Medioevo e modernità: le diverse fondazioni di due civiltà giuridiche
Quando cominciò a fiorire, alla fine dell'11° sec., diramandosi poi da Bologna per mezza Europa, una riflessione giuridica ormai degna del nome augusto di scienza, era da più di sei secoli che, lentamente ma progressivamente, si diffondeva e si radicava quel complesso di valori e di scelte fondamentali che siamo soliti chiamare esperienza giuridica medievale. Nelle spire di una società interamente agro-silvo-pastorale – dallo sviluppo tanto lento da farla apparire statica – si era consolidata una civiltà dove non contava il singolo individuo ma le tante comunità che lo proteggevano e in cui quello era costretto a inserirsi, dove era centrale una natura avvertita come realtà che giganteggia con i suoi fatti primordiali estremamente incisivi sulla dimensione umana. E un intenso rei-centrismo, ossia il primato delle cose sui soggetti, dominava indiscusso nella psicologia collettiva.
Era una civiltà comunitaria, ma particolaristica, che impediva al potere politico di assumere un aspetto totalizzante, omnicomprensivo. Insomma, una civiltà senza Stato, dove il diritto esprimeva senza condizionamenti dall’alto gli interessi circolanti nel magma sociale e li ordinava e li disciplinava grazie al contributo, non già di legislatori e sapienti ma di umili operatori immersi nella prassi quotidiana: il giudice e, soprattutto, il notaio; i quali erano gli interpreti fedeli di quanto le stesse comunità locali andavano via via osservando e trasformando in consuetudini.
Il diritto si connotava per la sua fattualità, si adeguava ai fatti fenomenici, economici, sociali e su questi si modellava senza pretendere di governarli ma subendoli come portatori di forze indominabili. Lontano dalle raffinatezze culturali e tecniche del diritto romano classico e postclassico, il diritto di questo primo Medioevo, nella sua grossolana rozzezza, era la risposta coerente ai bisogni e alle domande della vita quotidiana. Più che di un insieme di nuovi strumenti tecnici, si deve fondatamente parlare di una nuova mentalità giuridica.
Questo spiega perché un siffatto diritto consuetudinario – originato dal basso, intriso della mentalità circolante e immedesimato in essa – recasse in sé una vitalità non transitoria. E ne abbiamo la verifica scrutando nelle trame radicali del secondo Medioevo quando, dall'11° sec. in poi, molto sembra cambiare e cambia: il paesaggio è non soltanto rurale ma anche cittadino, l’economia non è più soltanto agro-silvo-pastorale ma altresì mercantile, la fioritura universitaria denuncia una nuova acme culturale di livello altissimo, e si afferma dovunque nell’Europa occidentale una scienza robusta capace di ardite architetture teoretiche (e al cui centro si colloca primaria la scienza giuridica, maestra di corretti canoni epistemologici per tutte le altre branche scientifiche). In questo secondo Medioevo segnato da indubbie diversità, resta, però, identica la visione del diritto nel suo rapporto con i fatti: la sua fondazione è sempre consuetudinaria e intensa è la sua fattualità. Insomma, la mentalità giuridica, nelle sue essenziali fondazioni, è identica, e l’esperienza giuridica medievale si dimostra sostanzialmente unitaria anche se si scandisce nel suo lungo divenire in due momenti contrassegnati da sensibili differenziazioni. Il primo segno è che al rozzo notaio di ieri si sostituisce la riflessione scientifica di un folto coro di maestri universitari, una scienza giuridica filosoficamente sempre più nutrita nella perfetta continuità dai primi malcerti glossatori ai robustissimi commentatori del 14° secolo.
Si è detto ‘glossatori’ e ‘commentatori’, con un riferimento immediato al vecchio Corpus iuris giustinianeo che essi glossano e commentano; né deve sorprendere questo agganciarsi a un diritto lontano di almeno sei secoli e concernente una civiltà storica profondamente diversa. Persistendo per tutto il distendersi del Medioevo una concezione incompiuta del potere politico e persistendo, quindi, l'assenza dello Stato, questa scienza giuridica, questa comunità di sapienti, non avendo alle sue spalle una presenza politica autorevole a dare efficacia (magari, con il proprio apparato coattivo) alle soluzioni offerte, si rifà al lontano ma autorevolissimo diritto giustinianeo (e anche al diritto canonico che la Chiesa romana sta elaborando) per trovarvi un piedistallo formale su cui poggiare le proprie costruzioni. Vi trova sicuramente un tesoro di strumenti tecnici e un vocabolario provvedutissimo, entro i quali essa si dà cura di immettere il frutto delle proprie osservazioni sul paesaggio socio-economico medievale, arrivando perfino a sforzare il significato dei testi autorevoli invocati a protezione pur di corrispondere al proprio ruolo di giuristi medievali costruttori di un diritto adeguato ai bisogni della società medievale.
Per tutti questi motivi, non si trattò di una scienza frammentata dalle frontiere politiche dei frammentati poteri politici che si erano consolidati nel corso del tempo, bensì di una scienza a proiezione universale, un vero e proprio ius commune europaeum che si distendeva sino agli estremi confini della repubblica cristiana. E il suo marchio caratteristico fu di essere un diritto scientifico edificato da sapienti per l’intiera civiltà tardomedievale.
Con una prima necessaria notazione aggiuntiva: che l’edificio sapienziale era il frutto di una contemplazione umile della realtà cosmica e sociale, una grande opera di conoscenza tutta tesa a definire in un discorso giuridico teoricamente provvedutissimo la fitta rete di fatti consuetudinari che continuava a formare il basamento profondo anche del momento più tardo della civiltà medievale. Con una seconda necessaria notazione: che, pur avendo – come si è detto – una proiezione geografica latissima, questa coralità scientifica nasce e si sviluppa nell’Italia centro-settentrionale, trovando, nei secc. 12° e 13°, in floride formazioni universitarie italiane e in giuristi italiani le proprie leve protagonistiche. Con una terza necessaria notazione: che principi e città libere non mancano di avere una loro produzione normativa nell’ambito ristretto dei territori loro soggetti – i cosiddetti iura propria –, ma che questa produzione fu limitata e secondaria (particolarmente nel campo del diritto privato) rispetto alle costruzioni della scienza giuridica.
Il Trecento, il secolo dei ‘commentatori’ costruttori e sistematori, il secolo di Bartolo e di Baldo, è anche un momento di incrinature nell’edificio politico-giuridico medievale, dell’avvìo di una transizione verso nuove maturità di tempi. Se i giuristi, ancora nel Quattrocento, continueranno passivamente a farsi portatori di una mentalità legata a un mondo trascorso o morente; se, pertanto, la scienza giuridica italiana, nella sua maggioranza, appare quasi disarticolata dal gran ribollimento che sta investendo la società riflettendosi nella coscienza collettiva, il divenire storico, incessante, procede nell’opera di erosione del vecchio e di progettazione del nuovo.
La scienza giuridica italiana ne sarà compenetrata soltanto nei tempi lunghi, ma non v’è dubbio che comincia nel Trecento il cammino che porterà, lentamente ma progressivamente, alla modernità giuridica quale civiltà dal conio novissimo nell’Europa continentale. È qui, infatti, che, dietro a una enorme crisi strutturale intessuta, durante il Trecento, di epidemie, carestie, guerre, crisi demografica, abbandoni di terre e a una sopravvivenza umana messa sempre più a repentaglio, si fa strada un sentimento di demolitiva sfiducia nei fondamenti su cui il Medioevo si era costituito. L’affidamento a una natura materna e a una comunità integratrice e protettrice è una scelta che viene scossa dalla crisi trecentesca, e nuovi valori fondanti si profilano.
Al rei-centrismo e comunitarismo medievali si va sostituendo un antropocentrismo che punta sulla liberazione del soggetto individuo da tutte quelle incrostazioni reali e comunitarie che ne avevano impedito il libero svolgersi e il realizzarsi delle sue forze native. E la stessa riflessione filosofica sulle capacità psichiche del soggetto non manca di dare un vigoroso contributo: se i vecchi scolastici medievali (san Tommaso, in primo luogo) avevano puntato sulla razionalità quale contrassegno identificativo, facendo del soggetto un personaggio proiettato verso l’esterno e tutto teso nel gesto umile del conoscere, i nuovi indagatori colgono nella volontà, cioè nella forza psichica più autonoma, più autoreferenziale, il tratto distintivo dell’uomo. E la modernità si delinea come un colossale processo di individualizzazione a ogni livello, sia politico, sia socio-economico.
Si frantuma l’universalismo politico ed emergono realtà politiche compatte che prendono sempre più la forma di entità totalizzanti tese a controllare tutte le dimensioni della società e, fra esse, anche il diritto. Il macro-soggetto Stato si afferma ormai per una sua ingombrante presenza. Si ingigantisce anche il micro-soggetto singolo. Tipicizzato dalla sua volontà e, conseguentemente, reso fiducioso nelle sue forze e voglioso di affermare la sua dominanza sulla natura e sulla società, avrebbe trovato nel sec. 16° due straordinarie occasioni per fortificarsi nella propria individualità e insularità: la riforma religiosa, che sottrae il fedele dalle pastoie della comunità ecclesiale e lo pone in colloquio immediato con la divinità; l’assestarsi protocapitalistico dell’ordine economico, avviando la civiltà del profitto e la legittimazione di una vita destinata all’accumulo della ricchezza. I due essenziali caratteri della modernità giuridica, lo statalismo e l’individualismo, cominciano a profilarsi, sia pure in modo embrionale, già nel crinale trecentesco.
Lo storico della cultura giuridica italiana deve, però, riconoscere, come si è già accennato, che, nell’immediato, la transizione tocca scarsamente la Penisola italiana. Qui, infatti, l'estrema frammentazione politica, il permanere di una stasi economica e la massiccia influenza della preponderante Chiesa cattolica impediscono alla nuova antropologia di incidere sugli assetti consolidati e sui valori che tradizionalmente li fondavano. L’Umanesimo, così vivace e gagliardo a livello artistico e letterario, stenta a calare sul terreno conchiuso della scienza giuridica, e quei pochi giuristi che se ne fecero adepti non ebbero altra scelta che esiliarsi in terre più ospitali; soprattutto in Francia, dove è in corso, dai primi del Trecento, il processo di formazione di uno Stato nazionale, dove il re si propone sempre più nella sua veste di legislatore e dove parecchi giuristi umanisti danno mano alla consolidazione di un diritto francese all’interno del regno e guardano con simpatia alla sempre maggiore legalizzazione del diritto. Di lì a poco, il giusnaturalismo, genuina derivazione della svolta umanistica, sarà indaffaratissimo, di là delle Alpi, nel disegnare quale modello di uomo un individuo salvaguardato nel suo egoismo e nel suo inattaccabile patrimonio individuale.
Certamente, tutto questo complesso svolgimento comincia a dipanarsi in quei due secoli – il Trecento e il Quattrocento – fra Medioevo e Rinascimento; e, se in Francia, in Olanda, in Germania già nel Cinque-Seicento ha un riscontro pieno da parte della riflessione giuridica, nel clima più statico della nostra Penisola un siffatto riscontro tarderà. Solo a metà Settecento, all’interno di quel movimento di pensiero e di azione che siamo soliti chiamare Illuminismo giuridico, in una Lombardia beneficamente influenzata dalle correnti provenienti dalla Vienna di Maria Teresa, giuristi come Pietro Verri e Cesare Beccaria (o, a Modena, Ludovico Antonio Muratori) saranno araldi convinti dello statalismo giuridico moderno, sacerdoti del culto della legge, avversari acerrimi di un diritto giurisprudenziale trascinatosi per inerzia da un remoto Medioevo fino alle soglie del 1789. Ma è questo un tema che sarà affrontato da altri e in altre sezioni all’interno della presente opera.