Medicina
La medicina è la scienza che ha per oggetto lo studio delle malattie, la loro cura e prevenzione. Pratiche terapeutiche e sistemi che riguardano la salute e la malattia esistono universalmente sin dalla preistoria e a ogni latitudine. Nel mondo attuale è particolarmente evidente una netta contrapposizione fra la cosiddetta biomedicina, basata sul sapere medico proprio della cultura occidentale, a partire da una visione del corpo che si considera scientificamente fondata e privilegia la dimensione biologica, e un'ampia gamma di 'altre' medicine, basate su visioni del corpo, su interpretazioni della malattia e su pratiche terapeutiche diverse e, in alcuni casi, del tutto opposte.
La medicina occidentale
di Nicola Dioguardi
l. Premessa
La medicina è un'attività tipica dell'uomo, che fonda la sua essenza nella relazione interumana, la sua attenzione nella prevenzione delle malattie, nella conservazione della salute e nella diagnosi di stati morbosi, la sua operatività nel soccorrere e curare la persona sofferente o malata. La crescita della medicina, da informe e disordinata attività a organizzato pragmatismo diretto a conservare la vita, può essere iscritta nell'ambito dell'istintiva idea che la morte sia un fenomeno non facente parte dell'esistenza: ciò porta alla credenza, da parte di quasi tutte le civiltà, che la morte intervenga con modalità differenti per determinare il passaggio a un altro ciclo di vita.
La medicina nasce dall'istinto, complesso automatismo organizzato, fisico e psichico, degli esseri viventi, il quale determina la pulsione innata che porta, tra l'altro, gli uccelli a costruirsi un nido e alcuni animali a cercare una tana in cui trovare rifugio dai pericoli e riparo dalle intemperie. È lo stesso impulso che li induce a lambire con la lingua le ferite. La predeterminazione, rispetto ai meccanismi della ragione, fa sì che questo atto, caratterizzato da moti fisici e psichici ben coordinati, sia classificato tra le componenti istintuali finalizzate alla conservazione dell'individuo nell'ambito della specie.
L'Homo sapiens, già capace di impostare i problemi inerenti al suo rapporto con l'ambiente sempre ostile, sembra in grado di cercare soluzioni ai danni che da esso possono provenire al suo organismo. Egli comincia allora a riflettere sui malanni più evidenti dai quali è afflitto. La cura delle ferite, al di là di lambirle con la lingua, tramite interventi attivi, per es. la trapanazione cranica praticata a volte con successo dall'uomo preistorico, oppure l'impiego della corteccia di china per curare la febbre, sono esempi che stanno a indicare il passaggio da reazioni istintuali ad attività dettate da una capacità empirica e razionale più sofisticata, dovuta allo sviluppo dell'intelletto. Si può anche affermare, quindi, che la medicina, sorta durante il processo che ha determinato l'evoluzione dall'ominide preumano sino all'uomo moderno, è progredita con l'accrescimento della massa cerebrale e lo sviluppo del potenziale intellettivo. Entrambi hanno consentito all'essere umano di prendere coscienza degli oggetti del mondo, di riflettere sull'intreccio ambiguo esistente tra di essi e di perfezionare l'istinto diretto alla conservazione della specie. Con l'affinarsi dell'attitudine percettiva e della volontà di osservare i fatti somatici (del corpo) e le particolarità psicologiche e psichiche (della mente) si evolve anche la capacità di mettere in memoria i dati osservati, onde usare utilmente le soluzioni dei problemi e servirsene in eventuali situazioni ripetitive. Lo sviluppo della medicina dell'Occidente può essere suddiviso in tre epoche. La prima inizia con gli albori dell'umanità e perlopiù fonda le sue certezze su basi metafisiche, anche se il patrimonio empirico accumulato nel tempo culmina nella medicina ippocratica, che pone a proprio fondamento l'observatio et ratio e interpreta la malattia come fenomeno puramente naturale, senza intrusioni metafisiche e sacrali. La seconda epoca si può far iniziare dopo la metà del Cinquecento, ma si dispiegherà compiutamente nel Seicento e nel Settecento, caratterizzandosi per la ricerca di certezze scientifiche; essa si può far risalire a Paracelso, a W. Harvey con la sua rivoluzionaria scoperta della circolazione del sangue, a G.A. Borelli con il suo libro sulle febbri in Sicilia che possiamo considerare il primo manifesto iatromeccanico, a M. Malpighi con l'invenzione dell'istologia. La terza epoca, che si propone sino a oggi e la cui essenza è nella scoperta della complessità, concetto paradossalmente rivelato dalle certezze della tecnologia, ha inizio nel 1865 con la pubblicazione dell'Introduction à l'étude de la médecine expérimentale di C. Bernard (v. il capitolo Tra immaginario e descrizione anatomica; v. anche biologia; corpo).
2.
La prima epoca, quella della medicina teurgica (basata sulla potenza della divinità) con fondamenti metafisici, si sviluppa parallelamente alla religione. È credenza, infatti, di tutte le civiltà primitive che la malattia, la guarigione e la morte siano inscrivibili nel concetto di trascendenza divina; da ciò l'affidamento di malanni e relative terapie allo stregone, al quale sono demandati i rapporti con la divinità. Di tale impostazione teurgica si possono riscontrare testimonianze in tutti i templi delle civiltà del passato. In quelli greci dedicati ad Asclepio si riunirono la credenza religiosa e le prime esperienze empiriche, accumulate in seguito all'uso di sostanze naturali e agli interventi chirurgici dei medici seguaci di Asclepio stesso. Tra questi interventi, di particolare e curioso interesse la craniotomia, una pratica chirurgica impiegata, come sopra accennato, già dall'uomo primitivo, che allora raggiunse una sorprendente perfezione tecnica. Il Corpus Hippocraticum, compendio della dottrina elaborata dalla scuola ippocratica, nella parte intitolata De capitis vulneribus, attribuita allo stesso Ippocrate (5°-4° secolo a.C.), descrive la raffinata tecnica chirurgica e il sofisticato strumentario frutto di un'esperienza accumulatasi dal periodo neolitico, quindi ancor prima degli egizi, durante il quale si trapanava il cranio non solo per riparare le ferite (traumi bellici), ma anche per eliminare gli 'spiriti maligni'. Il Corpus Hippocraticum riunisce in alcune decine di trattati il bagaglio culturale della medicina greca laica e contiene le norme e il pensiero che hanno influenzato la medicina occidentale per secoli. La dottrina racchiusa in quest'opera è basata sulla concezione esclusivamente naturalistica delle malattie e sullo studio del malato condotto tramite attenta osservazione da cui astrarre elementi di ordine diagnostico e prognostico. Si identifica la forza della natura nell'autolimitazione dei morbi e si configura nella terapia il mezzo posto in atto dall'uomo per facilitare questa proprietà naturale. Si afferma inoltre la massima universale primum non nocere, ponendo per la prima volta in evidenza il valore etico della professione medica. Si capisce, quindi, perché questo corpo di dottrine sia considerato la spina dorsale dello sviluppo della medicina. La sua diffusione favorì lo studio dell'anatomia, sino allora affidata alle conoscenze derivate dallo smembramento della selvaggina e dai sacrifici anche umani agli dei. Le prime ricerche sistematiche sul cadavere umano si svilupparono, però, quando l'epicentro degli studi si spostò dalla Grecia (ove la dissezione del cadavere umano era proibita) ad Alessandria (intorno al 300 a.C.), in seguito alle conquiste di Alessandro Magno. Il massimo anatomico dell'antichità fu Galeno, nato nel 2° secolo d.C. a Pergamo, in Asia Minore, e attivo soprattutto a Roma: notissime le sue ricerche in ambito urologico sulla secrezione dell'urina e sulle vie di deflusso dal rene attraverso gli ureteri. Galeno, continuatore del pensiero ippocratico, fu il fondatore dell'anatomia funzionale, alla base della medicina razionale. I risultati dei suoi studi derivati dalla dissezione (praticata con straordinaria maestria) sono riuniti nel De usu partium corporis humani. Dopo la caduta dell'Impero Romano, il patrimonio della medicina occidentale viene conservato nell'Alto Medioevo dai monaci benedettini. Grande importanza ebbe anche la Scuola di Salerno, nota prima dell'anno 1000 e che ebbe il suo massimo splendore nell'11° e nel 12° secolo per merito di Costantino e di Gherardo da Cremona, che introdusse in Occidente i testi classici rielaborati dagli arabi. La religione cristiana medievale riproponeva l'idea che la malattia fosse effetto del castigo e la guarigione frutto della misericordia di Dio; da questa credenza derivano le solenni processioni per invocare il termine delle pestilenze e di altre epidemie; stessa origine ha la concezione dell'ospedale a forma di crociera con l'altare posto all'incrocio delle due braccia. Fenomeno parallelo di questo periodo è il rifiorire della magia, intesa come pratica che pretende di dominare la natura e le forze ignote attraverso l'ausilio di agenti soprannaturali là dove l'uomo non può farlo; durante gran parte del Medioevo, infatti, venivano clandestinamente praticate la magia nera e quella bianca, successivamente identificate e perseguite entrambe come forme di stregoneria. Solo tra il Cinquecento e il Settecento risorge la tradizione ippocratico-galenica e il medico torna a essere considerato soprattutto un 'fisico': medicus physicus è la locuzione, conservata nella lingua inglese, usata per indicare il medico in generale.
3.
La seconda epoca della medicina inizia, secondo J. Burckhardt (1860), verso la fine del Rinascimento. La sua origine coincide con la liberazione dai pregiudizi magici e religiosi insieme alla rivolta contro il tessuto di fede e di ignoranza infantile nel quale il Medioevo, secondo Burckhardt, ha ingabbiato l'uomo e impedito ogni ricerca scientifica. Nel 1543, poco prima di morire, N. Copernico dette alla luce i De revolutionibus orbium coelestium libri sex nei quali ripropose l'ipotesi eliocentrica che era stata già di Aristarco (3° secolo a.C.) e dei Pitagorici. Sarà Galileo a dimostrare la veridicità di questa ipotesi che generò la rivoluzione in seguito detta copernicana, potente preludio alla nascente epoca delle certezze basate su fondamenti scientifici. In questi rivolgimenti intellettuali la medicina fu in prima linea. Nel Cinquecento, Paracelso pose infatti i primi elementi concreti della nuova medicina razionalistica, con la pubblicazione degli Undici trattati sulla origine, le cause, i segni e la cura delle singole malattie (1520), dei Tre libri di chirurgia (1528) e del trattato La grande chirurgia (1536), nei quali teorizzò il rifiuto di tutto ciò che non è sufficientemente provato mediante l'esperienza, affermando sulla base di questo principio che ogni malattia ha la sua causa specifica, per cui la cura va diretta contro di questa. Anche l'opera dei grandi anatomici rinascimentali, quali A. Vesalio e Leonardo, per citare i più famosi, ha l'accento di un'aperta rivolta contro quella scienza e quella medicina che, per secoli, avevano ritenuto l'esperimento un mezzo di indagine non valido o fornito di validità assai limitata e avevano guardato con diffidenza all'osservazione scientifica. La necessità di giungere a certezze derivate da maggior rigore, di non rinunciare alla razionalità, di inserirsi in linee di ricerca libera dalle concezioni metafisiche, provocò la rivoluzione scientifica della medicina barocca, che, nel 1649, prese forma ufficiale con la pubblicazione del libro Delle cagioni delle febbri maligne della Sicilia negli anni 1547 e 1648 di Borelli, considerato il manifesto iatromeccanico. Con esso e con la pubblicazione postuma a Roma del De motu animalium (1680-81), la iatromeccanica, che contestava la medicina ippocratico-galenica, entrò nella storia della medicina. Borelli ebbe anche a scrivere di non temere di tirarsi addosso le contraddizioni di tutti coloro che 'tengono per maggior peccato' il dissentire dagli antichi, che il 'credere le bugie per verità'.
Questo atteggiamento vale anche per descrivere la posizione di Malpighi nell'evoluzione della ricerca della conoscenza medica. Egli portò l''occhialino' di Galileo, nato dalla necessità di allargare la limitatezza dell'occhio umano, alla dignità di microscopio, potente mezzo scientifico, con il quale aprì i capitoli dell'anatomia microscopica e dell'istologia. L'importanza delle sue intuizioni, certamente impensabili senza la mediazione di quello strumento di indagine, gli assegna sicuramente un posto di rilievo nell'epistemologia della medicina; l'idea e la corrente di pensiero che ne scaturiscono sostituiscono il sistema di medicina ippocratico-galenica. L'idea di identificare negli organismi viventi 'minute macchine' necessarie allo svolgersi dei 'moti corpuscolari' pone Malpighi, insieme a Galileo, Borelli, Cartesio, in posizione centrale nell'epistemologia che porterà all'affermazione del meccanicismo.
La iatromeccanica fu corrente di pensiero troppo avanzata per trovare applicazioni pratiche nell'epoca in cui fiorì. La sua origine tipicamente razionalistica generò però numerose conseguenze. Una di queste viene da Harvey, che frequentò l'Università di Padova dal 1600 al 1602, durante l'insegnamento di Galileo e di G. Fabrici da Acquapendente, del quale diventò allievo. Tornato in Inghilterra, Harvey scoprì la circolazione del sangue (Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus, 1628). La rivoluzione che questa scoperta portò nella medicina è incommensurabile. Intanto nel 1622, a Milano, G. Aselli aveva scoperto casualmente i vasi linfatici chiliferi e nel 1647 si ebbe la scoperta delle più grandi strutture di questo sistema, il dotto toracico e la cisterna magna, da parte di J. Pecquet. Il modo meccanicistico di fare clinica su basi anatomiche trovò la sua prima vera culla nell'Università di Leida, nell'annesso ospedale di S. Cecilia, durante la prima metà del Settecento a opera di H. Boerhaave. La sua metodologia che lo proclamò 'clinico per eccellenza' è ancora fondamento di molta medicina attuale. Un'altra importante conseguenza derivata dalla iatromeccanica fu il rifiorire della medicina empirica. Esponente di grande rilievo di questa corrente fu Th. Sydenham. Le descrizioni del quadro clinico della gotta e della corea minor indicano che fu influenzato dalle tendenze empiriste del pensiero inglese del suo tempo. Una fase molto importante della medicina si aprì grazie a G.B. Morgagni che, sviluppando l'impostazione epistemologica di Malpighi, fondò il metodo anatomoclinico (De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, 1761), che riporta la malattia alla sede anatomica e al tipo di lesione e ne spiega i sintomi. L'interpretazione in chiave anatomica determinò, di conseguenza, la riclassificazione delle malattie, compiuta alla fine dell'Ottocento proprio tenendo conto delle basi anatomopatologiche.
Si diffondeva, intanto, la medicina dell'osservazione da cui ebbe origine la semeiotica medica, diretta a riconoscere nel vivente, dai segni e dai sintomi, le lesioni anatomiche che Morgagni aveva già descritto nel cadavere. Alla palpazione, sino ad allora unico metodo ispettivo praticato sul malato, si aggiunse la percussione, soprattutto del torace, eseguita con le dita (immediata) o con una strumentazione mediata adatta. Introdotta da L. Auenbrugger, questa manovra intende rivelare la presenza di alterazioni degli organi all'interno della cassa toracica, per es. pleurite e polmonite. Auenbrugger descrisse la sua metodologia ispettiva nell'Inventum novum ex percussione thoracis humani (1761). La metodologia semeiologica fu completata nel 1819 con il trattato di R.-T.-H. Laënnec dal titolo De l'auscultation médiate nel quale, tra l'altro, è descritto lo stetoscopio, strumento che serve per ascoltare i rumori determinati dalla rivoluzione cardiaca e dai movimenti respiratori in condizioni normali e patologiche. Tali innovazioni trasformarono l'ospedale da sede di opere di carità in centro di formazione del medico.
Meccanicismo e iatromeccanica sfociarono nel determinismo, durante l'età dell'Illuminismo; grandi teorici del movimento deterministico furono il filosofo e matematico J.-A.-N. de Caritat, marchese di Condorcet, e l'astronomo P.-S. Laplace, gli stessi che posero anche le basi della teoria e del calcolo probabilistico e introdussero la statistica nelle scienze fisiche. Questo movimento è stato talmente incisivo nell'area scientifica da far ritenere, sino a non molti anni fa, che le chiavi per risolvere con certezza ogni problema fossero: le leggi deterministiche, quindi la linearità; il tendere alla stabilità con sequenze di eventi complicati, ma preordinati, interconnessi e sommabili; le leggi di causa-effetto. Tipica metafora per la rappresentazione di queste leggi è costituita dall'ingranaggio dell'orologio, il cui movimento dipende dal cambiamento di posizione di ciascuna ruota dentata, che provoca, come effetto, il cambiamento di posizione della ruota dentata successiva. Intorno alla prima metà dell'Ottocento, la medicina sentì fortemente l'influsso del positivismo fiorito in Francia e sviluppatosi nella seconda parte del secolo nel resto dell'Europa. Il riconoscere come veri solo i risultati ottenuti dalle matematiche, dalla fisica, dalla chimica (biochimica) e dalla biologia, scienze ormai distaccatesi dal grande corpo della 'filosofia naturale', e la contestazione del convincimento che la filosofia rappresenti un sapere privilegiato esercitarono un forte fascino sulle discipline mediche. Anch'esse si orientarono, quindi, sotto l'influsso delle idee di C.-H. Saint Simon e di A. Comte, verso l'identificazione di leggi generali della natura, proponendosi come modelli positivi sia la razionalità della legge generale newtoniana della gravitazione sia l'impostazione sperimentale galileiana.
Ai movimenti empirista e positivista si devono le scoperte dell'antisepsi nelle sale operatorie e dell'anestesia. Già nel Medioevo, Giovanni da Saliceto aveva osservato che niente più dell'aria può essere nocivo al cervello in caso di ferite della teca ossea del cranio. Si deve, però, a L. Pasteur e ai suoi studi sui germi dell'atmosfera la dimostrazione della veridicità di questa affermazione. Dalle ricerche di questo grande chimico e biologo francese nasce l'idea dell'antisepsi nelle sale chirurgiche per prevenire le infezioni postoperatorie, formulata da J. Lister nel 1865. Contemporaneamente inizia anche l'era dell'anestesia, che consiste nella possibilità di interrompere farmacologicamente la coscienza e la sensibilità tattile, vibratoria, termica, dolorifica, di bloccare il tono della muscolatura striata scheletrica e ogni sua possibilità di contrazione e movimento. L'anestesia generale con l'inalazione di etere inizia negli anni 1840-50, quella con cloroformio nel 1859. Va detto che l'uso di questa pratica fu introdotto e diffuso in chirurgia dalla medicina militare.
La corrente di pensiero positivistica favorì anche lo sviluppo e la diffusione dei principi darwiniani dell'evoluzione naturale. Parallelamente a questi fermenti, prende corpo la corrente di idee che porta alla teoria del 'contagio vivo' come causa di malattia. Essa era iniziata molto prima, nel 17° secolo, con F. Redi che aveva evidenziato l'azione patogena dei microrganismi, e degli 'insetti', come venivano classificati tutti gli esseri viventi minuti e microscopici. Dalle osservazioni di Redi iniziò la confutazione di due teorie che hanno tenuto a lungo il campo durante il corso dell'evoluzione della medicina: la prima comprendeva le dottrine vitalistiche di G.E. Stahl, F. Hoffmann, Ch.R. Brown, secondo i quali i fenomeni concernenti gli esseri viventi non erano da ritenersi riconducibili a fenomeni fisici e chimici; la seconda teoria affermava che le malattie e i loro sintomi erano causati da disordini autoctoni del chimismo tessutale, dipendenti da processi di tipo fermentativo (J.B. Helmont, F. de la Boë-Sylvius) aventi attitudine a indurre lesioni anatomiche negli organi. Gli studi di C.F. Lograssi, A. Vallisneri, B. Corte, C. Borromeo, G. Cestoni condotti sull'acaro, parassita che genera la scabbia, introducono il concetto di malattia determinata da minuti animali in precedenza venuti strettamente in contatto con il malato. A tale evento fu dato il nome di 'contagio vivo diretto'. Questa nozione ricevette conferma anche da A. Bassi, al quale si devono gli studi sulle infestazioni da parassiti vivi in botanica. La conoscenza del contagio vivo indiretto attuato da animali vettori del parassita infestante - per es. l'anofele, che inocula il plasmodio responsabile della malaria - è, invece, più tardiva: il parassita malarico fu scoperto infatti da A. Laveran nel 1880 (v. malaria).
Il contributo alla conoscenza delle malattie contagiose da batteri ha i suoi massimi esponenti in Pasteur, che in questo secolo scoprì e classificò diversi microrganismi, e in R. Koch, che nel 1882 annunziò l'identificazione del bacillo della tubercolosi al quale fu successivamente attribuito il suo nome. Queste scoperte sono considerate fondamentali nella conoscenza e nella lotta contro le malattie infettive (da contagio vivo; v. infettive, malattie). Con Pasteur, Koch e altri 'cacciatori di microbi', nasce, quindi, la batteriologia che inizia l'era dell'antisepsi, vale a dire della prevenzione della sepsi (presenza di batteri patogeni) mediante la distruzione (chimica) dei batteri che ne sono responsabili. Si apriva, così, la strada a una nuova disciplina medica, l'igiene, a opera di M. Pattenkofer, che, coltivando in vitro numerose famiglie di batteri, cominciò a identificare nuove metodologie profilattiche di vaccinazioni terapeutiche a mezzo di sieri immuni.
E. Jenner fu il primo a scoprire, alla fine del Settecento, come la trasmissione all'uomo del vaiolo vaccino provochi malattia con modesta e rapidamente reversibile sintomatologia, lasciando uno stato di immunità permanente in grado di estendersi anche al vaiolo umano. La vaccinazione jenneriana, detta antivaiolosa, segnò la nascita della prevenzione diretta contro molte altre malattie, costituendo una delle più grandi conquiste della medicina; la sua applicazione su larga scala ha consentito la drastica riduzione del vaiolo sul pianeta. Alla vaccinazione, consistente nella stimolazione a scopo terapeutico della produzione di anticorpi specifici, si associa anche quella curativa, diretta all'eliminazione dell'agente parassitario, batterico, virale o fungino presente nell'organismo con l'introduzione nell'organismo stesso di anticorpi specifici. Con questi due approcci, fra Ottocento e Novecento, la medicina ha potuto eliminare molte malattie infettive mortali o altamente debilitanti: Pasteur scoprì il vaccino antirabbico, E.A. von Behering quello antidifterico, A.-L.-C. Calmette quello contro la tubercolosi, J.E. Salk e A.B. Sabin misero a punto quello contro la poliomielite che ha praticamente annullato, nei paesi in cui viene applicato, questo antico flagello dell'umanità. L'elenco delle malattie vaccinabili è lunghissimo. Possiamo dire che l'immunologia inizia con Jenner, perché l'innesto del vaccino del vaiolo porta allo studio e all'identificazione dei processi atti a provocare l'immunizzazione e farà in seguito scoprire che i batteri non sono i soli microrganismi capaci di indurre e diffondere malattie.
Il giovane medico R. Virchow diede inizio all'era della medicina sociale, mettendo in luce il grande rischio di contrarre malattie infettive riscontrato nelle classi popolari, che egli ebbe modo di constatare quando dovette occuparsi dell'epidemia di tifo della Slesia nel 1848. Il cancelliere Bismark avvertì in quell'occasione la missione sociale dello Stato e il dovere di assistenza alle classi più povere: si deve a lui la promulgazione della prima legge che decretava l'obbligatorietà dell'assicurazione sulle malattie (1883).
4.
Intanto, sull'onda dell'indirizzo positivistico, nella seconda metà dell'Ottocento si determinò una vera rivoluzione scientifica, scatenata da alcuni importanti eventi che si verificarono quasi contemporaneamente. Uno di essi è la scoperta della patologia cellulare, che risente certamente dell'influenza delle ipotesi malpighiane sulle micromacchine tessutali e individua a livello di tali microcomponenti dell'organismo la causa di numerose malattie: questo capitolo della medicina inizia con l'età matura di Virchow. Altrettanto importante è la proposta della fisiologia sperimentale di Bernard, impostazione scientifica che diede luogo a una vera frattura epistemologica del pensiero medico. I concetti della medicina sperimentale si diffondono nel mondo medico con la già citata Introduction à l'étude de la médecine expérimentale (1865), nella quale Bernard pose una pietra miliare, segno della svolta sperimentale relativa anche alla medicina clinica, che da allora basa la sua ricerca fisiologica sull'esperimento. La massima galileiana "provando e riprovando" sorregge tutta la logica di Bernard, convinto che solo seguendo questo principio si arriva a decidere sia la realizzabilità di un'intuizione sia la verisimiglianza di un'ipotesi. La sua applicazione demolì numerose credenze, ricavate dalla visione meccanicistica delle strutture degli organi e degli apparati e dei loro comportamenti, e, nel contempo, aprì la via alla farmacologia clinica nonché, nella seconda metà del 20° secolo, all'era chemioterapica e antibiotica e ai trapianti di tessuti e organi.
Un terzo evento altamente significativo si verificò nella seconda metà dell'Ottocento con la pubblicazione di On the origin of species (1859) e The descent of man and selection in relation to sex (1871) di Ch. Darwin, dove è esposto il ruolo della selezione naturale nell'indurre le variazioni che definiscono una specie durante la sua evoluzione, dipendenti secondo Darwin dalla scomparsa di alcune caratteristiche tipiche degli individui più deboli, che soccombono per la loro scarsa resistenza alle condizioni ambientali, e dal conseguente prevalere di quelle appartenenti ai componenti superstiti più forti che le tramandano. La teoria darwiniana si oppose non solo al concetto di stabilità delle specie di organismi viventi, ma anche alla teoria evoluzionistica di J.-B. de Lamarck, fondata sull'ereditarietà dei caratteri differenziali acquisiti che contrassegnano categorie distinte in grado di generare individui simili tra loro. Le teorie di Darwin e Lamarck sono state riconsiderate, nella seconda metà del 20° secolo, alla luce delle scoperte della biologia molecolare (v. biologia) e della genetica. Nel 1895 la scoperta dei raggi X, avvenuta per caso a opera di W.C. Röntgen, fa compiere un salto di qualità alla medicina clinica (per le tecniche citate, v. il capitolo La diagnostica per immagini). La radiografia, ovvero le immagini prodotte sulla superficie di una lastra fotosensibile da oggetti esposti ai raggi X, trovò subito ampia applicazione diagnostica. La tecnica radiologica si sviluppò rapidamente e ampliò la sua utilità diagnostica con la stratigrafia nel 1930, la schermografia nel 1936, la roentgencinematografia nel 1940. I maggiori progressi in senso diagnostico sono stati raggiunti però grazie alla tomografia computerizzata (TC), metodica elaborata, nel 1967, da G. Hounsfield, che utilizza le moderne tecnologie derivate dall'elettronica e dall'informatica. A queste tecniche si è poi aggiunta la radiologia numerica, che consente lo studio assai preciso delle strutture biologiche. La protezione dagli effetti nocivi sull'organismo dei raggi X ha infatti costituito un problema subito messo in evidenza dalla medicina e dalla fisica medica. Gli effetti di queste radiazioni invece sono stati utilizzati nella terapia antitumorale. Non usano radiazioni ionizzanti altri metodi di diagnostica per immagini, quali l'ecografia e la risonanza magnetica nucleare. Le prime immagini degli organi interni, utili a scopo diagnostico e funzionale, ottenute con ultrasuoni risalgono ai primi anni Settanta del 20° secolo. Da allora il metodo ecografico si è molto diffuso per la sua non invasività che consente lunghi periodi di osservazione senza danni per il paziente. L'ecografia è fondamentale per lo studio della cinetica di organi contrattili, come per es. il cuore (ecocardiografia) e la vescichetta biliare. Dal 1985 nella pratica clinica è iniziato lo studio del flusso del sangue, dai vasi sanguigni arteriosi e venosi, a mezzo dell'eco-doppler e dell'eco-color-doppler, tecnologie che danno immagini sfruttando l''effetto doppler', scoperto, nel 1842, da C. Doppler. Il loro impiego è divenuto indispensabile soprattutto in angiologia.
La risonanza magnetica nucleare (RMN) è una tecnica tomografica. Anch'essa, come la tomografia computerizzata, ottiene immagini di strati selezionati di organi interni, senza però ricorrere a radiazioni ionizzanti. I quadri della risonanza magnetica nucleare sono, infatti, il risultato delle informazioni sulla struttura della materia in osservazione che si ottengono dalle misure delle proprietà magnetiche degli atomi. Queste immagini si realizzano per l'effetto di un campo magnetico esterno sullo spin, vale a dire sul valore del momento angolare intrinseco dei protoni, particelle del nucleo degli atomi. Il perfezionamento continuo di questa tecnica con le variazioni di segnale permette di ricostruire immagini sempre più dettagliate di particolari anatomici, le cui modificazioni consentono di rivelare con chiarezza sempre maggiore gli stati patologici cui vanno incontro organi e apparati. Un ulteriore perfezionamento di tali tecniche è costituito dalla PET (Positron emission tomography) che, sfruttando gli stessi principi fisici della tomografia computerizzata, utilizza un tracciante costituito da un radioisotopo assunto dal paziente per evidenziare immagini morfofunzionali degli organi. Grazie a queste rivoluzioni tecniche, tecnologiche e intellettuali, si è dimostrato che le leggi deterministiche e il concetto di reversibilità avevano creato molte illusioni sulle possibilità di risolvere ogni problema anatomico, fisiologico o patologico. Si è andato lentamente evidenziando che molte soluzioni proposte sulla base di tali leggi sono imprecise, vaghe, inadeguate.
Alla fine degli anni Trenta del 20° secolo ha inizio la lotta alle infezioni, con il preciso obiettivo di attaccare direttamente l'agente patogeno. Infatti, nel 1939, viene utilizzata in terapia la scoperta di G. Domagk, relativa all'efficacia antimicrobica di alcune molecole di sintesi coloranti sulfonate, il cui gruppo attivo è rappresentato dalla p-amminobenzen-sulfonamide; da queste prime molecole sono stati creati nuovi prodotti ad azione antibatterica, i sulfamidici, ottenuti dal legame di catene laterali sul gruppo aminico o sul gruppo amidico, molto meno tossici e molto più attivi, la cui azione chemioterapica, di tipo batteriostatico, si esplicita su un largo spettro di germi (gram-positivi e gram-negativi). Un'altra potente arma terapeutica antibatterica è offerta dalla scoperta degli antibiotici, sostanze naturali o di sintesi aventi attitudine a inibire la crescita e la moltiplicazione di microrganismi patogeni, che si ricavano sia per estrazione diretta da batteri capaci di produrle sia a mezzo di sintesi chimiche e, più recentemente, dall'ingegneria genetica. L'inizio dell''era antibiotica' è databile dalla scoperta della penicillina da parte di A. Fleming nel 1929; essa fu usata in terapia nel 1940 su un illustre paziente, W. Churchill, quando in Egitto venne colpito da polmonite (v. farmaco).
Intanto, nel 1932, W.B. Cannon, partendo dal concetto di stabilità degli stati interni degli organismi viventi elaborato da Bernard, aveva formulato la teoria della omeostasi, la 'saggezza del corpo' (wisdom of the body), basandosi sulla nozione deterministica di stato costante che sottende il concetto di reversibilità, ovvero la proprietà di un processo di muoversi nei due sensi del suo percorso. Questa proprietà consente al corpo degli organismi viventi di tornare alla condizione iniziale, quando se ne allontani per l'azione di stimoli discreti interni ed esterni. Ma dopo gli anni Quaranta del 20° secolo, durante e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, si fa strada la convinzione che, seguendo le teorie sino ad allora considerate valide, la medicina ottenga soluzioni incerte e incomplete, le quali portano a provvedimenti terapeutici soggettivi, dubbi e insicuri. Per dare significato ai risultati riemergono con forza le teorie e le proposizioni di L.-D-.J. Gavarret espresse nel suo antesignano e troppo a lungo ignorato trattato Principes généraux de statistique médicale, ou développement des règles qui doivent présider à son emploi (1840). Queste correnti di pensiero si coagulano attorno ai principi della clinica analitica, adottando il criterio dell'intersoggettività per la valutazione di risultati a mezzo di più osservatori. Nella seconda metà del Novecento la scienza medica comincia a rendersi conto che gli oggetti dei quali si occupa sono assai più complicati di quanto non si credesse. Tuttavia, sopraffatta dalla clinica pratica, dall'assedio dell'impegno e della prassi quotidiana, resta soprattutto empirica e stenta ad aprirsi a un razionalismo proteso a fare propri i nuovi orizzonti che, coinvolgendo tutte le altre scienze, hanno generato modi diversi di osservare la natura. La coscienza del medico non entra ancora con chiarezza nella logica polivalente dei concetti di non linearità, di complessità, che sottendono la presenza di reti gerarchiche e di elementi interconnessi da legami incrociati. La dimostrazione e l'importanza della sensibilità alle condizioni iniziali dei processi biologici, la regolazione di equilibri multipli, l'autorganizzazione spontanea in differenti configurazioni non fanno ancora parte del suo bagaglio culturale ordinario. I controlli attuati in modo disperso anziché centralizzati e il quasi-determinismo caratterizzante i sistemi viventi sono ancora considerati concetti di scarso interesse pratico. Solo nell'ultimo ventennio del secolo, la biologia molecolare pone il medico davanti a quanto scoperto da E.N. Lorenz nelle scienze naturali, ossia che variazioni strutturali anche molto piccole (per es. le variazioni solo di qualche base purinica nel gene), indotte da impulsi ambientali, non sono mai assorbite e possono dare luogo a risposte che si autoalimentano sino a produrre nuove differenti strutture in grado di diventare stabili e modificare il sistema.
Anche il fatto che H. Reichenbach, nel 1950, possa affermare che nulla nel nostro Universo avviene secondo le leggi di legame diretto causa-effetto, vale a dire con risposte costanti e quantitativamente corrispondenti a intensità scalari di un dato stimolo, comincia a incidere anche nell'elaborazione teorica della ricerca scientifica medica solamente negli ultimi anni del 20° secolo. Il concetto di omeostasi di Cannon, considerato come insieme di attività organismiche dirette a mantenere lo stato costante dell'essere vivente, non viene ancora visto come comportamento a onda, frutto di moti oscillatori. Tuttavia, la fisiologia comincia a capire che, qualora l'ordine fosse realmente la base della regolazione dello stato dei sistemi viventi, questi avrebbero caratteri di rigidità non corrispondenti al reale. Si scoprono gli stati caotici, la cui importanza formale e concettuale in biologia e in medicina consiste nel fatto che questo tipo di equilibri instabili assicura agli organismi viventi flessibilità funzionale. L. von Bertalanffy e altri formulano e discutono la teoria generale dei sistemi e il concetto di equifinalità e la propongono nei comportamenti dei sistemi viventi.
Alla fine del 2° millennio la medicina comincia a prendere atto delle dimostrazioni fornite negli anni Sessanta da H. von Koch, W. Sierpinski, F. Hausdorff, B. Mandelbrot, L. Fry Richardson, relativamente alla configurazione frattale di tutti gli oggetti naturali, ivi compresi organi e organismi: ne deriva che la loro dimensione non è esprimibile con i numeri interi dei corpi euclidei, corrispondenti a 0 per il punto, 1 per la linea retta, 2 per il piano, 3 per le figure solide. Una vera rivoluzione che, negando il concetto di continuità dell'Universo, rende il suo impiego in biologia e in medicina un fatto di mera convenienza di misura. La geometria euclidea si rivela, quindi, un metodo particolare, utile per descrivere e costruire modelli. Nello studio della natura essa viene sostituita dalla topologia di E. Poincaré e dalle geometrie di B. Riemann, di N.I. Lobačevskij e da quella frattale di Mandelbrot e G.M. Julia.
La medicina, però, non ha ancora affrontato la critica dei suoi enti primi (per es. "Che cos'è un organo?") nella stessa ottica con cui, fra la fine del 19° e l'inizio del 20° secolo, J.W. Dedekind, G. Cantor e, soprattutto, K.W. Weierstrass, si erano chiesti cosa fosse il numero, ente primo per eccellenza delle matematiche. Non è che il medico debba sapere di matematica - gli servirebbe poco sul piano della pragmatica empirica -, ma un'analoga posizione critica della medicina razionalistica verso i suoi enti primi e le basi logiche tradizionali di questa disciplina potrebbero aprire nuovi orizzonti al di là dei canoni deterministici i quali, tra l'altro, le hanno fatto gradualmente frammentare la sua attività in specialità sempre più numerose, tese solo a inseguire tecnologie sempre più perfezionate. Nella medicina è ancora solo un discorso sofisticato, non un punto di riferimento della ricerca, la stocasticità del comportamento degli organismi viventi, dipendente dall'economia 'dissipativa' dell'energia prodotta al loro interno per automantenersi lontano dall'equilibrio termodinamico in un ambiente mutevole, imprevedibilmente e naturalmente ostile. L'avere stabilito, nel 20° secolo, che la perfezione dell'Universo teorizzata da Aristotele è stata sostituita dal concetto di equilibrio instabile, dal variabile e dal precario, cioè la scoperta che i fondamenti della natura sono stocastici, imprevedibili e irreversibili, ha sfiorato la scienza medica in ritardo di una generazione rispetto alle altre aree scientifiche. Toccherà alla medicina teoretica, che si affaccia alla ribalta, ordinare questi concetti ed eventualmente trasferirli nella medicina pratica, quindi nella preparazione dello studente e nella formazione del medico del 3° millennio, portandolo fuori dalla crisi che ha investito l'essenza e la cultura medica del 20° secolo. Un traguardo che la medicina moderna può vantare è di essere arrivata a eseguire il trapianto d'organo. Le radici di questa manovra, che in medicina vuol dire trasposizione di un organo da una regione a un'altra, all'interno dello stesso organismo o da un organismo a un altro, hanno origini lontane nel pensiero di F. McFarlane Burnet, il quale formulò l'ipotesi che un animale, entrato in contatto con uno stimolo antigenico (capace di promuovere la reazione immunitaria) durante le fasi precoci dello sviluppo, metta in essere un sistema immunologico senza attitudini a reagire, nella fase adulta della sua vita, a quello stimolo. Il fenomeno fu confermato sperimentalmente da P. Madawar, il quale lo definì come tolleranza immunologica - acquisita dall'organismo di quell'animale - verso un certo stimolo. Madawar, durante la Seconda guerra mondiale, aveva già portato un notevole contributo al bagaglio di nozioni che costituiranno le basi teoriche del trapianto: aveva infatti identificato il fenomeno dell'intolleranza immunologica dell'organismo quando descrisse come il secondo trapianto di pelle umana prelevata dallo stesso donatore venisse rigettato più velocemente del primo, dimostrando sperimentalmente che la natura di questo tipo di comportamento è immunologica, in quanto il secondo trapianto trovava un sistema immunitario attivato dal primo. Il concetto di tolleranza è fondamentale nelle procedure del trapianto, perché mette in evidenza la necessità di adottare metodi atti a inibire i fenomeni che si concretano nel rigetto dei tessuti o degli organi trapiantati. La scoperta dell'intolleranza peraltro ha dato grande impulso all'immunologia.
5.
L'attività clinica viene definita scienza e arte perché il medico usa una metodologia atta a scoprire con mezzi scientifici gli elementi somatici, psicologici e psichici, che ritiene utili alla soluzione del suo problema (diagnosi e piano terapeutico), e conoscenze, estro e intuito allo scopo di identificarne tanto le relazioni quanto le interconnessioni. L'essenza dell'attività del medico si completa in tre punti: 1) dimostrare l'utilità degli elementi che raccoglie per raggiungere un obiettivo; 2) riunire, per concettualizzarli, questi elementi al fine di costruire la diagnosi in un sistema unitario in virtù di leggi associative, patrimonio della sua formazione; 3) stendere il piano terapeutico della malattia identificata. Questa struttura logica ha i suoi fondamenti nell'empirismo classico fiorito in Europa, fra il 17° e il 18° secolo, con J. Locke e D. Hume e nell'empirismo logico, o neoempirismo, che ha visto la luce nella prima metà del 20° secolo.
La professione del medico, però, non si ferma ai punti tecnici sopra menzionati, perché travalica la freddezza delle conoscenze scientifiche e il tecnicismo delle crude esperienze cliniche. Essa, oggi, si trova davanti a problemi che ripropongono al medico la sua finitezza e reprimono ogni presunzione, alterigia, sussiego.
La società attuale, nella quale tendenzialmente si cerca di eliminare ogni rapporto personale, ha condizionato in special modo la professione medica. L'organizzazione statale e quella privata, alle prese con i problemi di costi sanitari, hanno trasformato il medico in un tecnico e lo hanno equiparato a un tecnologo o, peggio ancora, a un tecnocrate. L'avanzamento delle tecnologie diagnostiche e terapeutiche, invece di avvicinare il medico al suo ammalato, hanno creato fra di essi un solco sempre più profondo. La necessità di contenere gli alti costi del progresso tecnologico riduce i tempi degli atti umani fondamentali con i quali non solo si raccolgono le notizie cliniche, ma, soprattutto, si inizia e poi si mantiene il rapporto personale con il paziente. La diffidenza del malato verso la medicina moderna e il sorgere di altre medicine (v. oltre) iniziano da questa depersonalizzazione che ha annullato ogni rapporto emotivo, ogni curiosità interpretativa derivante dal visitare il paziente con attenzione e sistematicità per trarne conclusioni personalizzate.
Il tipo di attenzione che la medicina tradizionale poneva nei riguardi del malato incurabile destinato inesorabilmente a morire - di gran lunga il più impegnativo sul piano psicologico e umano -, consistente nella valutazione dell'opportunità di dire tutto, è stato sostituito dall'obbligo di essere totalmente espliciti, senza tenere conto dei modi e dei tempi opportuni in funzione sia del grado di capacità di accettazione sia della tipologia del malato. Il tecnocrate viene affiancato dallo psicologo specializzato, anch'egli ridotto così a un tecnico che offre sostegno nell'accettare la morte. L'idea di aiutare a vivere il segmento terminale con la motivazione che la morte sia parte della vita ha prevalso sull'idea che la morte non faccia parte di essa, principio che ha, invece, giustificato ab initio il nascere della medicina.
La crescente industrializzazione, l'esplosione delle conoscenze scientifiche, il rapido e multiforme progresso che hanno caratterizzato il 20° secolo hanno fatto privilegiare in qualsiasi attività umana tipi di formazione basati su competenze specifiche, le quali tendono a coltivare soprattutto la destrezza nell'impiego di strumenti materiali e di procedure, a scapito di una cultura capace di determinare una formazione armonica ed equilibrata. A questo destino non ha potuto sottrarsi neppure la classe dei medici: la loro formazione, per effetto di tali principi, ha portato a sbilanciamenti culturali verso un'unica direzione, all'accentramento dell'attenzione solo attorno a pochi interessi sempre più tecnologici, all'utilizzo di procedure che sempre più si sostituiscono alla capacità di pensare e di prendere iniziative al di fuori da quanto esse impongono.
Per tali motivi, nella seconda parte del 20° secolo, l'arte medica attraversa un periodo di crisi che investe la sua identità scientifica, la sua progettualità, l'essenza stessa della sua produzione intellettuale. Le aree scientifiche che da sempre hanno rappresentato le fonti tradizionali dell'avanzamento della conoscenza medica - l'anatomia, l'anatomia patologica, la biochimica, la patologia medica, le istituzioni su cui fonda le basi la clinica, la sua teoretica scientifica - si dimostrano sempre meno vie maestre, perché il loro percorso si è progressivamente ripartito in un intricato labirinto di vicoli sempre più stretti e meno interconnessi. La 'polverizzazione' di queste discipline ha generato un'enorme produzione scientifica, ma le verità che essa contiene restano all'inizio del processo della conoscenza sia a causa della loro scarsa significanza sia a causa della loro ingestibilità.
L'incontrollabile progresso tecnologico, tecnico e farmacologico si è anche ritorto sulla salute, generando nuove malattie iatrogene, ovvero malattie generate dal medico. Interventi chirurgici e diagnostici non necessari e ad alto rischio, applicati con etica dubbia, terapie che modificano in negativo la qualità di vita del paziente, attribuzione di inesistenti stati morbosi hanno creato quella che è stata definita 'malamedicina' e, con essa, la necessità di una revisione critica dei limiti della sua gestione.
L'humanitas, da sempre indispensabile per il medico, è stata spiazzata dal tecnicismo. L'incalzante rapidità del progresso concede sempre meno tempo per la serena riflessione in un'arte che, invece, necessita di sentimenti accanto alle leggi e alle regole riguardanti l'opportunità e i limiti di uso delle nuove metodologie diagnostiche e terapeutiche. Queste, infatti, se da una parte consentono soluzioni a problemi clinici un tempo irrisolvibili, dall'altra hanno aumentato il grado di complessità dell'arte. Il progresso ha quindi posto il medico moderno davanti al fatto che ogni problema clinico, anche il più semplice, ha una componente scientifica, una componente tecnico-operativa e una componente umana, etica, che non può essere ignorata, a nessun livello. Il medico oggi si trova ogni giorno davanti al dilemma se porre in seconda linea la morale dopo l'etica, intendendo con la prima l'aspetto soggettivo della condotta dell'individuo, con la seconda il modo di comportarsi in conformità dell'insieme dei valori che risultano dalla progettualità, dai sistemi concettuali, dalle istituzioni con cui un'epoca rappresenta sé stessa. In altre parole, la morale riguarda la coscienza del singolo e l'etica deve fare da elemento di connessione tra la coscienza e le regole dettate dalla struttura storico-sociale in cui l'individuo è immerso. Ma questa posizione sempre più spesso, in medicina, diventa un'antinomia. Attualmente si assiste al ricorso storico che vede le posizioni morali tornare elementi canonici nel decidere se il nuovo sia accettabile per sé stesso oppure soltanto perché etico.
Questo tipo di problemi è diventato tanto più importante quanto più il medico si è trovato davanti a nuove situazioni sempre più complesse, quali quelle rappresentate, per es., dalla decidibilità del trapianto di un organo, dalla liceità di interrompere una gravidanza con feto malformato, dalla definizione legale della libertà di aborto o di procreazione medicalmente assistita, dall'opportunità di prolungare a tutti i costi la terapia a pazienti inguaribili (v. bioetica).
L'elenco potrebbe allungarsi fino a comprendere le nuove realtà derivate dall'aumento dell'aspettativa di vita media, dalla richiesta di benessere più che di salute, dall'esigenza più generale che la medicina non sia solo biologia applicata alla clinica, non implicando più unicamente interventi diretti alla guarigione o alla cura ma anche la valutazione della qualità di vita che si offre al paziente. In particolare, la geriatria e la gerontologia, scienze di fine secolo, hanno messo in luce questo concetto di esistenza intesa come modo di essere e proiettano queste istanze anche nelle fasi di vita detta di 'senilità'. La qualità dell'esistenza è diventata oggetto di attenzione per l'uomo moderno. Semplificando, le condizioni per le quali oggi la medicina clinica considera opportuno il vaglio etico si possono così riassumere: 1) quando la decisione da prendere solleva dubbi di ordine religioso; 2) quando si deve esprimere un giudizio sulla decidibilità di fatti che vanno al di là dei paradigmi, delle regole, dei metodi accettati dalla medicina ufficiale e, più in generale, al di là dell'ambito tecnico, la cui estensione richiede più di una semplice valutazione morale da stabilirsi tra l'uomo medico e l'uomo paziente; 3) quando ci si trova davanti alla necessità di prendere provvedimenti o decisioni che altri medici, in altre sedi tecniche, potrebbero prendere in termini equivalenti; 4) quando ci si trova davanti alla necessità di dare un parere sulla validità di un programma clinico diagnostico o terapeutico di dubbia o scarsa utilità; 5) se e quando si deve decidere di ridurre l'attività terapeutica o diagnostica nei pazienti anziani o cronici, la cui qualità di vita è da considerarsi scarsa; e ancora quando si pone il problema di: 6) cosa dire a un paziente con malattia maligna; 7) cosa fare nei casi in cui l'intervento medico aggressivo o il provvedimento chirurgico non può con certezza salvare la vita; 8) come comportarsi quando il paziente rifiuta medicamenti, trasfusioni o altri rimedi per motivi non religiosi; 9) cosa fare quando il paziente vuole insistere nel tenere una condotta di vita quando non è considerato sufficientemente sano per farlo; 10) cosa dire a un paziente quando, essendo stato curato inadeguatamente da un collega, vuole un parere sulla cura. Il dilemma generale posto da questi punti riguarda l'opportunità di scelta tra l'ipotesi suggerita dalla coscienza e quella imposta dalle leggi vigenti, e nasce dalla mancanza di principi oggettivi universali che regolano il rapporto tra legge e libertà. Il problema diventa grave quando il razionale soggettivo porta a considerare più lecita la libertà di seguire la propria idea dell'ipotesi suggerita dalla legge. Se invece la possibilità offerta dalla proposta soggettiva è equivalente alla proposta della legge, conviene seguire quest'ultima anche se lex dubia non obligat. In alcuni di questi casi, la decisione dipende dalla stima di quanto sia desiderabile o indesiderabile la qualità di vita del paziente senza ignorare i suoi diritti come persona autonoma e, nel contempo, senza dimenticare i diritti della società. Il problema diventa delicato, per es., nel caso dei pazienti in coma o in condizioni di incapacità di intendere e di volere o, comunque, di prendere una decisione autonoma: in questi casi la decisione spetta al medico o a persona delegata.
di Riccardo de Sanctis
l. Medicina ufficiale e altre medicine
Per definire le altre medicine appare fondamentale stabilire preliminarmente che cosa si intende per medicina ufficiale, od ortodossa. Solamente in questo modo è infatti possibile chiarire il significato di termini quali medicina alternativa, parallela, tradizionale, popolare, antimedicina. A un livello di astrazione molto elevato si può affermare che alcune caratteristiche delle pratiche terapeutiche e dei sistemi che riguardano la salute e la malattia sono condivise da ogni sistema sociale di cura, in ogni epoca storica. Tali caratteristiche includono alcune categorie in cui vengono diagnosticate le malattie, strutture narrative che traducono un malessere in una sindrome comprensibile in un certo tipo di cultura, metafore, idiomi e altre forme simboliche che portano a un'interpretazione eziologica della patologia e ancora a strategie retoriche e a un numero enorme di terapie (Kleinman 1993). Esistono anche grandi differenze rispetto alle tradizioni di cura, specialmente fra società diverse.
Riferendosi soltanto alla medicina occidentale, è evidente che, anche all'interno di essa, convivono molti aspetti diversi e tradizioni non facilmente omogeneizzabili. Se viene considerata certamente ortodossa la biomedicina, non ortodosse, o accettate solo in parte, sono, per es., l'omeopatia, l'osteopatia, la chiropratica ecc. La tradizione biologica e prima ancora quella anatomica della medicina occidentale rappresentano tuttavia qualcosa di profondamente diverso dalla maggioranza degli altri grandi sistemi storici di cura, quali per es. la medicina cinese o la medicina indiana. È in questo senso legittimo parlare di una tradizione medica occidentale, che incomincia a svilupparsi in larga misura nel Seicento con l'individuazione del corpo come sede fisica delle malattie e l'evoluzione successiva dell'anatomopatologia, fino agli studi biologici che portano alla scoperta del DNA e alla genetica molecolare.
La tradizione medica occidentale viene oggi comunemente identificata con la biomedicina, un modello in realtà piuttosto recente impostosi, come precedentemente accennato (v. sopra: La medicina occidentale), soltanto nell'ultimo centinaio d'anni. Esso si basa tuttavia su alcuni presupposti, su assunti presenti e ben radicati nella cultura occidentale fin dalle sue origini. Il principale è l'esistenza di una verità unica, materiale, che può essere vista e conosciuta: il mondo naturale, in altre parole, è spiegabile materialisticamente. Le malattie sono parte di questo mondo di cose, hanno una loro identità e possono essere comprese tramite una biologia chimico-fisica: esse costituiscono una realtà che si può conoscere, e il conoscere passa attraverso il vedere. È, questa, un'altra influenza forte che deriva dai greci, basilare nella cultura occidentale. La natura può essere vista e il processo del vedere permette la conoscenza: il medico vede i segni della malattia e la riconosce, la biologia vede il reale attraverso il microscopio. La prospettiva diventa oggettiva e la malattia ben definibile e identificabile in quanto parte del mondo materiale. L'oggettivizzazione dello sguardo medico, il distacco da una natura non separata dal corpo dell'uomo, ed essa stessa vivente, non avvengono improvvisamente né automaticamente. È un lungo processo presente fin dalle origini che si accelera intorno al 16°-17° secolo. A partire dalla fine del Cinquecento, infatti, la concezione stessa della natura, dell'uomo, dell'Universo viene messa in discussione e cambia radicalmente: l'uomo e il suo corpo diventano entità separate dal resto della natura, si rompe quella corrispondenza fra corpo e astri durata millenni. È messa in crisi la concezione del microcosmo-macrocosmo. La natura perde la proprietà spirituale, che ora diventa facoltà solo umana, staccata dalla realtà materiale. Il mondo esterno è conoscibile tramite osservazioni e misure. Nell'epoca dei viaggi e delle grandi scoperte geografiche, ha luogo un processo di cambiamento in cui si passa da una lettura soggettiva del mondo, per cui un minerale, per es., veniva odorato, assaggiato, percepito tramite la sensibilità del singolo individuo, a una lettura scientifica, per cui quello stesso minerale viene misurato, pesato, classificato. Le misure e i numeri, uguali per tutti, creano un nuovo ordine: la conoscenza diventa oggettiva e trasmissibile.
Così come il mondo, anche il corpo dell'uomo, di cui inizia l'esplorazione sistematica con la nascita dell'anatomia moderna, può essere indagato e conosciuto. L'anatomia rappresenta un punto di svolta. Fino alla nascita degli studi anatomici, le malattie non erano ben definite, non avevano una loro identità precisa, una loro materialità, a esse mancava un'esatta collocazione, una sede organica determinata. La malattia veniva pensata come qualcosa che colpiva l'uomo per diversi motivi: una punizione divina, una maledizione, un incrocio sfavorevole d'astri, un incantesimo, indefiniti miasmi malefici. Non la si concepiva come conseguenza di una causa interna specifica; ci si riferiva sempre a fenomeni inseriti in un complesso naturale e spirituale molto vasto. Mai comunque si era immaginata la malattia come un'entità a sé stante, con una vita propria, una propria indipendenza ontologica, una propria evoluzione. Si riteneva che le malattie derivassero da uno scompaginarsi dell'equilibrio naturale dell'insieme degli umori presenti nel corpo.
Questa concezione incomincia a essere messa in discussione seriamente soltanto nel Seicento, ma persisterà fino al 19° secolo. Non è soltanto l'affermarsi di una teoria rispetto ad altre, ma anche un tentativo, che si mostrerà vincente, della medicina istruita (quei medici dotati di una formazione colta, che vengono da scuole mediche e università) di dare al proprio sapere una base razionale. Questa razionalità è la conoscenza scientifica, oggettiva del corpo: l'anatomia. Incomincia così un importante processo di distacco di un settore della medicina da altri. Sino alla fine dell'Ottocento infatti la medicina è un vasto mercato dove convivono guaritori d'ogni genere, santoni, manipolatori, venditori d'elisir, stregoni, un ampio repertorio di cure popolari e superstizioni, insieme a medici che hanno un'istruzione e che intendono richiamarsi a teorie e terapie scientifiche: la razionalità della medicina colta diventa anche strumento di affermazione professionale. Buona parte della storia della medicina occidentale è consistita proprio nel tentativo di allontanarsi da questo mercato, in cui prevaleva un modello che prendeva in considerazione solamente le storie individuali dei malati. Il modello sostitutivo invece prende le mosse dalla concezione di un mondo dove le malattie possono essere classificate e spiegate materialmente tramite la fisica o la chimica. La medicina occidentale, almeno il suo filone principale, si è dunque progressivamente distaccata da un modello esplicativo delle malattie che contemplava dimensioni religiose o spirituali e che essa aveva condiviso per almeno duemila anni con molte altre culture.
La medicina scientifica considera le malattie come entità che hanno una loro esistenza naturale indipendente; altre componenti, quali quella psicologica, morale o sociale, diventano trascurabili. Come accennato nel capitolo precedente, la malattia come esperienza personale, come racconto diretto del malato, interessa sempre meno: si afferma quella che è stata definita la concezione ontologica della malattia, in contrapposizione con l'antica concezione fisiologica dove l'elemento più importante non è la malattia ma l'esperienza e le circostanze del singolo malato. In questo modo la malattia si allontana dalla sofferenza a cui nel passato è sempre stata associata. In tale contrapposizione si riscontra la differenza maggiore fra quella che viene oggi definita come medicina ufficiale (la biomedicina) e le altre medicine. Di fronte a una biomedicina che spesso trascura l'anamnesi, l'individuo e la sua sofferenza, e ricorre ad analisi e a interventi tecnologici, di frequente straordinariamente avanzati e risolutivi ma non sempre alla portata di tutti, non meraviglia l'interesse e la fortuna che le medicine non ortodosse riscuotono presso il pubblico occidentale. Si dimenticano spesso i grandi successi della medicina scientifica per cercare, legittimamente, un rapporto con il medico e con la medicina meno disumanizzato e disumanizzante. C'è il rischio tuttavia di confondersi e di rinunciare alle straordinarie risorse della biomedicina, divenendo così facile preda emotiva di farmaci e terapie non sperimentati.
Esaminando brevemente la storia delle altre medicine è necessario fare una distinzione. Oltre alla realtà sempre diffusa della medicina popolare, si possono considerare da una parte quelle teorie e pratiche terapeutiche che, quantunque minoritarie, si riconducono comunque alla tradizione occidentale, dall'altra i grandi sistemi medici orientali. Alle due grandi tradizioni orientali, ancora presenti e attive, quella cinese e quella indiana, si possono ricollegare, per semplificare il discorso, altre medicine e terapie, come quella tibetana e quella coreana, lo shiatsu, il reiki, l'aromaterapia ecc.
2.
La medicina popolare è ancora una realtà diffusissima in Occidente, ove convive con le cure ufficiali. Il campo è molto vasto e la sua indagine attiene probabilmente all'etnologia. Al di là di nomi differenti e di una grande diversità apparente, le stesse tecniche e pratiche si ritrovano in regioni, paesi e culture molto lontani tra loro. Il rituale praticato da guaritori classificabili in categorie molto diverse è sorprendentemente uguale (Bouteiller 1966).
La medicina popolare, o tradizionale, si basa su una concezione olistica del corpo, ogni singola parte del quale è strettamente connessa con le altre e collegata alla natura e al cosmo. La salute è l'equilibrio fra una serie di relazioni e la cura consiste nel restaurare questo equilibrio. Il corpo è al centro dell'Universo ed è soggetto agli influssi delle stagioni e del clima, alla natura in generale, ai segni zodiacali, alla Luna. Le analogie sono importanti. Le 'segnature' presenti in natura, come le forme, i colori, le temperature ecc., hanno una diretta corrispondenza con il corpo e il suo benessere. Il colore rosso, per fare un esempio, è sempre strettamente connesso con il sangue. Il detto popolare 'il vino fa buon sangue' si ritrova in versioni più o meno analoghe in varie lingue europee. Si tratta di una medicina dalle radici antichissime che risalgono alla teoria degli umori, esistente fin dai primordi, canonizzata da Galeno nel 2° secolo d.C. e che ha dominato la storia della disciplina per circa duemila anni: è la continuità con la natura, l'uomo-microcosmo. Paracelso, nella prima metà del Cinquecento, contestò violentemente la tradizione che si rifaceva a Galeno, basata sostanzialmente sulla teoria degli umori, fino allora paradigma indiscusso e indiscutibile. La concezione di Paracelso, una vera e propria nuova filosofia naturale, si fondava su alcuni principi chimici e su un mondo pieno di forze vitali e spirituali. Molti dei suoi rimedi e la 'teoria delle segnature' (già citata da Plinio e Dioscoride e poi ulteriormente sviluppata da G. Della Porta), secondo la quale esistono analogie di forma, colore, e consistenza fra la malattia, l'organo ammalato e la pianta che può guarirle, derivavano direttamente dalla medicina popolare. Fra Cinque e Seicento sorsero altre correnti di pensiero medico, tra loro contrapposte, come le scuole degli iatrochimici e quella degli iatrofisici: chi, come i paracelsiani, voleva ridurre le malattie a una lettura chimica, chi, influenzato dalla concezione cartesiana dell'uomo-macchina, a una lettura meccanica (v. il capitolo Tra immaginario e descrizione anatomica). Ma difficilmente, o soltanto marginalmente, le teorie ebbero conseguenze sulla pratica terapeutica. G.B. Morgagni, uno dei fondatori dell'anatomia patologica moderna, prescriveva ancora alla fine del Settecento ricette a base di vischio di quercia, d'olio mescolato a polvere di lombrichi e soprattutto "bocconcino fatto di succino e di cranio umano" (Camporesi 1994, p. 18). Ci vorranno più di cento anni, per es., prima che i medici traggano le logiche conseguenze pratiche dalla scoperta della circolazione del sangue a opera di W. Harvey. Lo stesso Harvey, uno dei grandi protagonisti della rivoluzione scientifica, non fa che trasferire al sangue tutte le caratteristiche degli umori come erano state fino ad allora trasmesse dalla tradizione galenica.
3.
Le varie scuole di pensiero della medicina occidentale erano considerate tutte più o meno scientifiche e ortodosse fino alla fine dell'Ottocento, quando la cosiddetta tradizione biomedica cominciò a consolidarsi. Fra le tradizioni 'irregolari', quella maggiormente strutturata, e che probabilmente ha anche avuto maggior impatto sociale, è l'omeopatia. Alla fine del Settecento vi era una grande confusione nel mondo medico: esistevano svariati sistemi teorici di scarsa utilità pratica per le cure, mentre si diffondevano una fede illimitata nei medicinali e un loro uso spesso spropositato. È questa l'epoca della cosiddetta polifarmacia: farmaci dei più diversi tipi venivano mescolati assieme e proposti per curare ogni genere di malattia. S.F.Ch. Hahnemann, uno stimato medico tedesco con una buona formazione chimica, insoddisfatto dell'impiego indiscriminato dei medicinali, concentrò i suoi studi sugli effetti dei farmaci. Sperimentò su sé stesso la maggior parte delle sostanze medicamentose allora in uso (soprattutto la china, la belladonna, l'ipecacuana, i sali di mercurio, l'arsenico) allo scopo di individuare i sintomi che provocano su di un organismo sano. Nel 1796 scriveva che i medici devono sempre sperimentare su sé stessi oppure su persone sane le medicine prima di prescriverle e che ogni sintomo o effetto che ne deriva deve poi essere accuratamente registrato. Seguendo questo principio, Hahnemann compì numerose ricerche arrivando alla conclusione che per curare un male era necessario impiegare medicine in grado di indurre artificialmente una malattia simile; somministrandone dosi infinitesimali, si potevano così provocare effetti simili a quelli da combattere. I farmaci dovevano essere somministrati in piccolissime dosi diluite, e prima di venire ingeriti, affinché acquistassero una maggiore energia ed efficacia andavano agitati un ben preciso numero di volte. Gli esperimenti del 1796 di Jenner sulla vaccinazione apparvero ad Hahnemann come una verifica dell'affermazione di Paracelso, similia similibus curantur, che aveva assunto come principio centrale del proprio sistema di cura. Per Hahnemann la causa delle malattie è immateriale, ha origini spirituali e dinamiche e il credere in cause materiali porta solo a terapie sbagliate. Se vi è della materia malata nel corpo, questa deriva da uno squilibrio della 'forza vitale', un'entità immateriale che determina nell'organismo le funzioni vitali. Principio comune a molte altre culture mediche, come quella cinese, tale entità, alla luce delle terminologie moderne, è stata tradotta come sistema neuropsicoendocrino-immunitario (Negro 1996). Hahnemann afferma che la causa ultima dello squilibrio della forza vitale non può mai essere conosciuta: gli unici segni a disposizione del medico sono i sintomi indicativi dello stato mentale e fisico del paziente. In sostanza egli accentra la sua attenzione sul singolo malato, rifiutando la concezione ontologica della malattia, rifacendosi anche al principio, già presente in Ippocrate, quello della vis medicatrix naturae. La natura ha un grande potere terapeutico spontaneo e il ruolo del medico, per quanto molto importante, è solo di intermediario fra essa e il paziente. L'approccio della medicina omeopatica, contrapposto a quello della medicina allopatica (termine inventato da Hahnemann per designare la medicina ufficiale), è l'unico 'vero' metodo. Questa posizione, alquanto integralista, gli suscitò molte critiche da parte dei contemporanei; successivamente le diverse scuole dei suoi seguaci diventeranno più flessibili. Senza critiche particolari venne accettato il concetto, peraltro proposto anche da altri medici, che il simile cura il simile.
Le critiche maggiori all'omeopatia vennero dalla generazione medica successiva a quella di Hahnemann, sia su basi teoriche (l'uso infinitesimale dei farmaci) sia su basi pratiche (il rifiuto di adoperare contraria). Molti illustri medici e cattedratici di vari paesi definirono l'omeopatia una moda e predissero che sarebbe sparita presto. La storia li ha smentiti e oggi le cure omeopatiche - nonostante non ne sia mai stata dimostrata alcuna base scientifica - si sono diffuse in tutto il mondo occidentale. L'omeopatia è riconosciuta al pari della biomedicina da vari governi e i prodotti omeopatici rappresentano una percentuale importante del fatturato di molte case farmaceutiche. Un contemporaneo di Hahnemann, il medico americano S. Thomson, elaborò altri principi medici naturali destinati a fare scuola: nel suo New guide to health (1822) fornisce indicazioni per curarsi da soli con le erbe. Anch'egli, per molti versi un iniziatore, si rifà a una concezione umorale delle malattie. Nell'Ottocento, l'assunzione di medicinali anche se di origine botanica, o in piccolissime dosi, venne contestata da molti medici, che sostenevano trattarsi di metodi artificiali, antigienici e pericolosi. Essi ritenevano che con una vita più sana, una dieta adeguata e comprendendo le leggi fisiologiche della natura si può vivere meglio, prevenire e anche curare le malattie. Queste tendenze sono una costante che persiste ai margini della medicina ufficiale anche ai nostri giorni. Di tanto in tanto, alcune di esse sono state estremizzate e si è tentato di interpretare le malattie esclusivamente come conseguenza di una dieta alimentare e di uno stile di vita sbagliati o di cattive condizioni ambientali. Uno dei metodi di cura più popolari dell'Ottocento fu l'acqua: i medici consigliavano di berne grandi quantità, o prescrivevano bagni a temperature diverse, a seconda del disturbo da curare. Non si tratta di una novità, in quanto dell'uso terapeutico dell'acqua aveva già parlato Ippocrate nel 5°-4° secolo a.C., ma sempre soltanto come un coadiuvante di altre cure. Una corrente della medicina non ortodossa che ha avuto un ruolo abbastanza importante, almeno alle sue origini, è quella che può essere definita come 'manipolativa'. Osteopatia e chiropratica oggi sono divenute discipline quasi ufficiali in molti paesi, anche se le loro pratiche sono assai cambiate negli anni, avendo incorporato molti risultati della biomedicina.
È un medico austriaco, F.A. Mesmer, con la sua teoria dei fluidi magnetici, che, alla fine del Settecento, pone le basi intellettuali delle future discipline. Un eccesso o una carenza di fluido (sulla cui definizione esistono molte ambiguità) nel corpo, provoca - sostiene Mesmer - disturbi soprattutto di ordine nervoso. Per curarli, egli, che per alcuni anni ebbe una certa notorietà nei circoli culturali di Vienna e di Parigi, usava magneti e molto spesso l'ipnosi. Il mesmerismo e le cure magnetiche non ebbero molta diffusione, ma crearono tuttavia il fondamento teoretico e pratico dei sistemi di cura basati sulla manipolazione.
Fu proprio partendo dal principio dei fluidi magnetici, e immaginando il corpo come una macchina (un'immagine che da Cartesio in poi è una costante nella storia della medicina occidentale), che il medico americano A.T. Still mise a punto, nella seconda metà dell'Ottocento, il metodo di cura più tardi definito come osteopatia. Still sosteneva che l'uso di medicinali non ha nulla di scientifico: la chiave della salute è il libero scorrimento del sangue nel corpo. A queste sue convinzioni teoriche aggiunse l'antica pratica dei bone-settlers, i raddrizzatori di ossa. Da secoli, in America come in Europa, esisteva una medicina manipolativa a cui ricorrevano soprattutto le classi meno abbienti per problemi ortopedici. Still sosteneva che le flessioni ed estensioni degli arti potevano essere impiegate con buoni risultati anche per problemi non ortopedici. Lo squilibrio dei fluidi, causa delle malattie, aveva sempre origine in una qualche ostruzione interna al corpo e questa era generalmente causata da una dislocazione delle ossa, in particolare della colonna vertebrale. Con le manipolazioni giuste era possibile rimettere le ossa nella posizione corretta e ricostituire il libero flusso dei fluidi magnetici.
Una terapia alquanto simile è la chiropratica. Per il suo fondatore, D.D. Palmer, anch'egli americano e attivo nel medesimo periodo di Still, gran parte delle malattie sono provocate da pressioni sui nervi che passano attraverso la spina dorsale. Un'adeguata manipolazione spinale permette - secondo quanto sosteneva Palmer - di avere ottimi risultati. Ambedue le discipline hanno avuto una grande diffusione negli Stati Uniti, con alcune differenze di politica professionale. Fin dagli inizi le scuole osteopatiche hanno avuto la tendenza a formare dei medici a tutti gli effetti, inserendo nel piano di studi molte discipline scientifiche, come la chirurgia, l'ostetricia, la farmacologia, con la sola, significativa, aggiunta dello studio dell'idroterapia e della dietologia. Attualmente l'osteopatia è legalmente riconosciuta come disciplina medica negli Stati Uniti, dove esiste anche la relativa laurea, mentre in Gran Bretagna è possibile seguire un corso di specializzazione postlaurea. I chiropratici dal canto loro sono rimasti maggiormente legati alla loro specialità; è da rilevare tuttavia che negli ultimi decenni del 20° secolo scuole e corsi di chiropratica sono divenuti più lunghi e impegnativi e sono apparsi numerosi studi scientifici e clinici sulle terapie manipolative spinali.
A conclusione di questo veloce riepilogo sulle diverse terapie della tradizione occidentale, va detto che molti sistemi di cura non ortodossi hanno stimolato l'interesse per metodi precedentemente ignorati e successivamente incorporati nella medicina ufficiale. Si pensi, per es., ad alcuni farmaci omeopatici entrati a far parte della farmacopea ufficiale, a taluni metodi derivati dagli studi di Mesmer divenuti ufficiali, come l'ipnosi, o infine all'attenzione sempre crescente alla dieta e all'uso delle manipolazioni spinali da parte di medici ortodossi. Di conseguenza, questi sistemi, anche quando non apprezzati dai medici ufficiali, hanno lasciato un'eredità durevole nella storia della medicina (Gevitz 1993).
4.
La medicina cinese appare agli occidentali come un unico sistema che, basandosi su una concezione olistica, si trasmette da millenni immutato nei suoi metodi e nelle sue terapie naturali: una medicina più soffice e gentile della nostra, che tratta il corpo e la mente come un tutt'uno (Bray 1993). Ma, se è indubbio che la Cina possieda un sistema medico fondato su testi risalenti a più di duemila anni fa, è anche vero che questo corpus mostra una grande varietà di sistemi interpretativi e di terapie che, se talvolta si sovrappongono, altre volte sono apertamente antagonisti (Huard-Wong 1964). Esistono però un contesto culturale, un modo di intendere la stessa conoscenza e una concezione del corpo che, nel loro insieme, permettono di parlare della medicina cinese come di una medicina distinta da quella occidentale. Esaminandone alcuni degli assunti principali, si deve tenere presente che nei secoli la medicina cinese ha subito cambiamenti notevoli sia nella pratica sia nelle idee. Tuttavia è importante notare che i suoi praticanti erano alieni dalla moderna nozione occidentale di 'progresso' storico della conoscenza e che anche oggi il pensiero medico cinese non si è tramutato in ciò che in Occidente si definisce scienza positiva.
I cinesi, fin dall'antichità, hanno classificato le proprietà e le caratteristiche di migliaia di medicinali di origine animale, vegetale o minerale, dividendoli originariamente in tre grandi classi, che andavano dalle medicine per prolungare la vita a quelle per migliorare la salute, fino alla classe più bassa cioè le medicine che intervenivano direttamente su una malattia. Questa classificazione venne successivamente abbandonata per sistemi basati più direttamente sulle qualità curative dei medicinali. Una delle compilazioni più importanti, il Bencao gangmu, pubblicata alla fine del Cinquecento, contiene informazioni su 1892 medicinali. Gran parte di questa catalogazione si rifà a un sistema classico di conoscenze con a fondamento i concetti di qi, yin e yang, e wu xing. Molto sommariamente il qi è un composto di aria, vapore, pneuma ed energia vitale che riempie il cosmo; la vita altro non è che un accumulo di qi, la morte al contrario un suo disperdersi. I termini yin e yang, molto conosciuti, hanno una gamma di significati diversi a seconda del sistema al quale vengono rapportati e non possono essere impiegati in senso assoluto. Non esistono cioè lo yin e lo yang, ma solamente dello (o degli) yin e dello (o degli) yang. È un simbolismo teso a mostrare che niente può essere assoluto e che i due grandi principi si generano l'un l'altro, si attraggono e si equilibrano (gli opposti: maschio/femmina, luce/buio, caldo/freddo). Lo wu xing è il concetto dei cinque elementi, o meglio le cinque fasi (legno, fuoco, terra, metallo e acqua) caratterizzate da una serie di azioni e di interazioni, ogni fase individuata da un particolare colore.
La concezione medica cinese vede il corpo come un microcosmo che rispecchia in sé il mondo naturale e quello sociale: sistema che non può essere separato dal funzionamento del contesto nel quale è immerso, il corpo fa parte dei fenomeni naturali e viene influenzato dall'ambiente in cui si trova. La malattia è provocata da una disfunzione interna, ma anche da fattori esterni come il freddo, l'umidità, il contagio. Una circolazione continua del qi nel corpo produce armonia ed equilibrio e riduce il potere degli agenti esterni patogeni: la persona gode di buona salute. La malattia è causata invece da uno squilibrio. È completamente estraneo alla medicina cinese il concetto ontologico di malattia come è assunto dalla biomedicina, ossia di un'alterazione che può essere curata individuando e combattendo l'agente patogeno che l'ha provocata. Il medico cinese per elaborare una diagnosi tende a ricostruire la storia specifica, individuale del paziente, interrogando lui e la sua famiglia. È interessato non solo alle cause immediate del disordine (stanchezza, esposizione al freddo, melanconia, eccessi alimentari ecc.), ma anche all'individuazione di qualsiasi tipo di modello ciclico a breve o a lungo termine nei sintomi (un ripetersi dell'insonnia, cicli di febbre o di dolore, perdita di appetito, difficoltà nei parti, problemi ripetuti di fecondità ecc.).
Gli elementi della diagnosi sono stati oggetto di una continua elaborazione nel corso del tempo. Una sistematizzazione basata sull'esame della lingua, per es., è apparsa alla fine dell'Ottocento. Negli ultimi decenni del 20° secolo sono state introdotte nell'indagine diagnostica la misura della temperatura, l'analisi del sangue, dei livelli di zucchero ecc. Tuttavia, i fondamentali 'quattro metodi di esame' rimangono: l'interrogazione, l'ispezione visiva, l'esame tramite l'udito e l'olfatto e, infine, la palpazione (centrata sulla misurazione del polso). Anche se un medico contemporaneo può includere nella sintomatologia alcuni elementi mutuati dalla biomedicina, la diagnosi viene ancora concepita ed espressa in termini strettamente classici (Bray 1993). Fino ai primi anni del Novecento la medicina cinese si era in larga parte tenuta lontana dalla biomedicina occidentale, ma intorno agli anni Venti si è incominciata a diffondere la nozione di 'medicina sincretica' che propone una sintesi del meglio della medicina cinese e di quella occidentale. Le difficoltà ovviamente sono molte, considerando le basi sia teoriche sia empiriche molto diverse dei due sistemi. La medicina cinese è tuttavia molto più aperta rispetto a metodi e terapie della biomedicina, di quanto non lo sia quest'ultima rispetto alle medicine tradizionali in genere. Inoltre in Cina, come in altri paesi dell'Asia orientale, sono in corso sforzi non indifferenti per fornire una base scientifica alle medicine tradizionali. Nei paesi asiatici l'80% circa della popolazione viene ancora oggi curata con medicine tradizionali, mentre la biomedicina è praticata quasi soltanto nei grandi centri urbani.
5.
La medicina tradizionale più conosciuta, con un'influenza e una diffusione anche maggiori rispetto alla cinese, è quella ayurvedica indiana. Accanto a questa va ricordata un'altra scuola medica indiana, quella Siddha, i cui principi e dottrine presentano strette somiglianze con l'Ayurveda. Particolarmente diffusa nel Medioevo e attualmente nelle regioni meridionali dell'India, nello Sri Lanka, in Malesia, essa deve le sue origini alla cultura dravidica del periodo prevedico. Il sistema Siddha, associato al culto di Shiva, è di natura essenzialmente terapeutica; la sua farmacopea si serve di mercurio, zolfo, ferro, oro, rame, bitume naturale, arsenico e di altri minerali. Ayurveda deriva dal sanscrito vit, "vedere, conoscere", e ayur, "vita", e può quindi essere tradotto come "conoscenza della vita". È un sistema medico basato su antichi testi sanscriti, le cui teorie basilari erano già ben definite più di duemila anni fa. Le prime tracce scritte a noi note dell'arte medica in India risalgono al 3° millennio a.C. Attraverso successivi testi religiosi Veda se ne può seguire l'evoluzione fino all'avvento del buddhismo. I trattati classici più importanti, il Carakasamhita e il Susrutasamhita, sono entrambi databili all'inizio dell'era cristiana. I notevoli intenti scientifici dell'Ayurveda derivano dall'osservazione razionale della costituzione del corpo, delle funzioni vitali e delle malattie, secondo un approccio olistico dell'uomo che ne abbraccia soma e psiche (Mazars 1995). Uno dei principi basilari è quello di considerare l'uomo un sistema aperto che scambia in continuazione materia, energia e informazione con il suo ambiente.
Alcune caratteristiche della medicina indiana, come il considerare l'uomo nella sua globalità, l'approccio individuale, l'uso limitato di farmaci di origine chimica, la grande attenzione posta nel rafforzare le difese naturali dell'organismo, hanno fatto crescere negli ultimi anni del 20° secolo l'interesse per questo sistema in Occidente. Spesso tuttavia si commette l'errore di considerarlo alla stessa stregua di altre medicine tradizionali: un sistema 'dolce', naturale, dai metodi sempre innocui. L'Ayurveda va invece vista a tutti gli effetti come una medicina allopatica, che deve essere praticata sempre e soltanto da persone esperte, e non sempre i suoi metodi possono essere considerati dolci o indolori. Va peraltro sottolineato che molti rimedi, soprattutto quelli fitoterapici, sono stati convalidati da ricerche e pubblicazioni scientifiche. Come si è detto, l'Ayurveda tende a essere un vero e proprio sistema di rappresentazione dei fenomeni vitali, sia normali sia patologici; accanto a regole di pratica medica, esso comporta un'attenzione particolare a tutte le condizioni biologiche e psicologiche dell'esistenza (Mazars 1995). Le malattie vengono suddivise in due categorie: esogene, quando sono provocate da un causa esterna, come una caduta, una ferita, una bruciatura, un morso; endogene, quando la loro causa è uno squilibrio del dhatu, cioè di quei principi che costituiscono e animano il corpo (il vento, la bile e il flegma).
Il medico ayurvedico visita il paziente adoperando tutti i sensi (vista, udito, tatto e olfatto) per individuare anche gli odori della malattia. Inoltre valuta lo stato psichico generale del malato. L'esame del polso, introdotto nell'8° secolo, ha rappresentato una sorta di innovazione a questa antica pratica. Per ristabilire l'equilibrio dei tre principi vitali che caratterizzano lo stato di salute, la terapia di base ricorre al vomito, alle purghe, ai lavaggi interni, all'assunzione di medicinali dal naso e ai salassi. Questi metodi sono talvolta preceduti o seguiti da massaggi, frizioni e utilizzo di oli di vario genere, o bagni caldi per favorire la sudorazione. Nel corso dei secoli la medicina ayurvedica ha messo a punto più di 3000 preparati diversi d'origine vegetale, e all'incirca un migliaio è ancora oggi utilizzato. Rimedi d'origine naturale, come l'urina animale o umana, sono sempre stati adoperati e un uso, anche se più limitato, viene fatto di farmaci d'origine minerale, con impiego di ferro, oro, piombo, argento, solo per citarne alcuni. Si tratta di preparazioni alquanto complesse, sia per le stesse concezioni patogeniche del sistema sia per combinare i diversi componenti, nel tentativo di controbilanciarne o accrescerne le proprietà. I preparati sono di vario tipo: dagli estratti e oli vegetali ai grassi animali, dalle infusioni alle polveri, e poi impacchi, pomate, decotti, liquidi fermentati. I trattamenti ayurvedici sono sempre individualizzati e una grande importanza viene data al regime alimentare e all'igiene, in quanto ambedue sono considerati componenti importanti riguardo all'origine delle malattie.
Attualmente la medicina ayurvedica si limita a piccoli interventi chirurgici (per es., riduzione e cura di lussazioni o fratture), ma in antichità è stata, nonostante le approssimative conoscenze anatomiche, la più importante scuola chirurgica euroasiatica. Dall'indipendenza del 1947 c'è stato in India un forte rilancio dell'Ayurveda e del Siddha, con una marcata istituzionalizzazione. Nel 1985 erano in attività 116 facoltà o scuole di medicina tradizionale e 55 fra istituti, dipartimenti e centri di ricerca riconosciuti ufficialmente, oltre 290.000 medici tradizionali, 1664 ospedali e 12.000 dispensari. Oggi è possibile conseguire un diploma di Bachelor of Ayurvedic medicine and surgery dopo 5 anni e mezzo di studi; inoltre una ventina di università del paese offrono la possibilità di ottenere una specializzazione postlaurea che dura dai 3 ai 4 anni. Esiste poi una fiorente industria farmacologica tradizionale fin dal 1901, quando fu fondata la Bengal chemical and pharmaceutical works.
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