Medico-paziente: un rapporto in crisi
Lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie, che tanto hanno influito sulla medicina e sulla sua capacità diagnostica e terapeutica, ha portato progressivamente i medici a focalizzare l’attenzione più sulla malattia che sul paziente, modificando di fatto le interazioni cliniche, il modo di colloquiare con il malato, la formulazione di una diagnosi, con il rischio di ridurre la persona a oggetto di una cartella clinica. La tecnologia si è inserita tra il medico e il paziente: il filosofo Hans-Georg Gadamer (1993) sottolinea come l’oblio del soggetto qualifichi la riduzione della medicina intesa come arte alla medicina intesa come scienza. In un momento storico in cui la biomedicina ha toccato un livello altissimo per ciò che concerne la diagnosi e la cura delle malattie, si ha la sensazione che fallisca nei suoi compiti primari: prendersi cura dei malati, alleviare la sofferenza, fornire un contesto in cui anche la morte sia più densa di significato e più umana. Come causa della divaricazione fra i successi della medicina e il grado di insoddisfazione espresso dai pazienti sono stati ipotizzati diversi fattori, tra i quali il tecnicismo clinico che depersonalizza e rende meno evidente il ruolo del medico, la parcellizzazione delle conoscenze e la diminuzione del ‘carisma’ della figura medica.
Con lungimiranza, già nel 1950 Luigi Condorelli, uno dei più illustri clinici italiani del 20° sec., citava il pericolo di un pragmatismo esasperato che può indurre a sostituire la tecnica strumentale alla metodologia e all’osservazione del malato, portando ad annichilire la personalità del medico il cui ruolo rischia di convertirsi in una pedestre quanto scialba ricostruzione «di frammenti di mosaico, rappresentati dai risultati delle ricerche, spesso strumentali, eseguite sui diversi apparati e organi, quasi sempre da più osservatori, cioè dai così detti ‘specialisti’ degli infiniti frammenti del corpo umano» (Tarquini 2005, p. XLII). La specializzazione medica ha frequentemente portato a un uso improprio del sapere scientifico, meccanicisticamente parcellizzato, che toglie all’operatore la visuale globale del caso, dell’organismo e della persona del paziente nella sua unità. Vi sono situazioni nelle quali il paziente si trova a consultare clinici specialisti dei settori più diversi, senza che giunga a una diagnosi e a una soluzione, con una conseguente deresponsabilizzazione di tutti. Con la medicina odierna, a elevata impronta tecnologica (si pensi alla robotica applicata alle tecniche chirurgiche), l’individuo, nella propria esperienza di paziente, avverte il disagio della estraneità, della mancanza di empatia, allorché interagisce con un medico scisso tra scienza e burocrazia, tecnologia ed economia. Basti pensare al senso di smarrimento e di abbandono che coglie il malato quando, al controllo per una determinata patologia, trova nell’ambulatorio un medico diverso da quello atteso, con il quale aveva instaurato un rapporto e iniziato una terapia, che può anche essere portatore di idee e scelte terapeutiche differenti. La mancanza di un medico di riferimento che garantisca continuità assistenziale rende il paziente più ansioso e insicuro, lasciandolo spesso da solo a decidere la direzione da prendere rispetto alla propria malattia.
Si avvia pertanto un progressivo distacco della medicina dai bisogni di salute così come vengono percepiti dai malati, che si traduce in una crescente sfiducia, fino al risentimento e persino all’ostilità, e che si manifesta con quello che è stato definito il ‘fallimento del successo’. Nonostante la medicina sia sempre più capace di guarire, sorprendentemente medici e pazienti vivono un rapporto reciproco di sospetto e delusione.
La relazione
Le capacità relazionali e comunicative della coppia medico-paziente costituiscono una premessa ineliminabile all’esercizio dell’atto medico nell’interezza della dimensione professionale ed etica. Per queste ragioni la prassi medica non può essere considerata semplicemente l’aspetto tecnico applicativo di una scienza, così come il caso clinico è più della manifestazione di una legge generale. Quando si tratta della propria salute, non si può venire curati soltanto dal punto di vista astrattamente scientifico. Nella medicina il piano della relazione medico-paziente svolge un ruolo ineliminabile e l’abilità del medico nel comunicare con il paziente rappresenta un aspetto determinante della sua competenza clinica: anche il medico, che ne sia o meno cosciente, nel trattamento terapeutico vede coinvolta nel profondo la propria soggettività. La relazione si crea su aspetti simmetrici dati dal riconoscimento della reciproca natura umana e su aspetti asimmetrici derivanti dalle diverse competenze e dal ruolo che queste conferiscono a uno dei due interlocutori: il paziente è portatore di una sofferenza della quale non comprende la cause, mentre il medico è il tecnico, possessore di spazi privilegiati di osservazione e depositario di un sapere scientifico sul quale basa il suo lavoro.
La comunicazione (e, di conseguenza, il colloquio clinico nella sua accezione più ampia) costituisce l’elemento su cui fondare una relazione in cui la cronaca della patologia possa tener conto del vissuto soggettivo, delle emozioni e delle difese psichiche. In assenza di narrazioni, il mondo del paziente resta completamente inconoscibile e con esso la possibilità di comprendere la disponibilità al cambiamento e quindi alla cura. Le convinzioni del paziente, per quanto stravaganti o sbagliate possano apparire, hanno radici profonde, in gran parte nemmeno coscienti, che hanno a che fare con la sua storia familiare e personale, con le sue osservazioni, le correlazioni tra cause ed effetti che gli sembra di avere individuato, con le sue credenze e la sua cultura. In un mondo sempre più multietnico, inoltre, la medicina si troverà molto spesso a confrontarsi con culture che possono essere anche estremamente lontane dal patrimonio scientifico occidentale. È compito del medico determinare i riferimenti del malato, precisare insieme a lui quelle che sono le sue opinioni e le sue idee sulla malattia, ciò che vuole sapere, ciò che può comprendere, ciò che influenzerà le sue decisioni e ciò da cui potrà, infine, trarre vantaggio (Hœrni 1991).
L’ascolto
Che cosa chiede innanzi tutto un malato al suo medico? Attenzione e disponibilità. Il tempo dedicato alla visita è forse una delle più importanti richieste del paziente. Il tempo, parametro essenziale della nostra vita, nella relazione medico-paziente assume significati diversi. Se per il medico è principalmente inteso in senso cronologico, per il paziente è il tempo vissuto, quello che percorre la sua storia. In questa accezione, dunque, non sembra scorrere nello stesso modo o con la stessa velocità per medico e paziente. È così inevitabile che la percezione del malato sia che il medico gli dedichi troppo poco tempo e che molte delle domande che vorrebbe porgli non trovino un ascolto sufficiente. Occorre quindi offrire tempo al malato e camminare con lui nel suo tempo. Edward Shorter scrive: «Non me la prendo coi medici di base se non tentano di praticare la psicoterapia a livello tecnico formale […]. Li accuso invece di ignorare il potere terapeutico non formalizzato che attiene alla visita medica in sé. […] La vis medica della consultazione sta nella catarsi che il paziente ricava dal raccontare le proprie vicende a qualcuno di cui si fida come ‘guaritore’» (Bedside manners. The troubled history of doctors and patients, 1985; trad. it. 1986, p. 197).
La comprensione dell’importanza del rapporto tra il curante e il paziente può essere fatta risalire a Sigmund Freud (1856-1939) che, un secolo fa, evidenziò una proiezione inconscia da parte del paziente sul terapeuta di stati d’animo, emozioni e desideri (transfert) che a loro volta attivano nel terapeuta sensazioni che può trasferire sul paziente (controtransfert). Si deve al medico e psicoanalista Michael Balint (1896-1970) il merito di riconoscere che questi due aspetti costituiscono fattori di primaria importanza nella relazione fra ogni operatore sanitario e il suo paziente. La relazione si struttura sulla capacità di ascolto e di comprensione che il medico mostra al paziente. Per ascolto si intende una funzione cognitiva ed emotiva che permetta di capire e sentire cosa è stato detto. L’ascolto, dunque, non è una funzione passiva nei processi di comunicazione: nell’ascoltare gli altri occorre una reale volontà di comprendere e di immedesimarsi con il loro punto di vista. Quanto più diventa un processo attivo ed empatico che indica attenzione all’altro, cui vengono dati tempo e spazio sufficienti per esprimersi, tanto più si percepiscono i messaggi con esattezza e completezza, evitando distorsioni dell’informazione.
Nella relazione il linguaggio assume un valore centrale: non è soltanto un modo per comunicare, ma rappresenta il paziente come un soggetto con saperi propri. La relazione medico-paziente non è quindi riducibile solo a uno scambio di informazioni, è il luogo dove i soggetti si conoscono attraverso il linguaggio (Cavicchi 2004). Questo è un punto centrale in quel processo di valutazione del paziente che corrisponde all’anamnesi: non a caso si parla di raccogliere l’anamnesi. Bisogna essere pronti e vigili nell’accogliere ciò che il paziente, attraverso un suo procedimento di reminiscenza, sta offrendo. Sembra ancora valido l’insegnamento platonico: il processo attraverso cui si impara e si conosce è il ricordo, la memoria, anámnesis appunto.
Per quanto riguarda il linguaggio è chiaro che anche il messaggio trasmesso dal medico deve essere capito e ricordato dal paziente perché la comunicazione sia efficace: la mancata comprensione, dovuta, per es., all’uso di un linguaggio troppo tecnico o non adeguatamente tarato sul livello dell’interlocutore, porta a non memorizzare, all’insoddisfazione e alla non adesione al trattamento (P. Ley, Communicating with patients. Improving communication, satisfaction, and compliance, 1988). L’uso di un linguaggio eccessivamente specialistico si può ascrivere alla volontà, più o meno consapevole, del medico di rimarcare la propria competenza o di nascondere la propria incapacità a fornire risposte adeguate alle esigenze del paziente; può anche nascere da meccanismi inconsci di difesa del medico, soprattutto in situazioni in cui la comunicazione di una diagnosi o di una prognosi può risultare non così facile o problematica.
Non si agisce solo con la mano: esiste anche il potere terapeutico della parola. La parola è una via di accesso al mondo della storia, che è il mondo dell’importanza e del senso. Così come l’esercizio della mano si evolve fino a generare il mondo della tecnica, rappresentato dal ‘come si fa’, la funzione della parola genera l’universo del significato, rappresentato nel ‘perché’ e ‘a che scopo’ si fa. Non è possibile considerare come obiettivo professionale un concetto generico quale la salute del paziente. La salute, notoriamente, è multifattoriale, e il medico deve decidere caso per caso quali, tra i molti obiettivi di salute possibili, sono a suo avviso prioritari e quali risultano comprensibili, accettabili, condivisibili, concretamente realizzabili da parte del paziente.
La malattia
Buona parte di ciò che sappiamo della malattia ci è noto grazie alle storie narrate dai malati, dai familiari, dai medici. Se la malattia è un’alterazione della struttura e della funzione degli organi, è anche senza dubbio una storia, un capitolo nella biografia di un uomo. Le storie personali non sono solo il mezzo con il quale l’esperienza della malattia viene oggettivata, comunicata e riferita. Esse sono anche uno strumento privilegiato e particolare per comprendere la propria esperienza di malattia. Coloro che sono malati si trovano nel mezzo della lettura di una storia, spesso senza aiuto per influenzarne l’esito, rivedendo di continuo interpretazioni, giudizi, speranze e aspettative con il procedere del tempo narrativo (Good 1994). Dalla persona malata la malattia è vissuta come presente nel corpo, ma il corpo non è semplicemente un oggetto fisico o uno stato fisiologico: è una parte essenziale del sé. In questo modo il corpo malato non può essere semplicemente un oggetto di conoscenza e di studio per il medico, perché è anche il luogo dove avviene un’esperienza, in molti casi inseparabile dal dolore. Compito fondamentale di una medicina ‘scientifica’ sarebbe quindi ritrovare una ‘tolleranza’ per qualcosa che non è codificabile, cioè una ‘ricontestualizzazione’ del malato come persona rispetto ai sintomi che si stanno studiando. Lo scoglio che la medicina deve superare è come integrare i dati soggettivi dell’esperienza con la necessità di inquadrare la malattia, espressa dall’individuo, in quadri clinici che, in quanto ricorrenti e ripetibili, diventano universali. Ciò significa che, nell’esame clinico odierno, il quadro complessivo del paziente non può essere formato dai tasselli estratti dallo schedario: se la ricomposizione è corretta, tutti i parametri appartengono all’individuo, ma occorre infine vedere se in tal modo, con il suo valore, emerge anche la sua unicità.
In campo medico, possiamo parlare di due livelli di comprensione dell’uomo. Innanzi tutto, il livello dell’animale macchina, indispensabile in certe situazioni quali i momenti di urgenza, quando si deve essere immediatamente operativi. È un modello in cui le patologie si possono capire solo in riferimento alla media statistica delle alterazioni cui si dovrà porre rimedio. Il secondo livello è quello dell’uomo: il pensiero si riferisce allora al corpo e a ciò che può esprimere in desiderio e significato. Questo aspetto è indispensabile quando si vogliono comprendere e alleviare la malattia e la sofferenza. Se si possono inquadrare i vari dati di laboratorio in un insieme unico, comprenderli razionalmente e arrivare a fare una diagnosi, è pur vero che si trovano spesso caratteristiche individuali non sempre inquadrabili che configurano quella che Luca Serianni (2005) definisce «la gioiosa insolenza della vita».
Il paziente
Il mondo del paziente, come del resto quello di ogni individuo, è una complessa e intricata rete di simboli e significati, una vera e propria ‘cultura’ che definisce la sua identità: è ingenuo pensare che le nozioni del medico, per quanto razionali e sensate, possano essere accettate e riconosciute senza difficoltà dal paziente; tanto più se esse si contrappongono frontalmente a quelle che l’altro ritiene vere. Il malato vive nella certezza e nello stato d’animo di essere portatore di una malattia. L’essere malato è quindi correlato a una situazione psicologica e non necessariamente a una lesione o a una disfunzione organica (si può avere una malattia, ma non sapere di essere malati). Sappiamo, infatti, che la malattia si può manifestare per segni e/o sintomi. La caratteristica dei sintomi è che il medico non li percepisce, ma prende atto della loro esistenza da ciò che gli racconta il paziente. Quello che il medico percepisce, a partire da ciò che sa, costituisce ciò che chiamiamo segni. I segni possono esistere senza sintomi e in questo caso l’individuo prende atto della loro esistenza attraverso la comunicazione del medico.
Inoltre, il concetto di malato non si può separare dalla nozione di malattia, che può essere definita solo dopo avere chiarito tre norme:
a) norma anatomica e organico-funzionale, propria della biologia e dei fenomeni oggettivabili;
b) norma sociale, per la quale la malattia è una nozione che conferisce uno stato alla posizione di un individuo in un gruppo: essere malati può avere significati diversi a seconda del ceto sociale e del grado culturale e, come patimento (pathos), è un dato che può essere comunicabile, trasferibile, capace di risvegliare affetti e cambiamenti nell’altro, ovverosia è anche un avvenimento ‘sociale’;
c) norma intima, che ogni individuo possiede e che presiede alla presa di coscienza dell’organico nel mondo della rappresentazione e dei suoi simboli. È il risultato di un lungo lavoro da riferirsi non solo alla storia del soggetto, che gli conferisce la sua specificità individuale, ma anche alla grande storia degli uomini trasmessa di generazione in generazione. Questa norma intima è l’origine della soggettività e dell’originalità di ciascuno di noi ed è anche sicuramente la sede dove si verifica l’azione della relazione.
Il medico, oltre all’obbligo di informare il paziente, ha anche, e soprattutto, una funzione terapeutica: l’ampliamento delle conoscenze relative al paziente non è fine a sé stesso, ma è in funzione del maggior benessere possibile per lui, ed è compito non secondario del medico affiancare il malato per raggiungere questo fine. Un’efficace applicazione degli interventi diagnostici e terapeutici richiede necessariamente la collaborazione da parte del paziente: collaborazione che l’informazione, per quanto corretta ed esaustiva, non è sufficiente di per sé a garantire. La forza di persuasione del medico, così come la fiducia nella collaborazione del paziente, rappresentano un fattore terapeutico essenziale che appartiene a una dimensione totalmente diversa rispetto a quella in cui si colloca l’azione fisico-chimica dei farmaci sull’organismo o l’intervento chirurgico. Da qui la necessità per il medico non solo di conquistare la fiducia del paziente, ma di limitare la propria autorità: oltre al caso in cura egli deve, infatti, considerare l’uomo nella situazione complessiva della sua vita, riflettere sulle conseguenze che il suo agire può provocare sul paziente ed eventualmente sapere tirarsi indietro, dote essenziale del medico. È d’altra parte fondamentale per il paziente sentire che l’interesse del medico nasce dalla sua capacità di identificarsi con lui. In altre parole, la capacità di attenzione del medico si esprime non soltanto nell’andare incontro ai bisogni di dipendenza del paziente, ma anche nell’offrirgli l’opportunità di procedere dalla dipendenza verso l’autonomia, che si realizza nella salute. A differenza della malattia, la salute non è mai causa di preoccupazione, anzi, non si è quasi mai consapevoli di essere sani. Non è una condizione che invita o ammonisce a prendersi cura di sé stessi, bensì implica la sorprendente possibilità di essere dimentichi di sé. La salute cronica rimane il caso particolare con il quale tutti noi, in quanto uomini, dobbiamo fare i conti.
Si dovrà insistere sul valore primario e sul ruolo decisivo del dialogo e dell’intesa tra medico e paziente. D’altra parte, una persona ricorre o pensa di dover ricorrere a un medico in base alle aspettative relative a ciò che la medicina può fare. Tali aspettative non solo determinano il genere e il tipo di medico che una persona cerca o sceglie, ma influiscono anche sull’intero corso della relazione e della cura che si accetterà di realizzare con tale medico. Molti pazienti sbriciolano in una quantità di frammenti la totalità della loro sintomatologia, così che ogni medico si trova ad agire nell’ambito di uno di questi frammenti. Il rapporto diventa terapeutico quando il medico ha la consapevolezza che il suo intervento si confronta con la totalità dei bisogni dell’individuo e non soltanto con quelli che la teoria biologica prevede siano alla base di una determinata affezione.
La reattanza psicologica
Le indicazioni del medico in ambito diagnostico e terapeutico richiedono di frequente, da parte del paziente, cambiamenti di comportamento rilevanti e spesso spiacevoli. Ne consegue che il paziente tende in genere a resistere o a opporsi alle prescrizioni, tanto più quando ne vede con chiarezza gli effetti sgradevoli ma non altrettanto chiaramente i vantaggi. Ciò è molto frequente nelle patologie croniche silenti o ben tollerate (esempio tipico è l’ipertensione arteriosa) e nel caso di interventi di prevenzione. L’estensione e l’importanza delle restrizioni della libertà e della perdita di controllo che un paziente tipico deve subire hanno ben pochi parallelismi nell’intera esperienza umana (Christensen 2004).
Se poi, come spesso avviene, queste prescrizioni prevedono una riduzione del controllo che il paziente esercita sulla propria vita o l’eliminazione di comportamenti percepiti come diritti acquisiti, entra in azione un meccanismo importante, che è stato definito reattanza psicologica (RP), descritto qualche decennio fa (S.S. Brehm, J.W. Brehm, Psychological reactance. A theory of freedom and control, 1981; Miron, Brehm 2006). Si parte dalla constatazione che ogni individuo dispone di un certo numero di ‘comportamenti liberi’ (freedoms), comportamenti che sa di poter esercitare in ogni momento, sia nel presente sia nel futuro. L’eliminazione, o anche solo la minaccia di eliminazione, di qualcuna di queste libertà suscita nella persona uno stato motivazionale definito appunto reattanza psicologica. La teoria della RP mette in evidenza che essa non è una reazione dovuta a puro spirito di contraddizione o a programmatico rifiuto, bensì un fenomeno motivazionale specifico. Il tentativo di ripristinare con ogni mezzo la libertà limitata o il comportamento vietato non è frutto di capriccio, né di una ordinata scelta razionale che definisce percorsi e obiettivi. Tutte le più recenti ricerche sembrano confermare l’ipotesi che la RP sia una risposta diretta, cioè non mediata tramite un processo cognitivo. In ultima analisi, ciò che scatena la RP è la percezione da parte del soggetto della perdita di controllo su aspetti della propria esistenza che egli considera acquisiti e garantiti; infatti la RP è definita anche come perdita delle aspettative di controllo. Ogni persona ha specifiche convinzioni su ciò che può o non può fare e queste configurano l’idea individuale di libertà. Poco si conosce su come tali convinzioni si sviluppino. Esistono tuttavia prove che esse siano legate al contesto sociale (DiClemente, Prochaska 19982).
Gli individui adulti, che hanno necessità di conferire senso e coerenza alle proprie azioni, tendono a fornire spiegazioni razionali al loro comportamento, ma si tratta di spiegazioni costruite a posteriori. Di fatto, la RP entra automaticamente in azione anche quando accettare il cambiamento, sia pur rinunciando a una particolare libertà, risulterebbe per l’individuo utile e vantaggioso: questa è per il medico un’informazione di notevole importanza pratica. Ricerche sperimentali dimostrano che tanto maggiore è la difficoltà di ripristinare la libertà minacciata o eliminata, tanto più elevata è l’intensità della reattanza, almeno fino a un certo limite. La RP tende a ripristinare o a difendere la libertà eliminata o minacciata; anzi, se il comportamento libero in questione era in precedenza percepito più o meno alla pari rispetto ad altre libertà, nel momento in cui viene eliminato, tale comportamento è avvertito come prioritario, fondamentale. È interessante notare che molti studiosi considerano indicatori tipici di reattanza psicologica gli atteggiamenti di sfida, di non cooperazione, di aggressività, di rabbia, di ostilità: proprio i medesimi atteggiamenti che spesso i medici attribuiscono ai pazienti ‘irragionevoli’ e definiscono ‘immotivati’; al contrario, la RP è una risposta motivazionale, intendendo per motivazione qualsiasi movente, conscio o inconscio, di un comportamento.
Quando l’individuo si rende conto che il ripristino di quel comportamento è troppo difficile, subentra quella che è stata definita helplessness, letteralmente abbandono, impotenza, e la persona tende ad assumere atteggiamenti negativi o di tipo depressivo. Nella relazione medico-paziente reazioni del genere sono messe in evidenza da comportamenti fatalisti o disfattisti. Non è escluso che tali atteggiamenti denotino serena saggezza, ma è necessario che, prima di accettarli come tali (ammesso che lo si possa fare), il medico valuti l’eventualità (non rara) che essi abbiano piuttosto a che fare con la helplessness. Da quanto detto, risulta chiaro il senso di quello che Jack W. Brehm ha definito effetto boomerang: tanto maggiore è la pressione esercitata sulla persona affinché compia (o non compia) determinate azioni, tanto maggiore sarà la reattanza psicologica e, quindi, in termini pragmatici, l’insuccesso. La cosa vietata diventerà quella più desiderabile e vi sarà un’intensa motivazione a ripristinare la propria possibilità di ottenerla. Se la pressione diventerà eccessiva, subentreranno frustrazione, senso di impotenza, depressione, negatività, disfattismo. Sia la reattanza sia il senso di impotenza sono seri ostacoli alla cooperazione e all’alleanza terapeutica tra medico e paziente e configurano la crisi del rapporto.
Ancora, è importante sottolineare che il nome di una determinata malattia implica un significato particolare, diverso per ogni persona, le cui radici sono in parte inconsce. Il medico deve quindi evitare di comunicare diagnosi precoci, dato che gli effetti di una simile comunicazione non si correggono automaticamente quando si corregge la diagnosi. Si deve anche essere prudenti riguardo al grado di verità di ciò che il medico scopre e considerare che, anche nei casi in cui la diagnosi può essere ritenuta ragionevolmente sicura, non sempre la prognosi emerge con lo stesso grado di certezza. D’altra parte per colui che soffre, il nome della malattia dice poco: la malattia è un vissuto. Se per i medici il corpo fisico è l’oggetto della loro attenzione, questo corpo è inseparabile dal corpo vissuto di colui che soffre e ogni medicina deve affrontare questioni esistenziali nonché i problemi fondamentali del significato.
L’interazione tra medico e paziente dipende dunque prevalentemente dal medico, il quale si assumerà il compito di accompagnare il malato nelle scelte e nelle decisioni; ma accompagnare non significa spingere o costringere. Appare chiaro quindi il passaggio dal vecchio concetto di compliance (disponibilità), che implicava sottomissione e obbedienza, a quello di aderenza, che sottolinea la libera scelta da parte del paziente in un contesto spesso definito di partnership: un contesto in cui ciascuno porta le proprie competenze e le confronta con quelle dell’altro, senza esclusioni a priori e senza clima di contesa. Le conoscenze cliniche sono assolutamente necessarie, ma non sono di per sé sufficienti a costruire fiducia e di conseguenza a generare speranza; senza fiducia e senza speranza il paziente si trova solo.
Il farmaco
Un altro elemento si inserisce poi nella relazione medico-paziente: il farmaco. Mediante il farmaco il medico mantiene una forma di presenza quasi costante presso il malato e instaura un tipo di rapporto del tutto particolare in cui, accanto a elementi verbalmente espressi, viene lasciato ampio spazio a possibili ritualizzazioni, simbolizzazioni e fantasie. Vediamo così che, parallelamente ai progressi della biologia e della medicina, si sta sviluppando, per via dell’incremento delle possibilità dell’intervento medico, una presa di coscienza delle poste in gioco simboliche dell’azione terapeutica. Senza comunicazione tra medico e paziente ogni farmacoterapia diventa un rapporto extraverbale manipolato, dove i farmaci rischiano di prescindere dai pensieri e dalle emozioni del malato, che può sentirsi non riconosciuto come partecipe di un’operazione che direttamente lo riguarda. I farmaci, così come qualunque prescrizione, sono ‘vagoni’ che viaggiano sui binari di una solida relazione: se questa manca possono perfino perdere efficacia. Un medicamento esiste per il paziente che ne ha beneficiato, come se fosse solo per lui. Non trasforma il mondo esterno, ma agisce sull’uomo (B. Lachaux, P. Lemoine, Placebo. Un médicament qui cherche la vérité, 1988; trad. it. 1995).
I progressi della scienza hanno conferito al corpo medico un potente arsenale, ma i medici continuano a mantenere, per coloro che soffrono, un potere taumaturgico. Secondo lo psichiatra Édouard Zarifian (Éloge du placebo, «Actualités médicales internationales psychiatrie», 1987, 4, 48, pp. 1187-88) il ricorso al mistero è esistito in tutte le civiltà. Può darsi che il mondo, sconvolto dallo sviluppo esasperato della scienza, dall’informatica alla tecnica aerospaziale, passando per il controllo sulla procreazione, sia diventato talmente angosciante da favorire il ritorno all’aspetto irrazionale. Da quando la farmacologia clinica ha definito l’effetto placebo, in ogni trattamento si evidenziano due aspetti, l’uno farmacodinamico, l’altro psicodinamico, che si influenzano reciprocamente. In ogni relazione medica accompagnata da una prescrizione possiamo così trovare due aspetti complementari e inseparabili: quello rivolto all’organismo inteso in senso biologico, sede dell’azione farmacodinamica del medicamento, e quello rivolto all’uomo in quanto soggetto, luogo dell’azione farmacodinamica non specifica, nel quale intervengono numerosi fattori. Vengono richiamate a questo livello, dotate di una certa efficacia, rappresentazioni coscienti e incoscienti, perché il medicamento è efficace anche grazie a ciò che rappresenta. Il medico prescrive sempre il farmaco sapendo che agisce anche oltre il motivo specifico per il quale viene prescritto.
Un accenno va fatto alla grande diffusione che negli ultimi decenni le medicine cosiddette alternative o complementari hanno acquisito. Partendo dal fatto che esse comprendono discipline con origini storico-scientifiche anche molto differenti tra loro, basti pensare ad agopuntura e omeopatia, gli studi statistici hanno evidenziato che una grande percentuale di pazienti vi ha fatto ricorso almeno una volta. È interessante sottolineare che solo pochi pazienti hanno parlato con il loro medico di questa scelta, sia prima di compierla sia dopo. Per spiegare questa grande diffusione è stato spesso chiamato in causa il rapporto medico-paziente che, in medicine accusate di essere ‘non scientifiche’, riveste un ruolo di grande importanza. Il paziente si sentirebbe cioè ascoltato e compreso come raramente capita nella relazione con il medico di famiglia, e sarebbe quindi nel solo rapporto creatosi tra il medico e il paziente la ragione del successo terapeutico. Tale spiegazione sembra comunque troppo riduttiva per un fenomeno che non smette di aumentare e che non riguarda solo il trattamento di malattie cosiddette psicosomatiche. Anzi, uno studio sull’uso dell’effetto placebo ha mostrato come pazienti che utilizzano terapie non convenzionali siano più ansiosi di quelli che utilizzano farmaci, in contrasto con l’evidenza che la riduzione dell’ansia è il marcatore dell’effetto placebo. In terapie quali, per es., l’omeopatia, lo spazio dedicato all’anamnesi non è fine a sé stesso: esso serve ad assicurare non solo una corretta diagnosi, ma anche un uso non astratto del farmaco, che viene scelto in base alla sintomatologia del singolo paziente. Il ruolo del medico sembra porsi tra immaginario e reale, tra arte e scienza: realtà della prescrizione, ma anche immaginario delle sue rappresentazioni. La fiducia nasce all’interno di una relazione e il medico sembra dover apprendere o riapprendere, in un mondo in trasformazione, la capacità di costruire e di mantenere con il paziente una relazione terapeutica efficace. Cambiano gli strumenti delle conoscenze, aumentano i progressi delle scienze, ma non cambia il concetto di relazione terapeutica, che è, e rimane, la più antica radice della medicina.
Bibliografia
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