Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dalla seconda metà del Settecento si avvia il processo di medicalizzazione dell’intera società. Una serie di mutamenti culturali, epistemologici, istituzionali e sociali consentono alla medicina – nonostante le forti resistenze delle abitudini terapeutiche – di assumere la fisionomia che oggi conosciamo: la localizzazione delle malattie, la riforma degli ospedali, la concezione della salute come bene pubblico e la prevenzione di alcune epidemie.
Nella storia della medicina il Settecento si presenta come un secolo di svolta per ciò che riguarda tanto l’interpretazione delle malattie quanto – sul piano sociale – l’esercizio delle professioni mediche, il rapporto tra medicina e potere e quello tra medici e pazienti. Proprio in questo secolo l’arte medica inizia ad assumere la fisionomia scientifica e professionale che oggi conosciamo.
Nella prima metà del secolo è certo difficile individuare profonde cesure rispetto alla medicina praticata nel XVII secolo e, addirittura, nel Medioevo o nel Rinascimento. Gran parte delle innovazioni culturali, istituzionali, professionali e sociali della medicina settecentesca sono state, infatti, realizzate nella seconda metà del secolo. Ciò è avvenuto non soltanto in concomitanza con la diffusione e definitiva affermazione dei principi e dei valori dell’Illuminismo, ma anche grazie a circostanze politiche che in vario modo hanno consentito e promosso lo sviluppo della medicina sul piano teorico e pragmatico.
Sarebbe tuttavia errato pensare che tali innovazioni abbiano immediatamente mutato le abitudini sanitarie e terapeutiche quotidiane radicate da secoli, se non da millenni, nella società europea. Nel Settecento la pratica medica quotidiana si trasforma assai lentamente, e contemporaneamente si pongono le basi per la medicina moderna e per il processo di medicalizzazione della società di cui siamo ancora oggi testimoni.
Sulla scia della medicina seicentesca e della fisica di Newton, i medici dell’età dei Lumi si dedicano alla ricerca di leggi e principi semplici e generali che spieghino i meccanismi e il funzionamento del corpo umano. Si tratta, in realtà, di un’attività antica che aveva occupato filosofi e curatori sin dai tempi di Ippocrate. Per quasi due millenni la fisiologia e la patologia umane erano state interpretate attraverso la teoria degli umori.
L’anatomia di Vesalio, la circolazione del sangue di Harvey, le recenti scoperte nel campo della fisica e della chimica e alcune innovazioni tecnologiche come quella del microscopio avevano consentito, già a partire dal Seicento, una profonda critica del paradigma umorale da parte dei cosiddetti iatrochimici e iatrofisici.
La crisi del paradigma umorale spiega la proliferazione di sistemi medici nel corso del XVIII secolo. Essi costituiscono i molteplici tentativi attraverso cui alcuni medici cercano di fornire una sintesi razionale della conoscenza medica, proponendo – di solito – un unico principio esplicativo che consenta di razionalizzare le cause e le manifestazioni delle malattie.
Gran parte dei teorici che producono sistemi esplicativi complessivi nel corso del secolo sono medici di fama, godono del rispetto e della protezione delle classi superiori e professano nelle principali università europee del tempo: Leida, Halle, Edimburgo e Montpellier. Uno dei personaggi di spicco nel panorama dei teorici di sistemi medici è Hermann Boerhaave, il cui insegnamento a Leida influenza gran parte della produzione teorica di ambito medico nell’Europa settentrionale del XVIII secolo. Nel suo sistema egli riesce a combinare un approccio prettamente clinico con gli sviluppi della fisica e della chimica contemporanea. Alla nuova università di Halle accanto a Friedrich Hoffmann, che propone un sistema meccanicista assai simile a quello di Boerhaave, insegna e opera anche Georg Ernst Stahl, un medico e chimico che aveva aderito al pietismo, una nuova corrente mistica del protestantesimo tedesco. Questi, nella Theoria medica vera, oppone alla spiegazione meccanica e idrodinamica della fisiologia umana un modello interpretativo secondo cui l’“anima” presente in ogni parte dell’organismo presiede alla sua conservazione o putrefazione.
Albrecht von Haller adotta come principi esplicativi della vita e della malattia l’irritabilità e la sensibilità localizzabili nelle fibre muscolari e nervose. William Cullen, professore di medicina all’università di Edimburgo, pone al centro della fisiologia umana il sistema nervoso preposto a governare l’attività dei fluidi e dei solidi presenti nel corpo umano, combinando in tal modo nel suo sistema la meccanica di Hoffmann con la neurofisiologia di Haller.
Due caratteri sembrano accomunare tutti questi sistemi medici diversi e spesso contraddittori prodotti nel corso del Settecento: il loro rapido avvicendamento e inevitabile declino e l’incapacità di proporre sul piano terapeutico delle reali alternative alle pratiche della medicina umorale tradizionale.
La svolta decisiva, che impone l’accantonamento della medicina umorale e delle pratiche terapeutiche tradizionali, è l’idea di malattia come lesione locale.
Già nel 1712 Giovanni Battista Morgagni, nella prolusione letta all’università di Padova (Institutionum medicarum idea) afferma che “non è possibile prospettare la natura e le cause di nessuna malattia senza le rispettive dissezioni dei cadaveri”.
Le autopsie post mortem come strumento di ricerca patologica non erano tuttavia cosa nuova: Antonio Benivieni, Realdo Colombo, Volcher Coiter, William Harvey e molti altri le avevano praticate e Théophile Bonnet, nel Sepulchretum anatomicum, aveva raccolto circa seimila osservazioni post mortem documentate dalla letteratura medica prodotta sino ad allora. Morgagni attinge a questo patrimonio nella redazione del De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, ma applica qui alla medicina, per la prima volta in modo sistematico, il metodo morfologico (o anatomo-clinico).
Grazie alla sua pluridecennale esperienza nell’ospedale di Padova ha l’occasione di seguire il decorso di molte malattie sino alla morte del paziente e di praticare successivamente autopsie sui corpi dei malati deceduti per cercare di stabilire un possibile rapporto tra i fenomeni ante mortem e post mortem. Ciò gli consente, in opposizione alla patologia tradizionale, non specifica, diffusa e umorale, di localizzare le malattie e determinarne la fisionomia attraverso le lesioni specifiche subite dagli organi.
Si apre così la strada a quella che Michel Foucault definisce la “nascita della clinica”: per il medico la malattia si svincola progressivamente dalla metafisica del male e la medicina, d’ora innanzi, si vuole e si presenta almeno sul piano diagnostico e prognostico – come disciplina dimostrabile e verificabile.
Il luogo ideale per lo sviluppo della nuova medicina – soprattutto nel Settecento – è l’ospedale: qui il decorso delle malattie può essere regolarmente osservato; qui sono custoditi gli strumenti per le pratiche diagnostiche; qui l’efficacia delle terapie può essere più accuratamente valutata; qui, infine, è facilitato l’accesso al cadavere per le verifiche autoptiche. Una volta rifugio per i poveri, i marginali e gli incurabili, gli ospedali proprio nel corso del XVIII secolo perdono lentamente la loro funzione primaria – segregare con l’alibi del soccorso caritativo – e diventano istituzioni per la cura dei malati.
In Inghilterra, parallelamente alla fondazione di nuovi ospedali favorita dalla filantropia religiosa e laica e dal diretto interesse dei medici, si istituiscono a partire dal 1770 una serie di ambulatori gratuiti per i malati poveri. La Francia può contare su una rete di strutture ospedaliere preesistenti disperse sul territorio nazionale: esse vanno dagli ospedaletti parrocchiali con pochissimi letti, agli Hôtels-Dieu per i poveri, sino agli Ospedali generali, fondati nel XVII secolo, in cui sono raccolti vagabondi, mendicanti, prostitute, pazzi e incurabili. Le condizioni igieniche e sanitarie di questi luoghi sono tuttavia drammatiche e nella seconda metà del Settecento si levano numerose denunce pubbliche sui problemi dei ricoveri.
Attraverso una serie di riforme promosse da filantropi, architetti e medici illuminati, alcuni ospedali francesi sono trasformati da putride prigioni con tassi di mortalità elevatissimi in centri medici veri e propri. In Austria è invece il diretto intervento di Giuseppe II a promuovere la fondazione dell’Allgemeines Krankenhaus di Vienna (1784): un ospedale con duemila posti letto che sarà il modello per ogni altra istituzione del genere nei Paesi germanici.
L’avvento della medicina ospedaliera – contrapposta alla medicina da capezzale – determina profondi mutamenti tanto nella professione medica quanto nel rapporto tra medici e pazienti.
Le dispute di carattere puramente teorico sono accantonate a beneficio delle analisi statistiche, della nosologia e della discussione sui singoli casi e sugli specifici trattamenti terapeutici. Questi ultimi non sono più mirati alla rapida risoluzione della sintomatologia (come i salassi e le purghe), ma si pongono, nelle intenzioni, l’obiettivo di curare la singola malattia. L’ospedale diventa il nuovo luogo dove il medico costruisce il proprio prestigio socio-professionale. Prestigio e reputazione del medico dipendono in larga misura dal giudizio dei propri colleghi e non più, come nella medicina da capezzale, dal paziente e dalla fama che egli riesce a conquistarsi nel mercato terapeutico. Il malato in ospedale perde progressivamente la propria identità individuale, il controllo della propria malattia, la possibilità di negoziare la terapia: diventa, insomma, un caso clinico sul quale il medico esercita la propria abilità e la propria insindacabile autorità.
Non sarebbe corretto rappresentare la riforma degli ospedali soltanto come un effetto dello sviluppo del metodo anatomoclinico e di un mutato approccio alla malattia e al malato da parte dei medici settecenteschi. La salute diventa nel corso del XVIII secolo un valore non più soltanto individuale, ma di rilevanza sociale. Nella cultura illuministica si fa strada la convinzione che le buone condizioni di vita e di salute della popolazione costituiscano un elemento decisivo per la prosperità della società nel suo complesso. La medicina diventa – più di quanto lo sia stata nel passato – una disciplina che cura gli individui in quanto membri attivi e produttivi di una società.
Simili considerazioni inducono medici e filantropi, in collaborazione sempre più stretta con le autorità statali, a occuparsi non soltanto delle condizioni igieniche e sanitarie degli ospedali, dei manicomi, delle prigioni, degli eserciti e della salubrità delle città, ma a pianificare una politica generale della salute pubblica.
Johann Peter Frank, ad esempio, grazie anche al sostegno e all’interesse dell’imperatore Giuseppe II, intraprende uno studio analitico delle professioni e delle istituzioni mediche, delle pratiche lecite e illecite della medicina, delle misure adottate per la sanità pubblica, delle condizioni di vita e delle patologie specifiche dei lavoratori urbani e rurali nell’intento di fornire il primo quadro complessivo dei problemi sanitari di rilevanza sociale. I sei volumi della Medizinische Polizei che egli pubblica a partire dal 1784 forniscono suggerimenti preziosi per una collaborazione tra medici e istituzioni statali. Essi, tuttavia, restano in buona parte dei propositi programmatici messi in atto soltanto in modo parziale e limitatamente ai territori controllati o influenzati dal regime illuminato degli Asburgo.
La nuova cultura dell’igiene e le politiche sanitarie illuministe poco possono contro il vaiolo, il flagello che in Europa, già dal XVII secolo, è diventato uno dei più devastanti dispensatori di morte. Nel XVIII secolo un decesso su dieci è causato dal vaiolo e, come è stato approssimativamente calcolato, forse 60 milioni di persone sono decedute a causa del contagio.
Era già da tempo diffusa nella cultura popolare in Asia, in Africa e in alcune zone dell’Europa una pratica medica atta a indurre un’immunizzazione da forme violente e letali di vaiolo. Ciò avveniva inoculando materiale estratto dalle pustole di vaiolo da malati affetti in forma blanda. Nonostante lo scetticismo e la forte resistenza opposta da alcuni medici e rappresentanti del clero, nel corso del Settecento e in special modo in Gran Bretagna, si diffonde l’uso della vaiolizzazione. L’apertura della Royal Society alle curiosità etnografiche ha certamente giocato un ruolo decisivo nel rafforzare la credibilità e favorire la diffusione di questo metodo preventivo.
I medici trasformano rapidamente un semplice rimedio popolare in una complessa e costosa procedura che – concordemente alla teoria umorale ancora in auge nonostante le critiche contemporanee – prevede una preparazione all’inoculazione: dieta rigorosa, riposo, aria fresca, ripetute purghe e salassi. Ciò comporta che almeno sino alla metà del XVIII secolo la vaiolizzazione resti un privilegio limitato alle classi superiori.
Sebbene in Inghilterra, a partire dal 1750, la pratica dell’inoculazione si allarghi rapidamente anche agli strati sociali più bassi – grazie anche a una crescente coscienza dei danni economici e sociali prodotti dalle crisi epidemiche – il dibattito sull’opportunità di tale pratica rimane estremamente vivace in altri Paesi europei. In Francia solo la morte di Luigi XV, avvenuta nel 1774, convince alcuni membri dell’aristocrazia e dell’alta borghesia a far ricorso all’inoculazione a dispetto delle resistenze opposte dall’ establishment medico.
Simili difficoltà sono inzialmente affrontate anche da Edward Jenner prima che la vaccinazione (inoculazione del vaiolo vaccino sugli esseri umani) sia accettata e ampiamente diffusa nel mondo anglosassone nel corso del XIX secolo. Le critiche principali mosse a Jenner derivano dal tabù legato all’utilizzazione di materiale animale infetto sull’uomo e dall’origine “superstiziosa” della vaccinazione. Resta il fatto che questa pratica, che ha consentito di debellare il vaiolo, affonda le proprie radici nella cultura popolare di pastori e contadini.
I progressi compiuti nel corso del XVIII secolo dalla medicina, di fatto, mutano soltanto parzialmente i comportamenti professionali dei curatori e le abitudini sanitarie dei malati. I rimedi della medicina tradizionale come il salasso, la purga e l’imposizione di un regime alimentare e di vita regolati sulle manifestazioni patologiche, restano certamente le pratiche terapeutiche più diffuse a dispetto dell’elaborazione di sofisticati sistemi medici alternativi all’umoralismo.
Sul mercato terapeutico l’attività dei medici di formazione universitaria – e dunque più aggiornati – è limitata, in linea generale, alle grandi città e a una ristretta clientela di benestanti.
Chirurghi, barbieri e speziali continuano a operare secondo i modelli terapeutici tradizionali. Sebbene, in teoria, debbano intervenire e somministrare medicinali soltanto sotto il diretto controllo del medico fisico, essi dispensano cure, incidono, tagliano e salassano, trasgredendo continuamente i limiti imposti dai regolamenti corporativi e ignorando i radicali mutamenti epistemologici occorsi nella medicina alta.
Accanto a questa schiera di mestieri leciti, nel mercato terapeutico del XVIII secolo operano e – con grande successo – masse di curatori di ogni sorta: ciarlatani, saltimbanchi, imbonitori, empirici, comari. I saperi e le pratiche di questi curatori sono sovente il risultato di una sorta di ibridazione tra medicina ufficiale e medicina popolare. Alcuni hanno specifiche specializzazioni terapeutiche, altri invece operano genericamente sul corpo utilizzando rimedi segreti e – stando a quanto propagandano sulle piazze – di straordinaria efficacia.
C’è chi cura per danaro e chi semplicemente per spirito caritatevole. Molti praticano la medicina abusivamente, qualcuno ha ottenuto dalle autorità una regolare licenza (o se n’è procurata una falsa), ma tutti in qualche modo sono tollerati. Sono abbastanza rare, nonostante la nuova cultura di “polizia medica” e la vigilanza delle istituzioni corporative, le denunce per pratica illecita della medicina.
Ma nel Settecento, come già in passato, uno degli aspetti più diffusi e rilevanti della pratica medica resta “la medicina senza dottori”. Essa si esplica in pratiche domestiche e private della medicina che attingono alla tradizione medica folclorica, fondata su saperi e tecniche terapeutiche ampiamente condivisi e profondamente radicati nelle comunità. Sono conoscenze che per lo più prescindono dalla medicina dotta, sono trasmesse oralmente e attraverso ricettari familiari, manoscritti o libri, manuali e libretti popolari a stampa.
La “medicina senza dottori” consiste non soltanto nell’imposizione individuale di regole di sanità e igiene, di un regime alimentare e fisico atto al superamento degli stati patologici, ma anche nell’autodiagnosi delle affezioni, nell’autoprescrizione di rimedi e dei relativi dosaggi e, addirittura, in pratiche di autochirurgia, come ad esempio, la flebotomia.
La medicina domestica e l’automedicazione possono essere certamente interpretate come sacche di resistenza al progresso della moderna medicina scientifica, ma costituiscono anche un tenace baluardo al processo di medicalizzazione della società che inizia proprio nel XVIII secolo.