Medio Oriente
Nell'accezione geografica più ampia, la locuzione Medio Oriente indica quell'arco di Stati che - da ovest a est - va dal Marocco al Pakistan incluso, arrivando a comprendere a sud il Sudan. Coniata dagli americani all'inizio del 20° sec., entrò nell'uso corrente dopo la Seconda guerra mondiale, finendo per soppiantare la vecchia locuzione Vicino Oriente, che peraltro non comprendeva il Maghreb, ossia gli Stati dell'Africa settentrionale dal Marocco all'Egitto escluso. Da quanto brevemente accennato, risulta evidente che l'espressione Medio Oriente è niente più di una convenzione geografico-politica che riflette la storia e le tradizioni storiografiche delle ex potenze coloniali europee - Gran Bretagna e Francia in testa - o della superpotenza occidentale, gli Stati Uniti. In nessun caso la locuzione può essere usata per indicare l'insieme degli Stati arabi, poiché in M. O. esistono Stati che arabi non sono: la Turchia (a maggioranza turca), Israele (a maggioranza ebraica) e l'Irān (a maggioranza persiana). E non può essere usata nemmeno in accezione religiosa, come sinonimo di insieme di Stati islamici. Questo per due motivi. Innanzitutto, gli Stati più popolosi della Umma (l'ecumene musulmana) non si trovano in M. O., bensì nell'Asia meridionale e orientale (Indonesia, Pakistan, India, Cina) o in Africa (Nigeria): il primo Paese arabo-mediorientale nella graduatoria dei Paesi islamici più popolosi è l'Egitto, classificato solo al settimo posto. In secondo luogo, in M. O. esistono Stati a maggioranza non musulmana (Israele) o Stati in cui sono presenti consistenti minoranze o comunità di altre religioni (cristiana, ebraica, zoroastriana ecc.).
La creazione del M. O. è stata frutto della conquista coloniale diretta delle potenze europee o della spartizione tra di esse dei territori dell'ex Impero ottomano dopo la sua sconfitta nel corso della Prima guerra mondiale. La prima aggressione militare ai danni di una provincia dell'Impero avvenne a opera della Francia che nel 1830 iniziò la conquista dell'odierna Algeria, rimasta francese fino all'indipendenza, acquisita nel 1962 dopo una lunga e sanguinosa guerra di liberazione. Nell'orbita della Francia finirono ben presto - come protettorati - anche la Tunisia (dal 1881 al 1956) e il Marocco (dal 1912 al 1956), che non ha mai fatto parte dell'Impero ottomano. La Libia fu invece conquistata dall'Italia nel 1911-12 e - dopo una reggenza inglese dal 1943 al 1951 - nello stesso 1951 acquisì l'indipendenza. Prima ancora che la Sublime Porta venisse sconfitta nel corso della Prima guerra mondiale, Francia e Gran Bretagna si spartirono le spoglie dell'Impero ottomano con il trattato Sykes-Picot del 1916, puntualmente onorato nel corso della Conferenza di San Remo del 1920, i cui risultati vennero fatti propri dalla Società delle Nazioni, che nel 1921 assegnò alla Francia i mandati sugli attuali Libano e Siria e alla Gran Bretagna i mandati su Palestina, Transgiordania (dal 1949 Giordania) e ̔Irāq. I mandati divennero operativi nel 1922. Particolare importante: il mandato della Gran Bretagna sulla Palestina includeva la dichiarazione Balfour con cui il ministro degli Esteri inglese, nel 1917, si era impegnato con il Congresso sionista mondiale a favorire "la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina". Ma l'influenza di Londra in quello che sarebbe divenuto il M. O. era già preponderante nella seconda metà del 19° sec. e si articolava attraverso una complessa rete di trattati e protettorati volti a rendere sicure le vie di terra e soprattutto di mare verso il baricentro dell'Impero vittoriano: l'India. Fin dal 1882 truppe inglesi erano sbarcate in Egitto per proteggere il Canale di Suez che consentiva un rapido accesso dal Mar Mediterraneo al Mar Rosso evitando la circumnavigazione dell'Africa. La costruzione del Canale (inaugurato nel 1869) prosciugò le casse del tesoro del Khedivè tanto che l'Egitto nel 1875 dichiarò bancarotta, cosa che consentì alla Gran Bretagna di commissariare le finanze locali e di estendere la propria influenza sul Paese fino a configurare quello che venne definito informalmente un protettorato velato che, ufficialmente, terminò nel 1922 quando all'Egitto venne concessa l'indipendenza, la quale fu però realmente acquisita dal Paese soltanto nel 1952, quando il colpo di Stato dei Liberi ufficiali mise fine non solo alla monarchia di re Fārūq, ma anche all'influenza inglese. Sempre la Gran Bretagna fin dal 1839 aveva instaurato un proprio protettorato ad Aden (nell'attuale Yemen meridionale) e dal 1892 un protettorato nella cosiddetta Trucial Coast (la Costa dei Trattati) per controllare le rotte del Mar Rosso e del Golfo Persico verso l'India. Al protettorato di Aden l'indipendenza venne concessa nel 1967, agli emirati della Trucial Coast solo nel 1971 quando la maggioranza di essi decise di federarsi in un unico Stato: gli Emirati Arabi Uniti (EAU). Gli EAU comprendono: Abū Ẓabī, ̔Aǧmān, Dubai, al-Fuǧayra, Ra̓s al-Ḥayma, al-Šāriga e Umm al-Qaywayn. Furono protettorati inglesi anche l'Omān (dal 1891), che divenne indipendente nel 1971, come il Qatar, che rifiutò di federarsi agli Emirati Arabi Uniti, e il Kuwait - protettorato inglese dal 1899 -, che si autoproclamò indipendente nel 1961 con il beneplacito di Londra. Senza esercitare veri e propri protettorati, la Gran Bretagna aveva già riconosciuto l'indipendenza dello Yemen del Nord nel 1925 (dove, al ritiro dei turchi nel 1919, il potere era rimasto all'imām Yalịyā) e nel 1927 l'indipendenza del regno di ̔Abd al-̔Azīz Āl Sa̔ūd in quella che, proprio con ̔Abd al-̔Azīz, divenne Arabia Saudita. Gli unici Paesi dell'attuale M. O. a non aver sperimentato una colonizzazione diretta europea sono stati la suddetta Arabia Saudita, la Turchia - creata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923 come repubblica nella penisola anatolica - e la Persia (dal 1935 ribattezzata Irān), sebbene fin dal 19° sec. l'Impero zarista (poi Unione Sovietica) e la Gran Bretagna vi esercitassero, l'uno sulle regioni settentrionali, l'altra su quelle meridionali, pesanti ingerenze soprattutto di natura economica. Fu proprio in Persia infatti che la Gran Bretagna scoprì il petrolio nel 1908 e la sua capillare presenza nella regione da quel momento venne potenziata anche per poter assicurare alle compagnie inglesi quote sempre maggiori nel mercato delle prospezioni e dello sfruttamento del greggio. In Transgiordania e in ̔Irāq, la Gran Bretagna impose monarchie costituzionali, insediando sul trono due fratelli, ad Amman ̔Abd Allāh i e a Baghdad Fayṣal i, figli dello sceicco Ḥusayn della Mecca, che nel 1916, nel corso della Prima guerra mondiale, aveva dato vita alla cosiddetta Grande rivolta araba contro l'Impero ottomano, teatro delle gesta di Lawrence d'Arabia. Ḥusayn e i figli vantavano una discendenza dagli Hashemiti (la famiglia d'origine di Maometto). I nuovi Stati, creati sulle ceneri dell'Impero ottomano, racchiudevano un insieme di comunità religiose e/o etniche che mal riuscivano a convivere con il moderno Stato-nazione, frutto dell'evoluzione istituzionale europea. Non meraviglia dunque che l'imposizione dei mandati scatenasse rivolte a ripetizione un po' ovunque, regolarmente represse nel sangue, tanto in quelli inglesi quanto in quelli francesi. Per poterli amministrare, le potenze mandatarie finirono inevitabilmente per alterare i precedenti equilibri intercomunitari, favorendo alcune comunità a danno di altre. Fu il caso, per es., dei cristiano-maroniti in Libano o dei musulmani sunniti in ̔Irāq. Il tutto per dire che uno dei problemi principali del M. O. contemporaneo e fonte della sua proteiforme conflittualità, ossia il senso di lealtà primario che continua a esprimersi innanzitutto nei confronti della comunità d'origine (etnica o religiosa) invece che nei confronti dello Stato, non deriva da un presunto tribalismo ancestrale, e tantomeno da un retaggio islamico, ma proprio dalle modalità con cui la forma Stato europea è stata imposta dall'alto nella regione.
Formalmente l'era delle indipendenze per il M. O. arrivò abbastanza in fretta, fatta eccezione per l'Algeria: il Libano lo divenne nel 1943, la Siria nel 1944 (ma entrambi i Paesi poterono dirsi effettivamente indipendenti soltanto nel 1946 quando le truppe francesi lasciarono i loro territori), la Transgiordania nel 1946, l'Irāq già nel 1932. Un caso a parte è rappresentato dalla Palestina, dove gli inglesi - in base alla dichiarazione Balfour - favorirono l'insediamento di comunità ebraiche che, negli anni, divennero sempre più numerose prima sotto la spinta dei pogrom nell'Europa orientale, poi dell'antisemitismo culminato nella Shoah. Fin dalle prime aliot (letteralmente 'le risalite', sing. aliyah), cioè le prime ondate di immigrazione ebraica in Palestina in periodo mandatario, le autorità arabe - sebbene divise al proprio interno sull'atteggiamento da tenere nei confronti della Gran Bretagna - considerarono gli ebrei nient'altro che un'emanazione della potenza mandataria stessa, senza considerare che se gli ebrei arrivavano in Palestina era proprio perché l'Europa li stava perseguitando ed espellendo. Il sionismo, ovvero il nazionalismo ebraico, era stata la risposta al rifiuto degli ebrei espresso dall'Europa fin dagli anni Ottanta dell'Ottocento. Il nazionalismo arabo, cioè l'ideologia che ha improntato di sé la storia contemporanea del M. O., porta nel suo DNA questa opposizione costante alla presenza sionista nella regione. Le tensioni tra sionisti e palestinesi culminarono in scontri aperti già nel 1920, nel 1929 e, soprattutto, nella grande rivolta araba del 1936-1939, che provocò una feroce repressione inglese ai danni dei palestinesi i quali arrivarono disarmati e disorganizzati al 1947, anno in cui la Gran Bretagna - pesantemente provata dal secondo conflitto mondiale - rimise il mandato sulla Palestina nelle mani dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, erede della Società delle Nazioni. Il 29 novembre 1947 l'ONU votò la risoluzione nr. 181 che divideva la Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, e manteneva sotto il controllo internazionale l'enclave di Gerusalemme, sede dei principali luoghi di culto delle tre religioni monoteiste: l'ebraismo, il cristianesimo e l'Islam. I sionisti accettarono il piano di spartizione che venne invece rifiutato dai palestinesi e da tutti i Paesi arabi già divenuti indipendenti. La guerra sarebbe scoppiata sei mesi dopo. Il 14 maggio 1948 Israele proclamò unilateralmente la propria indipendenza e nella notte tra il 14 e il 15 maggio venne invaso dagli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano, ̔Irāq. Per gli israeliani quella del 1948 è diventata 'la guerra di indipendenza', per gli arabi e per i palestinesi è ancor oggi la Naqba (la catastrofe). Gli eserciti arabi infatti vennero sconfitti, i palestinesi non ebbero più alcuno Stato e in 350.000 (secondo la storiografia classica israeliana), in 1.000.000 (secondo la storiografia arabo-palestinese), furono costretti a una dolorosa diaspora. Il territorio che era stato destinato loro venne suddiviso dagli armistizi di Rodi del 1949 tra l'Egitto, cui andò la Striscia di Gaza, e la Trangiordania - ribattezzata Giordania - cui fu assegnata la West Bank o Cisgiordania compresa Gerusalemme Est. Capitale del nuovo Stato ebraico divenne Gerusalemme Ovest.
Il 1948 ha condizionato in maniera radicale lo sviluppo politico di tutti gli Stati mediorientali diventando la matrice più profonda della sua endemica conflittualità, abilmente sfruttata dalla guerra fredda. La storia del conflitto arabo-israeliano si articolò poi in altri tre episodi di battaglie campali tra eserciti (la crisi di Suez del 1956, la guerra dei Sei giorni del 1967 e la guerra del Kippur del 1973). Dal canto suo lo scontro Est/Ovest finì per polarizzare al suo interno lo stesso mondo arabo con le principali repubbliche (Algeria dal 1965, Libia dal 1969, Egitto fino al 1978, Siria dal 1963, ̔Irāq dal 1968) schierate nell'orbita sovietica e le monarchie (Marocco, Arabia Saudita, emirati del Golfo Persico, Giordania) alleate degli Stati Uniti. Ogni guerra del conflitto arabo-israeliano ha avuto pesanti conseguenze in Medio Oriente. La guerra dei Sei giorni del 1967 consentì a Israele di occupare militarmente la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, strappate all'Egitto, l'intera Cisgiordania - Gerusalemme Est inclusa - strappata alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. Questi territori da allora sono rimasti sotto occupazione militare israeliana con le eccezioni di Gerusalemme Est (cui l'amministrazione ebraica fu estesa il giorno stesso della conquista), delle alture del Golan (annesse nel 1981), delle porzioni di Cisgiordania restituite ai palestinesi con gli accordi di Oslo del 1993 e della Striscia di Gaza evacuata di tutti gli insediamenti israeliani nell'agosto 2005. I territori occupati consentirono a Israele di dare una profondità strategica ai propri confini, per garantire la quale venne dato il via anche a un processo di colonizzazione ebraica dei territori medesimi, che risvegliò nella società una forma di sionismo religioso che si opponeva fieramente alla restituzione dei territori medesimi e diventò la matrice del fondamentalismo ebraico contemporaneo. Negli Stati arabi, la sconfitta del 1967 risvegliò i movimenti di matrice islamica che nella vittoria del 'nemico sionista' sui regimi arabi secolarizzati vedevano la 'giusta punizione di Dio'. Da allora proprio l'Islam si è trasformato nell'unica opposizione ai governi autocratici, visto il deficit democratico da loro stessi creato. In tutti gli Stati, con poche eccezioni come la Giordania, le opposizioni islamiste sono state represse nel sangue, con il risultato di esasperare il loro estremismo e la loro presa sulla popolazione. Per quanto riguarda i palestinesi, fino al 1987 la loro parabola è coincisa con quella dell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), l'organizzazione-ombrello delle numerose organizzazioni palestinesi nate dopo il 1948, e dal 1969 presieduta da Y. ̔Arafāt. Sebbene l'OLP non se ne sia mai attribuita la responsabilità, tra gli strumenti per imporre la causa palestinese all'agenda internazionale fu usato anche il terrorismo, un terrorismo di matrice laica, fortemente connotato in senso marxista-leninista e perciò profondamente diverso dal terrorismo islamico globale contemporaneo.
Per porre fine ai bombardamenti che i guerriglieri palestinesi effettuavano sull'Alta Galilea, nel 1982 Israele invase il Libano dove l'OLP si era trasferita nel 1970 (dopo la durissima repressione giordana seguita al tentativo di rovesciare il trono di re Ḥusayn) e dove nel 1975 era scoppiata una sanguinosissima guerra civile destinata a durare fino al 1989. Prima dell'invasione israeliana del 1982, già la Siria era intervenuta nel 1976, su richiesta del presidente libanese, per fornire truppe di interposizione, ma ben presto si trasformò in una vera e propria potenza occupante. Nelle convulsioni della guerra civile in Libano fecero la loro comparsa le prime formazioni armate della comunità sciita locale, la più sfavorita nella spartizione di potere tra le comunità confessionali. La principale organizzazione sciita fino al 1979 fu Amal, ma con la rivoluzione in Irān dello stesso anno e soprattutto dopo l'invasione israeliana del 1982 fece la sua comparsa Ḥezbollāh (il Partito di Dio) frutto dell'alleanza siro-iraniana. Ḥezbollāh divenne il nuovo nemico di Israele nel sud del Libano rimpiazzando i guerriglieri e la leadership dell'OLP, la cui evacuazione alla volta di Tunisi, nell'agosto del 1982, era stata protetta da una prima Forza di pace multinazionale di cui facevano parte gli Stati Uniti, la Francia e altri Paesi tra cui l'Italia. Evacuata l'OLP, i campi profughi palestinesi rimasero indifesi e in balia delle milizie cristiano-maronite che a Ṣabrā e Šātīlā, il 16 settembre 1982, attuarono un massacro di civili con la complicità dell'esercito israeliano. Una nuova Forza multinazionale fu dispiegata in Libano e proprio contro i contingenti americano e francese Ḥezbollāh sperimentò la propria strategia stragista, fatta di attentati con i kamikaze, che avrebbe fatto scuola. Dal canto suo Israele aveva trovato un altro nemico mortale, il Partito di Dio, che si sostituì ai palestinesi nei bombardamenti della Galilea settentrionale. Israele, assieme a milizie cristiane, mantenne il controllo della cosiddetta Fascia di sicurezza, profonda circa 40 km, nel Libano meridionale fino al 2000 quando si ritirò, rimanendo attestato solo nelle Fattorie di Sheeba, una quarantina di km2 al confine tra Libano, Israele e Siria. La guerra civile libanese si concluse solo nel 1989 con gli accordi di al-ṭā̓if che in pratica ufficializzarono l'occupazione siriana del Libano presentata sotto forma di trattati di fratellanza e cooperazione.
L'invasione israeliana del Libano nel 1982 segnò la fine degli scontri campali tra eserciti nell'ambito del conflitto arabo-israeliano, che si sarebbe trasformato di lì a poco, con la prima intifāḍa del 1987, in conflitto israelo-palestinese. Nel frattempo l'intero M. O. stava metabolizzando l'evento-cardine della sua storia più recente: la rivoluzione in Irān del 1979, coeva di altri due importanti avvenimenti della regione, ossia l'invasione sovietica dell'Afghānistān e la salita al potere di Ṣ. Ḥusayn in ̔Irāq.
La rivoluzione che nel 1979 spodestò la dinastia Pahlavī in Irān fu preceduta da due anni di massicce dimostrazioni popolari contro la dittatura. Non fu una rivoluzione 'islamica' poiché vi parteciparono forze e organizzazioni politiche liberali, marxiste e socialiste assieme a un ampio spettro di classi sociali. Come in altre rivolte precedenti (la cosiddetta Rivoluzione costituzionale del 1905-1911), il 'clero' sciita dal 1977 si era schierato dalla parte della popolazione contro M. Riẓā Pahlavī, infiammato dal messaggio dell'āyatollāh R. Khomeini (H̱omeynī), che era stato costretto all'esilio (prima in Turchia, poi in ̔Irāq, infine in Francia) dallo šāh. Il clero, a differenza delle forze politiche e popolari scese in campo, aveva un'organizzazione capillare sul territorio rappresentata dalle moschee e dalle scuole religiose e un disegno politico chiaro che Khomeini esplicitò una volta tornato in Irān il 2 febbraio 1979. Si trattava della dottrina del velāyet-e faqīh (governo del giurista-teologo) in base alla quale l'unica autorità che avesse il diritto a governare era quella religiosa. Sebbene infatti la neonata Repubblica islamica dell'Irān si fosse dotata di una costituzione e di istituzioni di stampo occidentale (un parlamento, regolari elezioni) tutta l'ingegneria istituzionale, giudiziario compreso, era - ed è - sotto il controllo della Guida della Rivoluzione (fino al 1989, anno della sua morte, lo stesso Khomeini, in seguito l'āyatollāh A. H̱āmene̓ī); il parlamento doveva e deve sottoporre le leggi approvate a un Consiglio dei Guardiani che ne verifica la compatibilità con la legge santa islamica, trasformando la Repubblica in una sorta di monarchia teocratica sciita. Questa svolta radicale in senso islamico della rivoluzione venne favorita dalla guerra che l'Irāq di Ḥusayn dichiarò all'Irān nel 1980. Nelle intenzioni di Ḥusayn, la vittoria sul Paese vicino doveva essere facile e veloce: l'Irān era sull'orlo di una guerra civile, il suo esercito era allo sbando - falcidiato dai processi dei Tribunali rivoluzionari - e soprattutto il Paese era totalmente isolato sullo scenario internazionale dopo che nel novembre del 1979 giovani universitari avevano assaltato l'ambasciata americana a Teherān e ne avevano preso in ostaggio il corpo diplomatico. Gli Stati Uniti, già alleati dello šāh Pahlavī, avevano decretato un embargo sul petrolio iraniano e sospeso, oltre alle relazioni diplomatiche, anche le forniture di armi e pezzi di ricambio. Il calcolo di Ḥusayn si rivelò però totalmente sbagliato. La guerra durò dal 1980 al 1988 ed entrambi i Paesi ne uscirono stremati con un milione di morti l'Irān, 350.000 l'Irāq. Ma mentre Khomeini aveva usato l'emergenza del conflitto per compattare il Paese sotto la sua guida carismatica ed eliminare dalla scena politica tutte le forze che assieme al clero sciita avevano dato vita alla rivoluzione, Ḥusayn si ritrovò a gestire una semisconfitta con un esercito di un milione di uomini (tra effettivi regolari e milizie popolari) che avrebbe potuto detronizzarlo e soprattutto con un debito astronomico contratto con i Paesi arabi, Arabia Saudita e Kuwait in testa. Riyāḍ e Kuwait City rifiutarono di condonare il debito di Baghdād e soprattutto rifiutarono di limitare la propria produzione petrolifera per consentire un rialzo del prezzo del greggio, come chiedeva insistentemente Ḥusayn per far fronte alle enormi spese della ricostruzione. Così il 2 agosto 1990 Ḥusayn decise di invadere il Kuwait e di ammassare truppe sul confine tra ̔Irāq e Arabia Saudita che, temendo a sua volta un'invasione, chiese aiuto all'alleato americano. Per poter consentire a 'truppe infedeli' di stazionare nel regno, re Fahd fu costretto a chiedere una fatwā (cioè un parere giuridico) al clero sunnita wahhabita che la concesse: un atto che avrebbe avuto gravi conseguenze negli anni a venire. Fino al 1989 (anno del ritiro dell'esercito sovietico dall'Afghānistān), l'Arabia Saudita era infatti riuscita a 'dirottare' verso l'Afghānistān la minaccia alla propria stabilità rappresentata dal crescente islamismo radicale dei giovani sauditi (e di tutti i Paesi musulmani sunniti) finanziando il Ǧihād afghano contro l'URSS, che - nei suoi disegni - doveva servire anche a bloccare l'esportazione della rivoluzione khomeinista nella Umma islamica, nonché a dar man forte agli Stati Uniti nel loro braccio di ferro con l'Unione Sovietica. Con il crollo del muro di Berlino nel 1989 e il ritiro dell'Armata rossa dall'Afghānistān - preludio della fine della guerra fredda che sarebbe avvenuta con la dissoluzione dell'URSS nel 1991 - le forze islamiste radicali cresciute nella guerra afghana, e organizzate da al-Qā̔ida e da U. ibn Lādin, individuarono il nuovo nemico da combattere negli Stati Uniti e nei regimi arabi loro alleati in M. O., tanto più se - come l'Arabia Saudita - si macchiavano di un peccato d'apostasia così grave come quello di permettere che 'truppe di infedeli' calpestassero il sacro suolo dell'Islam. Il primo attentato dei gihadisti afghani contro il World Trade Center di New York è del 1993, cui sarebbero seguiti gli attentati alle ambasciate americane di Dār al-Salām e Nairobi del 1998 e l'abbattimento delle Twin Towers nonché l'attentato al Pentagono dell'11 settembre 2001. Il Ǧihād afghano e la fine della guerra fredda ebbero peraltro pesanti conseguenze in molti Paesi arabi e musulmani. Mentre l'Afghānistān cadeva preda di una feroce guerra civile tra le forze che avevano dato vita alla resistenza contro l'occupazione sovietica e che solo la guerra santa contro l'invasore aveva saputo unire sotto una stessa bandiera, molti gihadisti tornarono in patria per tentare di creare nei Paesi d'origine un vero Stato islamico. L'episodio più sanguinoso fu la guerra civile scoppiata in Algeria dal 1992 al 1999 dove il ritorno in patria dei combattenti dell'Afghānistān impresse una svolta cruentissima alla guerriglia che il Fronte islamico di salvezza (FIS) aveva iniziato nel 1992 contro l'esercito che nello stesso anno aveva invalidato le elezioni regolarmente vinte dal FIS e aveva attuato un golpe militare.
Quando il presidente americano G. Bush Sr si fece paladino della liberazione del Kuwait nel 1991, raccogliendo sotto la bandiera ONU una coalizione armata di dimensioni planetarie, era convinto che a livello internazionale si aprisse una nuova era di pace di cui gli Stati Uniti sarebbero stati i benevoli guardiani. Liberato il Kuwait con l'operazione Desert Storm e sconfitto Ḥusayn (che non venne però detronizzato, ma soltanto 'ridimensionato' anche in virtù del pesante embargo multilaterale sancito già l'anno precedente dalle Nazioni Unite), Bush Sr decise di affrontare quella che a suo parere era la vera matrice di tutta la conflittualità mediorientale: la guerra arabo-israeliana. Nell'autunno del 1991, convocò così, con il beneplacito di un'Unione Sovietica già avviata alla dissoluzione, la Conferenza di Madrid che pose per la prima volta gli uni di fronte agli altri i contendenti di sempre: Israele e i suoi vicini arabi. Dal 1987 era scoppiata proprio nei territori occupati da Israele la prima intifāḍa che aveva evidenziato una leadership del tutto nuova rispetto a quella del passato.
Tra le forze che avevano dato vita alla sollevazione, due in modo particolare si erano distinte per la novità che rappresentavano: la Ǧihād islamica e Ḥamās (Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, Movimento della resistenza islamica) che, nel 1988 (quando ̔Arafāt capitalizzò il favore internazionale per la causa palestinese suscitato dalla prima intifāḍa riconoscendo il diritto all'esistenza dello Stato israeliano), rimasero votate al più netto rifiuto di Israele all'insegna dell'Islam radicale. Dal canto suo ̔Arafāt era poi ripiombato nell'isolamento internazionale dopo essersi schierato al fianco di Ḥusayn nella guerra del Golfo del 1991 e per lui e la sua OLP la Conferenza di Madrid rappresentò comunque una grande occasione storica. Quando, infatti, alle elezioni israeliane del 1992 vinse il Partito laburista e divenne premier Y. Rabin iniziarono, direttamente tra Israele e l'OLP, negoziati segreti a Oslo che il 13 settembre1993 vennero coronati dai cosiddetti accordi di Oslo e dalla storica stretta di mano a Washington tra ̔Arafāt e Rabin sotto gli auspici del nuovo presidente americano B. Clinton. Sull'onda degli accordi di Oslo la Giordania nel 1994 sottoscrisse il secondo trattato di pace tra Israele e un Paese arabo, dopo quello tra Egitto e Israele del 1978-79, ma la vita degli accordi medesimi incontrò ben presto ostacoli insuperabili. Essi prevedevano che nell'arco di cinque anni, dal 1993 al 1999, dovesse nascere uno Stato palestinese sui territori che gradualmente Israele avrebbe restituito all'Autorità nazionale palestinese (ANP) creata ad hoc. Si iniziò con l'avvio della fase di autonomia nella Striscia di Gaza e nell'enclave di Gerico, in Cisgiordania, ma l'assassinio di Rabin - il 4 novembre 1995 - per mano di un fondamentalista ebraico, segnò l'inizio della fine. Il suo successore, eletto nel 1996, B. Netanyahu, della destra del partito Likud, rallentò la restituzione dei territori e non fece nulla per frenare la colonizzazione ebraica sulle terre che avrebbero dovuto essere restituite ai palestinesi. L'atto finale degli accordi di Oslo fu il vertice di Camp David dell'estate 2000 dove ̔Arafāt (eletto nel 1996 alla presidenza dell'Autorità) e il nuovo premier israeliano, il laburista E. Barak, con la mediazione di Clinton, tentarono invano di evitare il totale fallimento del negoziato, rinfacciandosene poi l'un l'altro la responsabilità. Fu l'esito negativo del vertice di Camp David a scatenare la seconda intifāḍa, scoppiata il 28 settembre successivo dopo una passeggiata nella Spianata delle moschee di Gerusalemme Est di A. Sharon, allora segretario del Likud. La nuova insurrezione era stata già pianificata prima della fatidica passeggiata o fu realmente una reazione spontanea dei palestinesi a un atto che percepirono come una provocazione? Le interpretazioni in merito sono ancora discordanti, ma anche nel caso in cui ̔Arafāt avesse pianificato la seconda intifāḍa nell'illusione di controllarla, per ripresentarsi poi - più forte - al tavolo dei negoziati con gli israeliani, il suo calcolo si sarebbe rivelato sbagliato. Alle elezioni israeliane del febbraio 2001 venne eletto premier l'ex generale Sharon che rispose con una repressione durissima arrivando a fare rioccupare dall'esercito terre già restituite ai palestinesi, a legittimare omicidi mirati di leader palestinesi e imporre posti di blocco capillari per impedire l'accesso indiscriminato di palestinesi in Israele. Il suo scopo era quello di prevenire gli attacchi terroristici che kamikaze della Ǧihād islamica, di Ḥamās e delle Brigate martiri di al-Aqṣā (afferente al partito di ̔Arafāt, al-Fatāh) compivano sempre più numerosi e sanguinosi contro la popolazione civile israeliana soprattutto dopo l'11 settembre 2001.
Sebbene Ḥamās abbia sempre affermato che il suo islamismo radicale non avesse nulla a che vedere con al-Qā̔ida, la 'lotta globale al terrorismo' lanciata dal presidente americano G.W. Bush Jr all'indomani dell'attentato alle Twin Towers e al Pentagono finì per legittimare l'operato israeliano e soprattutto accrebbe nei palestinesi, e in generale nelle popolazioni arabe e musulmane, la percezione che gli Stati Uniti non si ponessero più come arbitri o mediatori del vecchio conflitto arabo-israeliano, anche se lo stesso Bush Jr tentò di presentarsi ancora come tale con il lancio della cosiddetta Road Map nel 2003 che coinvolgeva anche la Russia, l'Unione Europea e l'ONU. Morto ̔Arafāt nel novembre 2004, la politica palestinese e il futuro dei negoziati tra palestinesi e Israele sono stati letteralmente rivoluzionati dalla vittoria nelle elezioni del 25 gennaio 2006 di Ḥamās, dovuta al discredito della gestione dell'Autorità da parte della 'vecchia guardia' dell'OLP, all'esasperazione dei palestinesi per la repressione israeliana, alla capillare opera di assistenza dell'organizzazione presso la popolazione e non ultimo alla totale perdita di fiducia negli Stati Uniti dopo le guerra in Afghānistān (2001) e quella in ̔Irāq (dal 2003) sulle quali l'amministrazione americana ha impostato la lotta globale al terrorismo islamico.
La guerra contro l'Afghānistān, scatenata dal rifiuto dei Ṭālibān di consegnare alle autorità americane Ibn Lādin e i vertici di al-Qā̔ida - ritenuti responsabili degli attentati dell'11 settembre - avvenne con il pieno consenso internazionale e dell'ONU e, nel giro di poche settimane dall'inizio delle ostilità, l'8 ottobre 2001, provocò la caduta del regime integralista salito al potere nel 1996 (data della conquista di Kābul) sulle ceneri della guerra civile afghana seguita al ritiro dell'Armata Rossa nel 1989. Il 7 dicembre 2001, dopo negoziati tra le fazioni afghane in Germania, vennero designati il nuovo governo e il nuovo presidente nella figura di H. Karzai, eletto in carica nel 2004. La sicurezza del nuovo esecutivo fin dal 2001 fu affidata a una forza multinazionale, l'ISAF (International Security Assistance Force), guidata fino al 2006 dagli Stati Uniti che hanno passato poi il comando alla NATO. Anche se ufficialmente terminata, la guerra in Afghānistān in realtà non è riuscita a stabilizzare il Paese. Né il presidente né il governo hanno il controllo del territorio e i Ṭālibān hanno intensificato attentati e azioni di guerriglia soprattutto a partire dal 2006, mentre le forze multinazionali non sono mai riuscite a catturare Ibn Lādin.
È stata invece una guerra preventiva unilaterale quella lanciata da Stati Uniti e Gran Bretagna contro l'Irāq il 19 marzo 2003. Il regime di Ḥusayn veniva erroneamente ritenuto colluso con il terrorismo islamico globale nonché impegnato nell'acquisizione di armi di distruzione di massa (nonostante le ripetute ispezioni ONU nel corso degli anni Novanta lo avessero escluso). La vittoria militare, conseguita con relativa facilità, non consegnò però il Paese né alla pace né alla prosperità. La comunità minoritaria sunnita, che aveva sempre governato l'Irāq e che costituiva la base d'appoggio di Ḥusayn, temendo ritorsioni da parte delle altre comunità irachene (quella curda e soprattutto la comunità sciita maggioritaria) innescò al tempo stesso una guerriglia contro 'l'occupazione' americana del Paese e fornì le basi per l'infiltrazione in ̔Irāq di terroristi islamici di marca sunnita e legati ad al-Qā̔ida, il cui esponente più conosciuto fu Abū Muṣ̔ab al-Zarqāwī di cui l'8 giugno 2006 fonti militari americane hanno annunciato il decesso nel corso di scontri armati. Lo scopo principale del terrorismo di marca islamica sviluppatosi in ̔Irāq dopo il 2003 era rendere ingestibile la transizione alla democrazia fortemente sostenuta dagli Stati Uniti, arrivando a progettare di innescare una vera e propria guerra civile tra sunniti e sciiti pur di raggiungere questo scopo. In uno stillicidio di attentati, vendette, ritorsioni, provocazioni, l'Irāq è comunque riuscito a dotarsi di una nuova costituzione federale, approvata con referendum il 15 ottobre del 2005, e di un nuovo parlamento, eletto il 15 dicembre successivo, in cui la maggioranza dei seggi è andata alla maggior coalizione di partiti sciiti: l'Alleanza irachena unita. La stabilità e dunque la governabilità del Paese è comunque ancora molto lontana e dipenderà in gran parte anche dall'atteggiamento di altri Paesi della regione, primi fra tutti l'Irān e la Siria che - con l'Irāq e la Corea - erano stati indicati dal presidente Bush Jr come "Stati canaglia" all'indomani degli attentati dell'11 settembre 2001. L'Irān soprattutto, dopo l'elezione alla presidenza di M. Aḥmadīnejād nel 2005, ha reagito alle accuse americane con una strategia aggressiva la cui arma di punta è stata e continua a essere la minaccia rappresentata dal suo programma nucleare. Tale aggressività - fatta di rinnovate minacce nei confronti di Israele e di un atteggiamento perlomeno ambiguo nella lotta al terrorismo globale - ha anche la funzione, tutta interna, di ricompattare attorno al regime il consenso della popolazione iraniana, che è ormai molto critica nei confronti della rivoluzione. Ugualmente funzionale al consenso interno, ma anche strategicamente importante anche ai fini della 'esportazione della rivoluzione' è infine l'appoggio incondizionato che l'Irān continua a garantire agli ḥezbollāh libanesi e ad Ḥamās in Palestina. Proprio dalle difficoltà che Ḥamās ha incontrato nel governo dell'ANP dopo aver vinto le elezioni del 25 gennaio 2006 è nato il casus belli che ha scatenato l'ultimo conflitto mediorientale nell'estate del 2006. Il rifiuto di Ḥamās di riconoscere il diritto all'esistenza dello Stato di Israele ha portato al congelamento degli aiuti internazionali destinati all'ANP e di cui l'ANP ha sempre vissuto. Già prostrata da sei anni di intifāḍa e dalla repressione israeliana, la società palestinese è arrivata sull'orlo della guerra civile, con scontri sempre più accentuati tra sostenitori di Ḥamās e sostenitori di al-Fatāh, e con una moltiplicazione degli atti di aggressione contro Israele sotto forma di lanci di razzi artigianali contro le città e gli insediamenti israeliani e rapimento di militari appartenenti all'esercito israeliano. Sull'onda del rapimento di un soldato israeliano avvenuto a Gaza il 25 giugno 2006, gli ḥezbollāh libanesi hanno deciso a loro volta di attaccare l'esercito di Israele lungo il confine settentrionale, arrivando il 12 luglio successivo ad aggredire una pattuglia e a rapire altri due militari israeliani. Il governo di Olmert, sentendosi minacciato su due fronti, il 14 luglio, ha deciso di passare al contrattacco bombardando pesantemente il Libano e arrivando a invaderlo per la seconda volta. In risposta gli ḥezbollāh hanno bombardato con razzi le periferie di grosse città come Ḥaifā e Tel Aviv. La situazione di stallo che si è venuta a creare sul terreno è stata temporaneamente risolta dalla risoluzione nr. 1701 dell'ONU, votata l'11 agosto, in base alla quale a garantire il confine tra Israele e Libano si prevede venga insediata una Forza di pace multinazionale che affianchi l'esercito libanese. Anche se Israele non è uscito militarmente sconfitto dall'ultimo conflitto in Libano, la sua aura di 'invincibilità' ne risultava scossa mentre il vero vincitore sul terreno risultava il leader ḥezbollāh, H. Naṣrallāh.
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