Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fin dall’anno Mille esseri reali o fantastici adornano chiostri e cattedrali, rimandando, attraverso la loro funzione di simbolo, a una precisa verità superiore. Operando in funzione di una teoria della salvezza cristiana, fungono da monito contro il peccato che rappresentano. Tuttavia, a partire dal XII secolo, a mano a mano che il naturalismo gotico si diffonde dalla Francia all’Italia, gli scultori iniziano a osservare la realtà che li circonda con occhio diverso. E queste bestie divengono creature di un mondo favoloso che attrae e “distrae” dalla meditazione su Dio.
Lungo le otto pareti del Battistero di Parma si srotola la fascia dello zooforo, “una delle più straordinarie enciclopedie zoologico-morali di tutta la scultura medievale” (Jacques Le Goff, La decorazione pittorica, 1993). La teoria di unicorni e grifoni, sirene e centauri, arpie e ippocampi, simbolo dell’infinita varietà del mondo e della compresenza in esso di vizi e virtù, si interrompe davanti ai portali, alle spalle del neofita che entra nell’edificio per mondarsi dalle proprie colpe ed essere ammesso nella comunità dei credenti. Questa giungla impenetrabile di strane creature non si limita a una funzione estetica e decorativa ma funge da riferimento simbolico a passi biblici e dogmi teologici. Ogni animale, pietra, pianta rimanda a una complessa sovrastruttura metaforica che allude ai testi sacri e alle loro interpretazioni ed è simbolo dell’opposizione del fedele alle potenze del male, del peccato e della tentazione. La zoologia del Physiologus, enciclopedia alessandrina che assegna a ogni essere un significato simbolico e morale, e i tanti regesti elaborati su suo modello tassonomizzano minerali, vegetali, animali, popoli e paesi senza distinzione tra realtà e leggenda. Nessuno mette in dubbio l’esistenza effettiva di queste entità immaginarie o il fondamento dei testi che ne riportano le descrizioni, perché tutto rientra in una superiore simbologia allegorica.
Le enunciazioni dei bestiari, le favole esopiche, i racconti leggendari vengono messi in scena per insegnare i grandi concetti morali del cristianesimo. Le “immense enciclopedie di pietra” (Henri Focillon, Art d’Occident, 1947) che si srotolano sulle facciate delle cattedrali aiutano i fedeli a orientarsi in un intricato labirinto simbolico e insegnano loro a riconoscere, dietro ad animali quotidiani o fantastici, vizi diabolici o virtù cristiane.
Il credente implora la misericordia divina tra il suono ipnotico di litanie e preghiere, circondato dai lamenti dei flagellanti e da esseri deformi che lo osservano dall’alto di colonne e pluviali. Le creature che si sporgono dai capitelli del coro, del deambulatorio e delle cappelle della collegiata di Saint-Pierre a Chauvigny sono draghi che ingurgitano peccatori, bestie ibride che mettono in guardia l’uomo contro la sua stessa animalità e prefigurano un mondo ipogeo che attende chi non vive rettamente. La loro natura mostruosa simboleggia il maligno, il peccato, l’eresia, e il loro brulichio non va temuto in quanto tale ma perché metafora della presenza diabolica. “L’uomo medievale vive in un mondo popolato di significati, rimandi, sovrasensi, manifestazioni di Dio nelle cose, in una natura che parla continuamente un linguaggio araldico” (Umberto Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, 1987).
I motivi ai quali attingono lapicidi e scalpellini provengono da molto lontano nel tempo e nello spazio, dall’arte greca e romana, dalla tradizione barbarica e insulare, dal Vicino e dall’Estremo Oriente, ereditandone paguri barbuti e squamati grifoni. Queste tematiche, che sempre restano sottese alla cultura ufficiale fino alla loro ripresa nelle grottesche cinquecentesche e nelle opere di Hieronymus Bosch, penetrano attraverso la miniatura, la glittica o le monete nell’iconografia gotica e da essa vengono rielaborate in maniera organica e stilisticamente coerente.
Al fianco dei santi e dei profeti d’oltralpe, sulle guglie e sui pinnacoli che svettano dalle coperture delle cattedrali di Chartres, Bourges e Senlis, nei peducci delle volte, sugli archi rampanti e sui capitelli, si arrampica una fauna mostruosa, brulicano esseri deturpati da gobbe, spuntano becchi, branchie e squame. Dalla Francia e dalle regioni transalpine penetrano in Italia gli elementi slanciati e drammatici dell’architettura e della scultura monumentale, e allo stesso modo migrano nella penisola animali fantastici e grotteschi. Quel vocabolario teso ricompare, pur stemperato e riportato a proporzioni meno esasperate, nel Battistero di Parma, nel cantiere del Duomo di Milano o in quello di Orvieto al fianco di esseri fiabeschi e di invenzione.
Con il passaggio dal romanico al gotico si osservano la progressiva conquista di indipendenza della statuaria e il suo affrancamento dalla parete. Nei portali della facciata occidentale di Notre-Dame di Chartres, attorno al 1150, le sculture sono ancorate, nella loro immobile eleganza, a pesanti baldacchini e piedistalli, le braccia strette lungo il corpo a ricordare la forma cilindrica dell’originario blocco di pietra: “ogni figura vive, per così dire, entro un proprio mondo, le figure non sono in relazione l’una con l’altra o con lo spettatore” (Rudolf Wittkower, La scultura raccontata da Rudolf Wittkover, 1977). Soltanto un secolo più tardi, nei portali della facciata settentrionale e in quelli del transetto meridionale a Chartres o nella cattedrale di Notre-Dame a Reims, si assiste alla crescente emancipazione della scultura dalla parete. La colonna retrostante si ritrae e lascia alla figura umana lo spazio per dispiegare un’anatomia libera fatta di gesti fluidi e armonici, le strutture che prima sorreggevano malamente le sculture in un equilibrio precario divengono ora mensole ortogonali e piatte sulle quali i piedi poggiano comodamente. Le figure assumono dunque posizioni naturali, grazie a una distribuzione realistica dei pesi e una definizione più credibile dell’anatomia. In Italia, anche se si avverte la difficoltà a unificare scultura e architettura secondo la foggia transalpina, la migrazione dei motivi e delle maestranze resta costante soprattutto per quanto riguarda la parte ornamentale.
La conquista di autonomia da parte della scultura procede di pari passo con un naturalismo sempre più accentuato nella resa dei dettagli e nella definizione del trattamento scultoreo. Allo stesso tempo, pur scollegandosi sempre più dai valori simbolici, il mondo fantastico che popola la scultura decorativa conserva della statuaria monumentale la stessa volontà di aderenza al dato naturalistico. È proprio la verosimiglianza della restituzione formale che accentua la natura fiabesca della flora immaginaria e della fauna favolosa, in un’alternanza di dettagli plausibili e ibridazioni improbabili.
Ora questi corpi deformi interessano lo scultore, al di là del loro significato simbolico e dottrinale, per lo studio delle loro qualità formali, anatomiche, naturalistiche. Si intravede in modo sempre più realistico, sotto la tunica impalpabile della Donna che suona il corno del Duomo di Milano, una esatta distribuzione dei pesi e delle membra, mentre l’essere che ulula vicino al suo volto aristocratico è descritto minuziosamente nelle sue strane vertebre di dinosauro. E allo stesso modo centauri e sirene, delineati nella loro anatomia eterogenea di squame e muscoli con una stringente aderenza al dato reale, divengono, ora che l’artista ne studia attentamente le caratteristiche, creature davvero fantastiche perché estranee al messaggio testamentario.
Insieme a un sempre maggiore naturalismo, cambia anche lo sguardo dell’uomo: questo universo di sogno e follia possiede ora il fascino di un mondo immaginario lontano dalla quotidianità e distante dai testi sacri di cui è compendio visivo. Al gusto per il meraviglioso e il fantastico si affianca l’interesse protoscientifico per il dato reale e naturale. Queste bestie non vengono più osservate soltanto come simboli educativi o temute come simulacri del demonio. Il fedele comincia a scrutarle con curiosità e, più che essere turbato dal loro messaggio salvifico e terrorizzante a un tempo, viene svagato da queste immagini di meraviglia e viene allontanato dalla preghiera. Il monaco Bernardo da Chiaravalle denuncia, appunto, il potere di distrazione di queste figure attraenti e ornate. Ma la descrizione che ne dà è, suo malgrado, frutto di una lunga, interessata osservazione: “E nei chiostri, davanti agli occhi dei confratelli intenti alla lettura, cosa sta a fare quella ridicola mostruosità, quella strana bellezza deforme, quella bella deformità? [...] Vi è una tale sorprendente varietà di forme diverse, che ci si diletta di più a leggere sui marmi che nei libri, di più ad occupare l’intero giorno guardando ciascuna di queste cose che meditando sulla legge del Signore” (Bernardo di Chiaravalle, Apologia ad Guillelmum abbatem).
Non più funzionale all’affermazione di una dottrina e di una morale cristiana, questo mondo fantastico viene avvertito ora come un pericolo per la comunità religiosa e deve dunque essere esiliato nelle zone liminali dell’architettura e della cultura.
Nei manoscritti miniati i margini della pagina si popolano, tra la metà del XIII e il XIV secolo, di drôleries e creature immaginarie, centauri, grifoni, babbuini e lumache, poggiati sul prolungamento delle lettere come su un palcoscenico.
Ugualmente nella scultura architettonica, se le colonne sono occupate da santi, questi ibridi trovano spazio nei peducci, sui baldacchini o sotto le mensole, fanno capolino aggrappati alle grondaie, svettano fuori dalla portata dell’occhio, su guglie, capitelli o pinnacoli. Lontano, distante, dall’alto dei doccioni del Duomo di Milano, un drago afferra con i propri artigli una figura femminile. Il mostro, con la sua superficie regolare di scaglie minute, la donna con il suo umano gesto di panico e terrore, non fanno più alcun riferimento a dogmi e religione. Se all’inizio del XII secolo nel Duomo e nel Battistero di Parma gli esseri deformi sono descritti con una sintesi che denuncia la loro appartenenza a un mondo simbolico, lo scalpellino che due secoli dopo intaglia i nuovi mostri lo fa più con l’occhio dell’anatomista che del glossatore di testi sacri, ricercando l’aderenza o la distanza dei caratteri di queste bestie a quanto gli è noto.
L’artista applica alla sua umanità grottesca il medesimo approccio di Marco Polo che viaggia nell’Oriente sconosciuto e fantastico dal quale provengono i semi degli esseri immaginari che la cultura gotica ha interiorizzato e fatto suoi. In quel paese di fiaba Marco vede gli unicorni, ma il suo sguardo disincantato riconosce già, oltre l’emozione della leggenda svelata, il corno nero del rinoceronte. Questo animale è grosso quanto un elefante, ha pelo di bufalo, testa di porco selvatico e ama restare nella melma e nel fango. ““Non somiglia affatto all’idea che ne abbiamo noi, né a ciò che diciamo quando lo descriviamo come animale che si lascia prendere in braccio da una vergine: è proprio l’opposto”” (Marco Polo, Il Milione).
Il nuovo sguardo analitico dell’artista e del letterato sgretola a poco a poco, con il dubbio del suo relativismo, l’universo fantastico e meraviglioso fatto di simboli e di sovrasensi che ha caratterizzato la cultura cristiana medievale.