con attenzione alla storia della professione medica che appare brillantemente organizzata fin dall'introduzione del Capitolare e con l'istituzione del Collegio, che nell'insieme regolamentano l'operato del medico responsabilizzandolo sul piano giuridico. Significativi sull'argomento sono i contributi ottocenteschi di Alvisi (60), Cecchetti (61), Monticolo, ecc.; fra gli studi più recenti si ricordano invece quelli di Stefanutti, Gargiolli, Vitali (62) e Dall'Osso (63).
Come ricorda Cecchetti, il medico veneziano, negli ultimi secoli del medioevo, viene spesso chiamato da fuori città ed è stipendiato per curare i poveri. Si aspira anche alla presenza di clinici illustri tanto che il maggior consiglio in data 2 agosto 1321 delibera che Bartolomeo da Varignana sia preso al servizio del Comune (64). Da quando Padova con il suo studio fa parte del Dominio diventa poi particolarmente riuscita l'osmosi con questo centro di sapere i cui docenti esercitano volentieri nella capitale. Si aggiunga che molti "fisici" si imbarcano quali medici navali dando rilievo a questo singolarissimo spazio professionale. Ed ancora, è possibile esercitare sulle isole o in Levante all'ombra del console veneto trasportando farmaci e libri come fa Cornelio Bianchi, un medico laureato a Venezia che, di recente, è stato studiato da Francesca e Giuliano Lucchetta (65).
Forse più sfumata, rispetto alla storia dell'organizzazione sanitaria, è invece l'analisi della medicina vera e propria che, alle origini, non mostra grandi particolarità e si rivela quanto prima sensibilizzata dalla vicinanza di Padova. Un puntuale ed ampio saggio di Ongaro (66) sulla medicina veneta lungo l'età rinascimentale rivela con chiarezza come la pretesa di analizzare separatamente l'evoluzione della medicina veneziana avrebbe il carattere di una inopportuna forzatura ipotizzando una improponibile autonomia nei confronti dell'area culturale padovana.
Anche in merito al rinnovamento del linguaggio scientifico e all'evoluzione degli orientamenti teoretici è difficile separare l'atmosfera veneziana da quella padovana. Comune, sia a Padova che a Venezia, è la fortuna dell'aristotelismo che esercita un influsso positivo sullo sviluppo della medicina. Diffusa in tutta l'area veneta è anche la passione filologica ed al proposito sono emblematiche le fatiche di Benedetti che, fra tante iniziative, cura un'edizione di Plinio pubblicata a Venezia nel 1507 ed è un pioniere nell'uso della parola "clinica" (67); il veronese Benedetti - "greco", veneziano e padovano ad un tempo - rivela il tono cosmopolita della cultura veneziana. Pure Massa, come si è ricordato, modernizza il linguaggio abbandonando i vocaboli di origine araba poco funzionali ad un rinnovamento scientifico elettivamente fondato sulla pagina dei Greci.
Più degli aspetti teorici, che sottendono ed orientano il sapere, è peraltro la medicina pratica a richiamare l'attenzione. Indubbio al proposito è l'interesse per la prevenzione che appare particolarmente incisiva in un momento in cui la medicina riparativa dispone di un bagaglio terapeutico decisamente modesto. Suggestivo, in quanto redatto in una città di viaggiatori, è il Consilium di Pietro Tommasi (Ravenna ?-1459) (68) dedicato a due patrizi che si accingono a raggiungere l'imperatore Sigismondo in veste di "oratori delegati". Il Consilium, che si colloca lungo quel fortunato filone editoriale di medicina preventiva che va da Savonarola a Cornaro, propone un regime idoneo ad affrontare i climi freddi relativamente sconosciuti ai Veneziani. Prima della partenza, dice Tommasi, è opportuno allenarsi ed alimentarsi con sobrietà come, del resto, durante tutto il tempo in cui si vive lontano da casa. Essenziale durante gli spostamenti è poi l'uso di scarpe di cuoio adeguatamente larghe per mantener calde le estremità. L'autore, ricco di esperienze personali, sa quanto possa essere pericoloso muovere attraverso foreste e montagne nevose come quelle del Trentino e proprio facendo leva sull'esperienza vissuta scrive: "Vidi una volta la punta del naso di uno dei compagni, che implorava aiuto, annerita; e già cominciava a incancrenirsi se, per mio consiglio, ficcata nella bocca di un altro e riscaldata dal tiepido respiro, poi avvolta, non avesse trovato scampo". Ottimi il brodo di cappone prima di coricarsi e, naturalmente, la triaca almeno una volta alla settimana. Un capitolo del Consilium di Tommasi va oltre la considerazione dei rischi legati alla routine del viaggiatore ed è dedicato alla prevenzione della peste impregnando l'aria di aceto. Gli è che la peste non di rado esplode "nelle più grandi corti per la moltitudine delle genti e la varietà dei popoli che vi confluiscono" (69).
La peste, in effetti, è il grande motivo della medicina veneziana fra medioevo ed età moderna e, per la difesa da questo apocalittico male, Venezia elabora un pioneristico e puntiglioso progetto di prevenzione. Il contagio, che non distingue fra uomini e donne, fra giovani e vecchi, fra ricchi e poveri, è una tragedia collettiva e proprio per la impersonalità con cui colpisce appare di competenza dello stato che interviene con la quarantena, con l'istituzione di una magistratura sanitaria e con l'allestimento del Lazzaretto. L'epidemia colpisce per la prima volta Venezia nel 1348, proveniente dal mar Nero, raggiungendo una città provata dal terremoto ed appesantita dall'arrivo degli immigrati che, nell'anno precedente, avevano abbandonato la Terraferma per una grave carestia (70).
Le prime interpretazioni etiopatogenetiche riprendono il pensiero degli antichi e degli Arabi. La causa delle epidemie, fin dall'Autore ippocratico, era stata attribuita alle caratteristiche dell'aria; Galeno aveva poi valorizzato i fenomeni putrefattivi che possono inquinare l'aria stessa; con gli Arabi infine era affiorata la causalità astrologica. Dato che proprio l'aria è l'elemento a rischio viene consigliata la fuga dalle zone infette e se proprio non è possibile fuggire viene raccomandato l'uso di sostanze odorifere per purificarla ed in particolare dell'aceto per combattere la putrefazione (71).
Le teorie tradizionali in tema di peste sono sintetizzate da Pietro da Tossignano il cui saggio è compreso nel celebre Fasciculo de Medicina edito a Venezia nell'ultimo '400. Per quanto riguarda l'etiopatogenesi considera la predisposizione, l'aria cattiva, le influenze astrali come l'eclissi di sole o di luna e la congiunzione di Saturno e Marte con le stelle fisse. Definita la pestilenza come putrefazione, analizza la gravità della sintomatologia con i caratteristici bubboni che impongono la collaborazione del chirurgo. I consigli profilattici sono scontati: vita sobria e purificazione dell'aria. I dubbi clinici sono molteplici e sconcertanti. Ad esempio, "Perché le monache overo li carcerati non morno di tal peste": si salvano, argomenta Pietro da Tossignano, se l'aria del loro alloggio non è corrotta, ma se una persona si ammala anche tutte le altre cadono ammalate (72).
La teoria del contagio va faticosamente chiarendosi, incoraggiata dalle disposizioni amministrative dello stato e dalle osservazioni empiriche dei medici. E tuttavia, osserva Benedetti (73), è assai difficile individuare le cause autentiche della pestilenza che serpeggia "coeca, incerta, inconstans, vaga, inesorabilis, sine lege furens" tanto che vien da pensare ad una persecuzione divina per qualche colpa dei mortali. Benedetti nota che nel corso dell'epidemia muoiono anche gli animali ed è assai preciso nella descrizione della sintomatologia.
Quando il veronese Fracastoro nel De contagionibus elabora la più brillante teoria moderna in tema di malattie infettive molti aspetti del problema sono stati ormai messi a fuoco. Ed al proposito, senza entrare in merito alla complessità della teoria fracastoriana, va rilevata la profonda sintonia di questo nucleo di pensiero con la tradizionale politica sanitaria, sostanzialmente isolazionistica, propugnata dalla Repubblica per controllare e contenere il rischio di epidemie. Secondo Fracastoro (74) infatti le febbri pestilenziali, a differenza degli avvelenamenti, sono contagiose e provocate da agenti che possono riprodursi e passare da un paziente all'altro; per questo motivo, appunto, è essenziale isolare chi è contagiato o è portatore del male ancora in fase di incubazione. Il pensiero di Fracastoro, per quanto brillante, non raccoglie quella immediata coralità di consensi che potrebbe ipotizzare il lettore di oggi.
Mentre dovunque si confrontano i pareri più diversi, nel contesto veneziano spicca il contributo di Massa (75), giustamente valorizzato da Andreina Zitelli; Massa raccomanda come misura profilattica l'igiene della città ma è assai prudente nell'accettare il ricovero nel Lazzaretto. Non è in effetti semplice per gli studiosi del '500 esprimere pareri comuni in merito all'etiopatogenesi della peste per elaborare poi adeguate misure. Si noti come in occasione del contagio del 1575 il celebre Mercuriale, di cui è nota la riottosità ad attribuire a peste vera i primi decessi (76), è ancora invischiato con le tradizionali argomentazioni galeniche (77). Solo le severe ed impersonali leggi dello stato, grazie alla denuncia e all'isolamento, rivelano allora una concreta utilità che va oltre le inevitabili perplessità speculative dei medici.
Va ricordato che non tutte le febbri sono "veramente pestifere"; spesso infatti non si tratta di peste bubbonica ma esantematica che, trasmessa dai pidocchi, trova presupposti ottimali per la diffusione epidemica nella comune abitudine di non togliere i vestiti durante l'inverno. Pionieristica la descrizione di Fracastoro nel De contagionibus, edito a Venezia nel 1546. Fra le vittime del tifo esantematico, caratterizzato dalla presenza di "macchie rosse e spesso anche di porpora, simili alle punture di pulce", Fracastoro ricorda Andrea Naugerio morto nel 1529 mentre era ambasciatore della Repubblica presso il re di Francia. Nelle febbri "veramente pestilenziali", nota l'umanista veronese, manca invece l'esantema ed il contagio è più incisivo (78).
Alle pestilenze, mali emblematicamente collettivi, verso la fine del '40o si affianca la sifilide che ha invece toni essenzialmente individuali in quanto si trasmette con il contatto venereo; pure la sifilide, come la peste, è dovuta ad un microrganismo che in questo caso è un treponema. La lue si diffonde nel vecchio mondo con la rapidità dell'incendio, in singolare coincidenza con il rientro dalle Indie occidentali dei marinai di Colombo e con la calata di Carlo VIII in Italia. E questa coincidenza che ha suggerito l'ipotesi americanista, attualmente poco condivisa, per interpretare l'insorgenza dell'epidemia. Oggi invece sembrano più probabili le teorie che attribuiscono l'origine della malattia ad una virulentazione del treponema già presente (79). Al suo apparire la sifilide è caratterizzata dalla trasmissione venerea, dall'alta contagiosità, dall'andamento grave con prevalenti manifestazioni cutanee ed ossee che tendono ad attenuarsi solo con il secondo quarto del '500 (80).
Venezia deve fare immediatamente i conti con la gravità del male come testimoniano i Diarii di Marin Sanudo che nel luglio 1496 scrive: "Noto che, per influxi celesti, da anni 2 in qua, zoè da poi la venuta de' francesi in Italia, si ha scoperto una nuova egritudine in li corpi humani dicto mal franzoso, lo qual mal si in Italia come in Grecia, Spagna et quasi per tutto il mondo è dilatado. Et de natura è che debellita li membri, le mane e piedi in specie di gotte, et fa alcune pustule et vesciche tumide, enfiade per tuta la persona, e sul volto, con febre e dolori artetici, che fa tuta la codega piena e coperta di broze su la faza fino ai ochii, come fanno varuole, a le femine tutte le coxe fino alla natura, in tanto fastidio che tal paciente chiamavano la morte. Et comenza ditto mal a le parte pudiche prima, et nel coyto è contagioso, altramente no. Dictur etiam puti l'hano. Dura a variar longamente, et a conclusive spurzizzimo mal, tamen pochi ne more. El qual mal, licet molti dicono sia venuto da francesi, tamen lhoro etiam l'hanno da anni 2 in qua abuto, et lo chiamano mal italiano" (81).
La lega veneziana in verità nel 1495 Si era scontrata a Fornovo sul Taro con le truppe di Carlo VIII reduce da Napoli. Benedetti, che segue in veste di medico l'esercito veneziano, lascia interessanti appunti in merito alla vicenda, brillantemente esposta nei capitoli del De bello carolino. Il re di Francia, sedotto da sogni ingannevoli, attraversa le Alpi annunciato sia da prodigi che da segni di imminenti calamità e non appena giunto in Italia è colpito, lui stesso, da "un'ardentissima febbre" (82) con manifestazioni cutanee. Si tratta di un principe corrotto come Benedetti può verificare personalmente quando dopo la rotta dell'esercito nemico ha fra le mani un libro del sovrano "nel quale erano dipinte varie imagini di meretrici sotto diverso habito, e età, ritratte al naturale, secondo che la lascivia, e l'amore l'haveva tratto in ciascuna città: queste portava seco dipinte per ricordarsene poi" (83). Il re, del resto, è a capo di una singolare armata seguita da "mandra di femine, e un gran numero di bagaglie" (84) che ne gonfia le fila. Parlando dei soldati, dice poi che la loro "crudele lussuria non risparmiava le sacre vergini" e commenta che "le donne principali vergognate piangevano i vituperi usati nei corpi loro" (85). Si tratta insomma di una caotica brigata in armi che sembra messa insieme per diffondere la lue.
Fra le prime riflessioni critiche in merito alla singolarità del contagio va segnalato il Libellus de Epidemia quam vulgo morbum Gallicum vocant di Leoniceno, un'opera edita a Venezia da Aldo Manuzio nel 1497 e recentemente studiata da Stefanutti (86).
Interessanti, per quanto concerne la letteratura medica, sono anche le osservazioni di Benedetti che peraltro non affronta l'argomento in uno specifico trattato come fa per la peste. L'illustre clinico scrive nell'Anatomice che il morbo gallico - un morbo "novus vel saltem medicis ignotus prioribus" (87) - si trasmette per contatto carnale ed induce atroci dolori lungo le membra. All'autopsia di una donna che ne era affetta coglie la singolarità delle lesioni ossee con ampie suppurazioni al di sotto dei tessuti ancora indenni (88). Sul piano terapeutico ricorda l'impiego del mercurio di cui riconosce con tempestività i possibili effetti collaterali dannosi a livello dei denti (89). Accanto alle osservazioni cliniche ed anatomo-patologiche non mancano immagini e fantasie da quaresimale: il morbo, tipico delle donne da svago, deturpa infatti i genitali ed eclissa ogni seducente bellezza tanto che femmine più affascinanti di Venere possono causare tardive penitenze (90).
I medici devono ormai confrontarsi quotidianamente con la sifilide che a Venezia è studiata, ancora una volta con attenzione, da Niccolò Massa che se ne occupa sia nel Liber de morbo gallico (91) che nelle Epistolae medicinales (92). Anche Massa, come altri studiosi, prende atto della gravità della sintomatologia dolorosa. In merito alla terapia propone qualche suggerimento dietetico e considera il possibile impiego dell'indaco e delle solite applicazioni mercuriali.
La terapia, se si esclude l'uso ampiamente condiviso del mercurio, brancolava allora nel buio: si provava di tutto, anche il bagno nell'olio che era poi messo in vendita con equivoche conseguenze commerciali, tanto che i provveditori - ricorda Stefanutti (93) - con parte del 5 settembre 1498 minacciano di forti multe quanti fanno commercio di "olii tristi et de pessima sorte ne li quali sono sta dentro persone, le qual hanno avuto et hanno mal franzoso, per il qual suo star in dicti oglij se hanno trovato assai immonditie, broze et altre immundicie et sporchezi il che è cossa molto periculosa".
Con l'avvento della sifilide, la medicina come i commerci e gli stessi costumi scoprono nuove frontiere. In effetti, quando Antonia nelle battute iniziali dei Ragionamenti dell'Aretino lamenta che il mondo è cambiato con la diffusione del "mal francioso" (94) non è ispirata dalla sola retorica; i costumi sono effettivamente mutati. Le consolidate tradizioni galanti di un porto di mare come Venezia contribuiscono, del resto, alla diffusione del contagio. Tanto più che con l'ultimo '400 le prostitute, che prima erano confinate nel Castelletto, si muovono più liberamente per operare dapprima nella zona delle Carampane e in seguito un po' dovunque nei rispettivi alloggi. Verosimilmente anche la sodomia favorisce il contagio (95).
In anni tanto fortunosi, mentre il personaggio del medico è ora spinto alla fuga per il timore della peste ed ora è travolto da fantasie di colpa per il morbo gallico, Benedetti invita con decisione al decoro professionale. Il medico responsabile, argomenta Benedetti, deve farsi carico di un numero adeguato di pazienti evitando il trattamento delle malattie inguaribili ma operando nel migliore dei modi se vi è qualche speranza di guarigione. In ogni caso va sconsigliato lo spreco dei farmaci soprattutto da parte di chi è sano; il medico piuttosto, incalza Benedetti, deve far leva sull'umore del paziente che va accostato con pazienza e con rispetto (96).
La cura è l'obiettivo di ogni incontro fra medico e paziente che avviene all'insegna delle tecniche e delle regole più diverse.
I Capitolari veneziani, promulgati nel XIII secolo in un'età di grande ed emergente decoro pubblico, chiariscono per tempo le regole che la comunità civile impone agli operatori sanitari - medici, speziali e barbieri - scomponendone i ruoli terapeutici, sia nell'interesse del malato che delle rispettive categorie professionali.
Il medico, figura nodale del gioco terapeutico, è da allora impegnato a non entrare in combutta con i farmacisti con fini di lucro ed è altrettanto vincolato a non distribuire sostanze tossiche. Compito del medico resterà sempre la prescrizione dei farmaci, la cui elaborazione spetta invece agli speziali, o la prescrizione di idonei interventi manuali, quale l'emblematico salasso di competenza dei barbieri.
La terapia, che nell'età in esame viene ancora pensata nell'ambito ideologico del galenismo, tende in ogni caso a far evacuare l'umore in eccesso e a correggere la qualità della materia peccante per ricomporre l'equilibrio del corpo. Attraverso un'ampia rete di connessioni analogiche, il suggerimento terapeutico, che è innanzi tutto dietetico, mira pertanto a collegare l'inclinazione temperamentale e la crasi umorale del malato con la qualità degli specifici prescritti, tenendo conto dello stesso mondo esterno che tutto influenza.
Il salasso, un intervento manuale per combattere la congestione e il ristagno degli umori, rientra fra i più consolidati suggerimenti di ispirazione tradizionale.
Si tratta della classica operazione praticata dai barbieri che a Venezia - così recita il rispettivo Capitolare (97) - devono salassare nei soli giorni previsti ed eliminare poi il sangue cavato trasportandolo, per precauzione igienica, in un mastello coperto. Un'elegante tavola del Fasciculus medicinae indica le vene da incidere nelle differenti condizioni patologiche tenendo conto dei costumi di sempre piuttosto che delle opportunità meccaniche che in qualche caso, come nella congestione cardiaca, sono però evidenti tanto da giustificare la fortuna di questa pratica tanto antica quanto concettualmente semplice.
Assai più complesso è l'ambito della prescrizione farmacologica, basti pensare agli interessi commerciali che ruotano intorno allo zucchero, alle erbe e alle spezie che giungono da Creta o dal Levante con grandi aspettative economiche. Ma si pensi anche che il "farmaco" ora sconfina verso la culinaria ed ora verso la tossicologia ed ora si presenta, alla maniera della celeberrima teriaca veneziana, come un elaboratissimo invito simbolico alla guarigione, privo di mirata incisività biologica.
Molte erbe tuttavia non sono prive di una riconosciuta e precisa azione farmaco-dinamica; per riconoscerle ed averle a disposizione si ricorre pertanto agli erbari e si allestiscono i primi orti botanici. Questo itinerario conoscitivo passa attraverso la riscoperta degli antichi, in ispecie di Dioscoride tradotto nel '400 da Ermolao Barbaro che, con il suo impegno di traduttore (98), contribuisce alla rinascita della scienza per quanto i suoi interessi, come puntualizza Premuda (99), siano quelli dell'umanista piuttosto che dell'osservatore della natura. Del resto, osserva al proposito Palmer (100) che lungo il rinascimento le stesse ricerche sul campo condotte in Italia dai botanici sono ancora in funzione della comprensione dei testi classici.
Fra gli erbari più interessanti va ricordato quello appartenuto al medico veneziano Benedetto Rinio (1485-1565) ed elaborato da Nicolò Roccabonella; il codice, un vero trattato di erboristeria, risale verosimilmente alla metà del '400; illustrato dal pittore veneziano Andrea Amadio, mostra una stretta uniformità fra scrittura e illustrazione. Il Roccabonella descrive essenzialmente piante utili a scopo terapeutico, ad esempio quelle contenenti droghe purganti. Si occupa anche degli ingredienti della teriaca, spesso sofisticati (101). Degna di nota è anche l'opera del patrizio veneziano Pietro Antonio Michiel che dal 1552 al 1556, per incarico dei riformatori allo studio, sovraintende alla sistemazione dell'orto botanico di Padova; al rientro a Venezia realizza poi un prestigioso erbario in cinque libri per documentare le piante di cui viene a conoscenza e in ispecie quelle provenienti dal Levante che coltivava nel suo giardino di S. Trovaso. I libri di Michiel documentano l'introduzione in terapia delle piante medicinali provenienti dall'America. Dei vari semplici dà la descrizione, indica la provenienza ed elenca le virtù, inserendo nel testo detti popolari allusivi ad impieghi magici (102). Molte delle piante descritte hanno interesse alimentare (103).
Fra tanti saggi e trattati, elaborati o editi in Venezia, è però il Dioscoride commentato da Mattioli a costituire l'evento editoriale destinato al più ampio successo. Molteplici sono infatti le edizioni, anche veneziane, di questo celebre manuale pubblicato sia in latino che in italiano per favorire gli speziali ignari delle lingue classiche. Mattioli commenta il testo di Dioscoride e lo integra con le acquisizioni scientifiche successive; ampio è l'interesse per i componenti della teriaca, il fortunato farmaco elaborato da Andromaco che perfeziona l'originario antidoto di Mitridate aggiungendo al prodotto la carne di vipera.
Il forte interesse veneziano per la teriaca è documentato fin dal Capitolare degli speziali. Gli speziali, infatti, si impegnano a lavorare sempre con ordine, ad usare costantemente zucchero e spezie di buona qualità e a confezionare senza frode alcuna ogni preparato - elettuari, sciroppi, unguenti ed empiastri - ma in tema di teriaca l'impegno professionale è più severo perché vuole che alla preparazione siano presenti almeno tre medici, e dei migliori, fra quelli indicati dai giustizieri e non è poi possibile venderla se non è stata controllata dagli esaminatori (104).
La teriaca ha un grande e lungo successo in terapia e nel '500 quella veneziana, come rileva Olmi (105), è fra le più apprezzate e vendute tanto che i vicini Colli Euganei, il più comodo territorio di caccia, si spopolano di vipere. Mattioli tuttavia è ben consapevole che la teriaca non ha più gli effetti robusti e miracolosi che presentava ai tempi di Galeno quando era possibile procurare tutti i preziosi ingredienti, in seguito non più ben identificati, in ogni remoto angolo del mondo di allora; così scrive nell'Epistola dedicatoria del trattato Della Materia Medicinale (106).
Anche la vicenda della terapia, in conclusione, rivelando l'intenso legame fra medicina, controllo statale ed interessi commerciali, dimostra che per Venezia sarebbe assai riduttivo tentare una storia meramente interna dell'evoluzione del pensiero medico. A Venezia la medicina progredisce sempre all'ombra delle leggi dello stato che favoriscono l'igiene, lo studio di Padova, l'editoria scientifica, la stessa fortuna delle pratiche farmaceutiche.
È ben noto che l'organizzazione sanitaria contemporanea, quale è andata configurandosi con l'avvento della medicina specialistica, risale agli ultimi due secoli. In passato invece la stessa struttura ospedaliera rispondeva a motivazioni prevalentemente assistenziali e sociali piuttosto che ad evidenti bisogni sanitari. La progressiva differenziazione ed individuazione dei differenti bisogni e dei diversi spazi d'intervento risale, ad ogni modo, alle origini dell'età moderna ed implica il continuo confronto della tradizionale carità cristiana con progetti amministrativi sempre più accentratori ma anche con le necessità di un sapere medico che esige spazi operativi sempre meglio definiti.
Pure a Venezia, come in tante altre città d'Europa, l'assistenza sanitaria trova le sue lontane origini in associazioni con scopi religiosi che risalgono al medioevo. A Venezia si parlava, appunto, di "Scuole" per indicare queste associazioni religiose fra laici volte a favorire sia le pratiche di spiritualità che il mutuo soccorso. Il loro spirito era quello dell'Epistola di Giacomo (5, 15) che insiste sulla preghiera e sulla fede per guarire dall'infermità. Ricorda al proposito Molmenti (107) che fra le prime associazioni che riconoscono l'impegno assistenziale per i poveri e per gli infermi va segnalata quella dei pellicciai.
Fra queste associazioni alcune erano dette "Scuole grandi" e in origine i loro membri praticavano la flagellazione durante le cerimonie religiose ma, come avverte Maschio (108), già nel XV secolo le Scuole grandi rinunciano progressivamente al loro mandato, essenzialmente spirituale, per trasformarsi in una sorta di blocco laico al servizio dello stato; le elemosine, che riguardano anche gli ospedali, vengono allora distribuite con modalità sempre più controllate. Verso il '50o erano Scuole grandi S. Maria della Carità, S. Giovanni Evangelista, S. Maria in Valverde o della Misericordia, S. Marco e S. Rocco. Quest'ultima viene fondata in occasione dell'epidemia che colpisce la città nel 1478 e, ispirandosi ai regolamenti delle antiche Scuole dei Battuti, si richiama al santo che, per eccellenza, è il guaritore della pestilenza (109).
Alla fine del '400 e soprattutto lungo il '500 nuovi fermenti religiosi, in sintonia con le esigenze amministrative dello stato moderno, completano e integrano l'assistenza tradizionale. La riorganizzazione degli ospedali costituisce un momento nodale di questa rinnovata forma di filantropia. Franca Semi (110) descrivendo il numero complessivo degli "ospizi" veneziani - per pellegrini, malati, poveri, vedove ecc. - elabora ben 132 schede, una per ospizio, ma non sempre è possibile stabilire con chiarezza la durata di queste istituzioni; ad ogni modo, nella seconda metà del '500 gli ospedali, di verosimile origine medioevale, sembrano essere una quarantina.
A Venezia, in effetti, la riorganizzazione moderna di queste istituzioni si concretizza più lentamente che altrove. Si noti che nel 1448 viene fondato l'Ospedale Generale di Milano e che l'anno dopo l'amministrazione veneziana di Bergamo decide di fondere i piccoli ospedali della città; alla fine del '400 poi la tendenza accentratrice, in vista di una amministrazione più efficiente, appare quanto mai diffusa. A Venezia invece, fra '400 e '500, non esiste un ospedale generale ed i vari ospizi accolgono per lo più una decina di persone, vedove o anziani. Nel primo '500 si possono tuttavia individuare tre ospedali di discreta ampiezza: quello degli Incurabili per i luetici, quello dei Derelitti con funzione polivalente e quello della Pietà, fondato nel '300, che ospita verso la metà del secolo alcune centinaia di bambini. Più recente è la storia dell'Ospedale dei Derelitti che risale al 1528 quando nella città, colpita dal tifo, è necessario l'intervento dello stato per riorganizzare l'assistenza ai mendicanti; fra le varie iniziative va allora segnalato l'allestimento di quattro ospedali, uno dei quali - ai SS. Giovanni e Paolo - diventerà un'istituzione permanente; questo alloggio, allestito dapprima in legno e poi in pietra, con il nome di Ospedale dei Derelitti risponde comunque a bisogni diversi e non alle esclusive esigenze degli infermi (111). Solo a fatica infatti i problemi della sanità si differenziano nella marea di bisogni sociali che premono sulla città promuovendo l'istituzione di strutture molteplici. Fra le varie istituzioni che operano nella Venezia rinascimentale presentano, d'altra parte, un indubbio interesse storico-medico quelle attivate per la lebbra, per la peste e per la sifilide.
La lebbra, un male tipicamente medioevale, tende a scomparire anche a Venezia, come in tutta l'Europa, con l'avvento dell'età moderna. Esisteva peraltro in un'isola della laguna, ben separato dalla città, un lebbrosario dedicato a s. Lazzaro. Alla fine del '400 il problema, per quanto in recessione rispetto ai secoli precedenti, è ancora parzialmente avvertito tanto che nel 1495 i provveditori alla sanità ordinano che i lebbrosi alloggiati in città siano ricoverati in quest'isola concedendo però che continuino a mendicare negli spazi aperti ma non nelle piccole calli per il timore del contagio. La situazione migliora rapidamente e nel 1528 si contano solo 5 malati. Alla fine del secolo gli alloggi destinati ai lebbrosi sono ormai cadenti e disabitati tanto che nel 1594 la sede e le rendite non utilizzate sono messe a disposizione del senato per i mendicanti poveri. Nel 1600 ai SS. Giovanni e Paolo verrà poi acquistato un terreno dove inizia quanto prima la costruzione di un ospedale che, nel rispetto degli antichi statuti di S. Lazzaro, si impegnerà ad accogliere prioritariamente i colpiti da lebbra e da rogna (112). La lebbra è insomma il male intorno a cui, attraverso eclissi e ristrutturazioni, si va lentamente articolando l'assistenza ospedaliera moderna.
Interessante per l'evoluzione della sanità è, naturalmente, anche il ruolo svolto dalla peste bubbonica che si alterna ad altre, meno definite morie, fra cui si può riconoscere il tifo petecchiale. Scrive Brusatin: "La peste (pur anche confusa con altre malattie a decorso benigno) è stata presente nel XV secolo 30 volte a Venezia, dal 1477 al 1498 quasi in permanenza, in tale periodo si è notato 10 sviluppo dell'iniziativa dei lazzaretti, nel XVI secolo 10 volte riunendo in un solo episodio quella molto virulenta del 1575-76" (113). Come si è ricordato il Lazzaretto Vecchio, un ospedale per appestati allestito nell'isola di S. Maria di Nazareth, risale al 1423, l'ordine di allestimento del Lazzaretto Nuovo risale invece al 1468.
La sifilide, accanto alla lebbra e alla peste, è l'altra grande malattia che catalizza l'assistenza sanitaria rinascimentale. Se dietro i provvedimenti in tema di peste si coglie la sollecitudine del legislatore, l'assistenza alla sifilide fiorisce all'ombra della carità cristiana. Gli è che nel primo '500 contribuiscono al rinnovamento dell'assistenza le Compagnie del Divino Amore, associazioni di laici ed ecclesiastici dedite alla carità e soprattutto ad attività sistematiche per i cronici in ambiente ospedaliero: i sifilitici accolti negli Ospedali degli Incurabili, sono fra i primi assistiti. L'Ospedale veronese della Misericordia del 1515 e quello bresciano del 1521 sono istituzioni di questo genere. Anche a Venezia prima del 1522 sono introdotte le Compagnie del Divino Amore grazie a Gaetano da Thiene che coinvolge due nobildonne - Maria Malipiera Malipiero e Marina Grimani - per dare ospitalità a tre povere luetiche. Viene così fondato l'Ospedale degli Incurabili che acquista rapidamente una dimensione molto più ampia delle istituzioni medioevali. L'iniziativa riscuote, infatti, il consenso dei provveditori alla sanità che con ordinanza del 22 febbraio 1522 dispongono che vi siano convogliati i mendicanti affetti da lue: il numero dei pazienti cresce pertanto rapidamente tanto che già nel 1525 ammontano a 150. Si noti che i compagni di s. Ignazio di Loyola, per pratica ascetica, operano a Venezia al servizio dei cronici sia presso gli Incurabili che presso i Derelitti (114).
Tutto sommato, anche a Venezia come altrove, le strutture sanitarie moderne non sono l'espressione di esclusivi suggerimenti maturati nell'ambito della medicina. La nascita degli ospedali moderni risente piuttosto della tradizionale carità e delle opportunità amministrative che si misurano con le più gravi malattie che disturbano la società e che la medicina mette faticosamente a fuoco.
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2. Santo Brasca, Viaggio in Terrasanta, a cura di Anna Laura Momigliano Lepschy, Milano 1966, p. 49.
3. Umberto Forti, Storia della tecnica dal Medioevo al Rinascimento, Firenze 1957, p. 530.
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7. La scienza a Venezia tra Quattrocento e Cinquecento. Opere manoscritte e a stampa, a cura di Carlo Maccagni, Venezia 1985.
8. Angelo Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, p. 561 (pp. 513-563).
9. Ugo Stefanutti, Documentazioni cronologiche per la storia della medicina, chirurgia e farmacia in Venezia dal 1258 al 1332, Venezia 1961, pp. 37-39.
10. Giovanni Monticolo, Prefazione a I Capitolari delle Arti Veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, a cura di Id., I-II, Roma 1896-1905: I, p. XLIII.
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12. Francesco Bernardi, Prospetto storico-critico dell'origine, facoltà, diversi stati, progressi e vicende del Collegio Medico-chirurgico e dell'arte chirurgica in Venezia, Venezia 1797, p. 5.
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18. Alessandro Benedetti, Anatomice sine de hystoria corporis humani Libri quinque [...>, lib. V, cap. XXIII, Argentorati 1528, f. 79v.
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29. L. Nardo, Dell'anatomia in Venezia, p. 9.
30. A. Benedetti, Anatomice, lib. I, cap. I, ff. 8r-9r.
31. Ibid., lib. II, Praefatio, f. 17r; lib. III, cap. I, f. 36v.
32. Albrecht von Haller, Bibliotheca anatomica, I, Tiguri 1774, p. 166.
33 G. Cervetto, Di alcuni celebri anatomici italiani, pp. 88-8g.
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41. Ugo Stefanutti, Le pitture dell'anatomia di Girolamo Fabrici d'Acquapendente, "Rassegna Medica", 34, 1957.
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45. Francesco Bernardi, Elogio di Gio. Andrea Dalla Croce medico chirurgo ed anatomico veneziano del secolo XVI, Venezia 1826.
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51. Id., Il fatto d'arme del Tarro fra i principi italiani, et Carlo ottavo re di Francia, insieme con l'assedio di Novara, Venezia 1549, f. 28v.
52. Ibid., f. 49r.
53. Id., Omnium a vertice ad calcem morborum signa, causae, indicationes et remediorum compositiones, lib. XXII, cap. XLVIII, Basilea 1539, p. 867.
54. Id., Anatomice, lib. IV, cap. XXXIX, f. 67v.
55 F. Pierro, Originalità dell'opera anatomica, p. 15.
56. F. Bernardi, Elogio di Gio. Andrea Dalla Croce, p. 18.
57. D. Giordano, Scritti e discorsi, pp. 115, 156.
58. G.A. dalla Croce, Della cirurgia, Prefattione, ff. 3res.
59. Ibid., lib. VII, pp. 273-276.
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72. Pietro da Tossignano, Consilio per la peste, sta con Johannes de Ketham, Fasciculo de medicina vulgarizato, Venezia 1493.
73. A. Benedetti, De pestilentiae, cap. I, sta con Omnium a vertice ad calcem morborum signa, p. 1134.
74. Girolamo Fracastoro, De contagionibus et contagiosis morbis et eorum curatione, lib. II, cap. 3 e cap. 8, in Id., Opera omnia, Venezia 1574, f. 84v e f. 89r.
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79. Domenico Thiene, Sulla storia de' mali venerei, Venezia 1836, pp. 35 e s.; Henry E. Sigerist, L'origine della sifilide, "Archivio di Storia della Scienza", 7, 1926, pp. 243-253; Anne Marie Moulin - Robert Delort, La sifilide: un male americano?, in L'amore e la sessualità, a cura di Georges Duby, Bari 1986, pp. 207-218.
80. Attilio Zanca, Il Mal Francese, "Kos", 1, nr. 1, 1984, pp. 77-92.
81. Marino Sanuto, I diarii, a cura di Federico Stefani et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903: I, coll. 233-234.
82. A. Benedetti, Il fatto d'arme del Tarro, f. 7r.
83. Ibid., f. 31r.
84. Ibid., f. 13r.
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86. Ugo Stefanutti, Il problema del "morbo gallico" nel pensiero di Nicolò Leoniceno, in AA.VV., Fatti e personaggi di Storia della Medicina, Venezia 1959, pp. 95-105.
87. A. Benedetti, Anatomice, lib. II, cap. XXI, f. 30r.
88. Ibid., lib. I, cap. VI, f. 14r.
89. Id., Omnium a vertice ad calcem morborum signa, lib. VI, cap. XV, p. 257.
90. Ibid., lib. XXVII, Proemium, p. 1024.
91. Niccolò Massa, Liber de morbo gallico, Venezia 1536.
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93. Ugo Stefanutti, Cortigiane in Venezia d'altri tempi. Aspetti medici e sociali, Milano 1958, p. 9.
94. Pietro Aretino, I ragionamenti, Bologna 1965, p. 20.
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