Medioevo: la scienza siriaca. Introduzione
Introduzione
Il siriaco è un dialetto aramaico che nel I sec. d.C. era parlato nel nord della Siria e, nell'Alta Mesopotamia, nella regione compresa tra l'odierna città di Diyarbakir e lo Khabūr, affluente dell'Eufrate. La più antica iscrizione siriaca, scoperta a Birecik nel 1907, porta la data del mese di marzo del 6 d.C. Un'altra iscrizione, incisa su una torre funeraria che ricorda quelle della cosiddetta 'valle delle tombe' di Palmira, è stata ritrovata a Serrin, un villaggio della Turchia meridionale, a est di Manbij sulla riva sinistra dell'Eufrate, a 75 km a sud-est di Urfa, l'antica Edessa. La scrittura siriaca del II e III sec. ci è nota attraverso le iscrizioni rupestri di Eski Sumatar a sud-est di Edessa, la leggenda di alcune monete e tre documenti scritti su pergamena provenienti dal medio Eufrate e risalenti all'epoca dell'imperatore Gordiano III (238-244). A questo gruppo di documenti si possono aggiungere le iscrizioni musive scoperte in alcune tombe e case private.
Questo esiguo corpus di testi mostra che già alla fine del III sec. la scrittura siriaca era ben sviluppata. In seguito, per tutta l'epoca classica che va dal III all'VIII sec., essa si è conservata senza cambiamenti. Lo studio della lingua dei testi epigrafici e, soprattutto, l'esame del contenuto giuridico delle pergamene lasciano pensare che questa stabilità della lingua, nonostante le incertezze morfologiche che ancora sussistono, sia il frutto di una società già ben strutturata all'inizio dell'Era cristiana.
I testi teologici, filosofici e scientifici scritti in questo nuovo dialetto aramaico si rivelano un capitolo fondamentale nella storia delle idee del nostro passato orientale. Questa letteratura è servita infatti da anello di congiunzione tra l'Oriente, ellenizzato ma sempre semitico, e un Occidente alla ricerca della sua identità alle soglie del Medioevo. Da un lato, essa rifletteva la ferma volontà degli intellettuali siri di chiarire il rapporto tra scienza e religione; dall'altro lato, grazie a un continuo e metodico sforzo di traduzione di testi greci in siriaco, essa facilitò la trasmissione agli Arabi delle opere di filosofia classica e, in particolare, del corpus aristotelico. Mentre i filosofi del Levante divennero prolifici commentatori, in lingua greca, di tutti i trattati aristotelici, gli ecclesiastici di lingua siriaca dedicarono, per motivi teologici, gran parte del loro tempo allo studio dell'Organon di Aristotele.
Dal IV al VII sec. gli autori siri furono coscienti delle difficoltà poste dalla traduzione in siriaco dei testi teologici greci. La polemica sulla natura di Cristo li spingeva a utilizzare nella loro lingua una terminologia che faceva capo alla logica aristotelica, che godeva di grande prestigio presso le scuole filosofiche. Inizialmente il siriaco, così come l'ebraico, il fenicio e l'arabo, non notava le vocali, ma l'esegesi biblica obbligò gli ecclesiastici a fissare il testo sacro notando le vocali e utilizzando altri segni che ne facilitassero tanto la lettura quanto la recitazione. Secondo la tradizione, è stato Teofilo di Edessa, un astrologo di Baghdad dell'VIII sec., il primo a utilizzare la notazione vocalica nella sua traduzione siriaca dell'Iliade.
Edessa ha conosciuto presto il cristianesimo, probabilmente verso la metà del II sec., ma la sua fede non fu, a quanto pare, quella della Grande Chiesa. La città infatti accettò dapprima il vangelo insegnato da Marcione di Sinope e conobbe poi la dottrina di Mani, altra grande figura religiosa giunta da Ctesifonte, nel cuore dell'Impero sasanide. Attraverso la violenza dei loro attacchi, gli scritti degli eresiologi lasciano intendere che, malgrado la vicinanza del patriarcato di Antiochia, i marcioniti e i manichei riuscirono tra il III e il IV sec. a imporre le loro dottrine a Edessa più di qualsiasi altra setta religiosa. Secondo alcuni scrittori ecclesiastici, il filosofo Bardesane (Bardayṣān, 154-222) sarebbe stato uno dei rappresentanti delle tendenze eretiche che sarebbero proliferate a Edessa. Si tratta, in realtà, di un giudizio malevolo sull'opera di Bardesane, che si è imposto nella tradizione intellettuale della regione, al punto che anche autori arabi di opere storiche o letterarie del X e XI sec. non hanno esitato a farlo proprio.
Bardesane, filosofo stoico e maestro molto stimato a Edessa, sua città natale, parlava e scriveva in siriaco. Il suo sistema filosofico ci è noto attraverso il Libro delle leggi dei paesi, opera di uno dei suoi discepoli, e un frammento della sua cosmologia trasmesso da Teodoro bar Koni (bar Kônî, VIII sec.). In quest'ultimo si rivela una concezione generale del Cosmo secondo cui l'uomo s'incamminerebbe verso la perfezione. Si tratta di un adempimento che, stando a Teodoro bar Koni, Bardesane descriveva così:
Vi sono cinque elementi che esistono di per sé per tutta l'eternità; essi erano deboli ed erranti ma infine si misero per caso in movimento. Il vento soffiò con la sua violenza, e ogni elemento strisciò e ne raggiunse un altro; il fuoco si spense nella foresta e si formò un fumo oscuro che non era nato dal fuoco, e l'aria pura si fece rarefatta. Gli elementi si mescolarono l'uno all'altro e il loro originario modo d'essere subì grave danno; iniziarono a mordersi l'un l'altro come animali feroci. Allora il loro signore inviò su essi la Parola dell'Intelligenza; diede al vento l'ordine di calmarsi, e il vento fece venire il suo soffio verso di lui. Il vento delle alture soffiò e lo scompiglio fu sottomesso con la forza e fatto precipitare nel suo stesso abisso. L'aria divenne serena, si stabilirono la calma e la serenità, il Signore fu glorificato nella sua saggezza e un'azione di grazia salì verso la sua misericordia. Dal miscuglio e dall'amalgama che rimase egli trasse tutte le creature, quelle superiori e quelle inferiori. Ed ecco che tutte le creature si sforzarono di purificarsi e di eliminare quanto era mescolato alla natura cattiva. (Pognon 1898, p. 123)
Secondo Bardesane, gli elementi non sono stati creati, ma costituivano la natura originale modellata dall'atto creatore. Egli non si è posto il problema dal punto di vista aristotelico, secondo cui la materia è inseparabile dalla sua forma. Che il mondo fisico abbia avuto per origine la combinazione di elementi fondamentali come l'aria, l'acqua, il fuoco o la terra era una dottrina antica che in Grecia risaliva al VI e V sec. a.C. La dottrina degli elementi di Bardesane s'inscrive nella tradizione di altre cosmologie orientali, ma nei suoi discorsi è presente una concezione poetica dell'origine del mondo. Per meglio colpire l'immaginazione dei suoi discepoli, egli sembra persino ricorrere al vocabolario della mitologia: dall'unione del Padre della Vita con la Materia, che svolge il ruolo di madre, sono nati la Luce e lo Spirito Santo, e dall'unione incestuosa della Luce e dello Spirito sono nate "le parti vergognose dell'aridità" e "l'immagine delle acque", ossia il Fuoco e l'Acqua. Efrem (303 ca.-373) attribuisce a Bardesane una dottrina più esplicita sulla natura del Padre e della Madre. Essi sono il Sole e la Luna: la Luna era "la terra, un seno pieno di flutti sublimi" (Hymnen contra haereses, par. 55, 10).
Bardesane spiega come si comportano cielo e Terra. La saggezza divina creò il mondo dando a ciascun essere un 'potere' adeguato:
Io sostengo che questo potere si trova in Dio, negli Angeli, nelle Potenze, nei Governatori [cioè nei pianeti], negli elementi, negli uomini e negli animali, ma esso non è stato dato nello stesso modo a tutte le categorie che ho appena menzionato: l'Uno soltanto ha il potere su tutto, mentre queste categorie hanno potere su alcune cose e non su altre. (Liber legum regionum, pp. 568-569)
Con questo testo, Bardesane ammette l'esistenza di un destino ‒ poiché è chiaro che "non tutto giunge secondo la nostra volontà" ‒ il quale però è limitato, perché tale è il potere dei pianeti. Diciamo dunque, con Bardesane, che noi tutti siamo uguali secondo la natura, che ci differenziamo gli uni dagli altri in virtù del destino e che la nostra libertà ci permette di fare ciò che vogliamo. Questo testo è un buon esempio dell'ambiguità della dottrina stoica: vi è libero arbitrio ma non si sfugge a un certo determinismo. Bardesane vuol essere più preciso e si interroga sul destino: "Quel che chiamiamo destino è il concatenamento [teksa] del corso imposto da Dio alle Potenze e agli elementi. Seguendo questo corso e questo concatenamento, le intelligenze cambiano quando discendono nelle anime e le anime cambiano a loro volta quando discendono nel corpo" (ibidem, pp. 572-573).
Bardesane non spiega da dove discendono le anime. Poco più di cinquant'anni dopo di lui, un testo di Giamblico avrebbe riassunto le diverse opinioni dei filosofi a questo proposito. Le 'intelligenze' che discendono, di cui parla Bardesane, sono le 'sostanze intellettuali' dei filosofi neoplatonici del secolo successivo. Troviamo in questo filosofo un'idea familiare al sincretismo della sua epoca: gli astri godono di libertà e se ne servono. Vi sono astri buoni, quelli a 'destra', e astri cattivi, quelli a 'sinistra'; la loro buona o cattiva influenza sulla vita degli uomini, degli animali e delle piante si manifesta soltanto quando essi si trovano "al punto più alto della sfera, ovvero nella zona che è loro propria" (pp. 576-577). Nell'ultimo giorno si chiederà loro conto di questa poca libertà che possiedono.
L'interesse di Bardesane per l'etnografia si manifesta più volte nel Libro delle leggi dei paesi, ove vengono descritte usanze di vari popoli. Inoltre da un frammento del De Styge di Porfirio (conservato da Stobeo, Antologia, I, III, 56) sappiamo che Bardesane aveva scritto sugli Indiani (gimnosofisti), su "un lago detto d'ordalia" situato in India e su certe leggende cosmologiche riguardanti l'esistenza di una grotta in una montagna al centro della Terra. Tutte queste informazioni gli erano state fornite dagli ambasciatori indiani incontrati in Siria.
Stando alla testimonianza dei suoi contemporanei, Bardesane fu un autore prolifico di poemi che il popolo imparava e cantava in chiesa e per le strade, ma che l'autorità ecclesiastica non apprezzava. Basandosi sul suo insegnamento orale e sulle sue composizioni popolari, gli eresiologi siri faranno di lui l'istigatore delle molte tendenze eretiche in voga nell'Edessa del III e del IV secolo. Secondo Efrem, Bardesane sarebbe stato maestro di Mani. Efrem è sempre presentato come nemico accanito di Bardesane nella letteratura teologica in lingua siriaca e nella tradizione greca che sono confluite nell'opera di storici come Sozomeno e Teodoreto. Nei suoi inni, Efrem non manca di attaccare le idee di Bardesane quando fustiga quelle di Marcione e di Mani, pur ammettendo che la sua dottrina era in parte diversa da quella degli altri due. Maruta di Maiferqat (Mârûṯâ di Mayp̄erqaṭ, IV-V sec.), che fu contemporaneo di Efrem, afferma che i bardesaniti
credono nell'esistenza del Bene e del Male, nel Genio della Fortuna, negli oracoli e nelle costellazioni (come dicono i Manichei), e così, riverendo i Sette (pianeti) e i Dodici (segni dello Zodiaco), tolgono al Creatore il suo potere di governare il mondo. Essi dicono che la libertà non esiste nell'uomo e vilipendono la resurrezione del corpo, come i Marcioniti e i Manichei. Si vestono di bianco perché sostengono che chi si veste di bianco partecipa del Bene, mentre chi si veste di nero partecipa del Male. (Rahmani 1909, pp. 98-103)
Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica presenta in altro modo la personalità di Bardesane:
1. Bardesane, uomo abilissimo e grande dialettico in siriaco, compose, oltre a molte altre opere, dei dialoghi contro i seguaci di Marcione e i capi di altre sette, redigendoli nella propria lingua e scrittura. I suoi discepoli (erano numerosi a causa della sua abilità oratoria) li hanno poi tradotti dal siriaco. 2. Tra essi v'è anche il suo efficacissimo dialogo ad Antonino Sul fato [G. Bardy ritiene che il destinatario sia stato Caracalla o Eliogabalo; sarebbe però ben strano che un autore siro abbia dedicato a un imperatore un libro in siriaco], e si dice che scrisse molte altre opere, prendendo spunto dalla persecuzione di allora. 3. Appartenne prima alla setta dei Valentiniani, che in seguito condannò, rigettando molte delle sue favole e credendo così di essere rientrato nell'ortodossia, mentre in realtà non cancellò mai completamente la sozzura dell'antica eresia. (IV, 30)
L'informazione, inesatta, di Eusebio su un Bardesane 'valentiniano' deve provenire da una fonte greca. Nel Libro delle leggi dei paesi, compilato dopo la sua morte, Bardesane non si rivela come uomo religioso ma come filosofo del suo tempo, cosa che può aver fatto ritenere ad alcuni studiosi che egli non fosse neppure cristiano. Se ciò fosse vero i suoi nemici non lo avrebbero attaccato come eretico, ma il fatto di presentarlo come proveniente da una famiglia di sacerdoti pagani può essere stato un modo di oltraggiare la memoria sua e quella dei suoi discepoli. Egli ebbe certamente avversari tra i cristiani della sua epoca e i suoi allievi furono duramente criticati, se non perseguitati, da Rabbula (Rabbûlā, m. 435), vescovo di Edessa. Le critiche di Efrem e di Rabbula rivelano che Bardesane aveva una personalità indipendente, e l'ostilità dei suoi avversari mostra che le posizioni filosofiche dell'una e dell'altra parte erano inconciliabili.
Una tradizione letteraria fa di Efrem il fondatore della Scuola di Edessa nel 363, allorché egli dovette lasciare Nisibi dopo che l'imperatore Gioviano aveva abbandonato ai Persiani l'Armenia e le province della Mesopotamia. Questa tradizione è trasmessa da Barhadbeshabba (Barḥaḏbǝšabbā), vescovo di Halwan (Ḥalwān) nel VI sec., nella sua Causa della fondazione delle scuole. Malgrado quanto afferma l'autore siro, non è certo che Efrem sia stato il fondatore della Scuola di Edessa. Quando giunse nella città, dopo aver insegnato a Nisibi, egli poté senz'altro partecipare alle attività di una scuola biblica già esistente, svolgendo un ruolo indubbiamente importante nell'incremento dei suoi curricula di studio; tuttavia, il carattere religioso dell'istituzione la faceva dipendere dall'autorità del vescovo di Edessa piuttosto che da un semplice ecclesiastico come Efrem. Presso la scuola egli commentò le Scritture e il suo metodo di esegesi fu, secondo Barhadbeshabba, 'normativo', ossia rimase come regola sino all'arrivo di Qiore (Qiyôrē). Poiché l'interprete ufficiale delle Scritture, stando a Barhadbeshabba, era Teodoro di Mopsuestia (350 ca. - 428), i suoi libri dovevano essere tradotti dal greco in siriaco per gli allievi della scuola e il traduttore fu Qiore (prima metà del V sec.), maestro della scuola. Altri storici affermano invece che si trattava di Ibas (m. 475). La notizia di Barhadbeshabba su Qiore è preziosa perché c'informa sul punto di partenza di un'intera corrente di pensiero, nella quale gli autori siri compaiono a pieno titolo come continuatori della filosofia greca prima dell'arrivo dell'Islam.
La vita intellettuale nella città di Edessa è cresciuta all'ombra di Antiochia da dove giungevano non soltanto le misure disciplinari, ma anche i commentari biblici in greco di Teodoro di Mopsuestia.
L'importanza dell'opera esegetica di quest'ultimo nella crescita intellettuale della scuola non va trascurata. Discepolo di Libanio, eminente uomo di lettere, Teodoro era divenuto prete e poi vescovo sotto il patronato di Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli. Ad Antiochia fu maestro di Nestorio. Centoventicinque anni dopo la morte, Teodoro fu condannato insieme al suo maestro Diodoro di Tarso, entrambi sospettati di nestorianesimo ante litteram. In quanto esegeta, Teodoro aveva sottoposto il testo biblico a un esame critico meticoloso; Barhadbeshabba ha lasciato nel suo libro Causa della fondazione delle scuole una valutazione dell'importanza di questo procedimento nuovo per la Scuola di Edessa, dove in precedenza le Scritture erano spiegate soltanto secondo l'insegnamento impartito da Efrem.
Dopo Qiore, il maestro della scuola fu Narsai (m. 503 ca.). Secondo Barhadbeshabba, egli avrebbe posto alcune condizioni prima di accettare quella posizione. Dichiarò infatti all'assemblea: "Se nominate un maestro di lettura e un altro di compitazione, io potrò forse occuparmi dell'interpretazione". La proposta venne accettata dai suoi elettori e Narsai rimase a capo della scuola per vent'anni, "facendo tutti i giorni dei commentari accompagnati da canto" (Barhadbeshabba, p. 383).
Insieme ai commentari di Teodoro dovettero giungere a Edessa gli scritti di Aristotele e di Porfirio. Introdotti e successivamente tradotti in siriaco, questi scritti costituirono il programma di studi della famosa scuola per alcune generazioni di intellettuali. È in questo periodo che Giacomo di Edessa (633-708) colloca l'introduzione delle Categorie aristoteliche nella Scuola ove "i filosofi stranieri", e cioè greci, furono riconosciuti come veri maestri. Il siriaco fu influenzato molto dal greco, desumendone un gran numero di parole nuove; questo fenomeno ebbe notevoli conseguenze per lo sviluppo culturale della Siria del Nord e dell'Alta Mesopotamia. Anche le polemiche teologiche che hanno turbato la vita religiosa dei primi secoli del cristianesimo si sono svolte in greco. Vescovi e teologi si videro obbligati a utilizzare una terminologia che dipendeva strettamente dalla logica aristotelica.
Alla fine del III sec., Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica descrive gli errori di Paolo di Samosata affermando semplicemente che egli aveva ridotto la natura di Cristo a quella di uomo "comune" (Koinoũ tḕn phýsin anthrṓpou, VII, 27, 2). Un secolo e mezzo più tardi, le nozioni filosofiche di 'persona' e 'natura' erano impiegate regolarmente dai teologi per definire la persona del Cristo, sollevando sottili dibattiti le cui conseguenze per la storia del Vicino Oriente cristiano sono ben note. Si è giustamente notato che Giovanni Filopono, il commentatore di Aristotele presso la Scuola di Alessandria nel VI sec., con il saggio intitolato L'arbitro o sull'unione aveva voluto prestare ai teologi i suoi servizi di logico per chiarire la terminologia greca usata nelle loro dispute. Siriano, maestro della Scuola neoplatonica di Atene nella prima metà del V sec., aveva infatti ricordato che compito precipuo del logico è controllare quanto si dice e non decidere quale sia la verità da accettare.
Per i vescovi di lingua siriaca, le dispute cristologiche ponevano una difficoltà in più in quanto non sempre le nozioni greche della chiesa trovavano l'equivalente nel vocabolario siriaco. Maruta di Maiferqat preparò nel 410 un lessico di termini greci con le corrispondenze siriache per facilitare il lavoro dei vescovi persiani riuniti a Seleucia-Ctesifonte. Questa misura pedagogica, mezzo secolo dopo il trattato del 363 firmato dall'imperatore romano Gioviano e dal re persiano Shapur II (Šāpūr), mette in rilievo l'importanza del siriaco in territorio sasanide insieme, beninteso, all'indipendenza culturale della Chiesa mesopotamica di fronte all'Antiochia bizantina. Quel primo saggio lessicografico aprì senza dubbio la strada a ulteriori ricerche. Nel VI sec., la fioritura di filosofi di lingua siriaca nella Chiesa dell'Osroene può spiegarsi con la preoccupazione dei suoi ecclesiastici di assumere una posizione politica e religiosa nei confronti del Concilio di Efeso del 431.
Il commento di Proba (Prôḇā, attivo nel VI sec.) al De interpretatione di Aristotele potrebbe essere uno dei primi trattati di filosofia aristotelica in siriaco. Dopo di lui, Sergio di Reshaina (Rêš῾aynā) si fa notare per opere che riguardano i diversi ambiti del sapere: medico, storico, filosofico e letterario; in particolare nel campo della filosofia egli riprese e completò i lavori della Scuola di Edessa. La conoscenza di Aristotele divenne indispensabile agli scrittori siri; elemento determinante di qualsiasi studio, l'Organon trovò posto tanto nella scuola quanto nella Chiesa, poiché aiutava a fissare la lingua letteraria dandole regole di ortografia e rigore di sintassi, strumenti che si dimostrarono indispensabili per qualsiasi definizione teologica. Nel V e nel VI sec., nella congiuntura politica del Vicino Oriente cristiano la lingua siriaca acquisì una dimensione nuova quando i suoi utenti ‒ cristiani ‒ riuscirono a creare un vocabolario filosofico.
Nisibi è stata un centro di sapere filosofico e di cultura siriaca rinomato alla pari di Edessa e come questa era stata sottoposta alle trasformazioni della politica di conquista dei Seleucidi e dei Romani. Una volta convertita al cristianesimo, essa divenne subito un centro d'insegnamento di teologia e di esegesi biblica. Le informazioni che possediamo su Nisibi per la prima parte del V sec. si concentrano sulla personalità di Barsauma (Barṣawmā di Nisibi, m. 458). Tutto fa pensare che, dopo la ritirata dell'esercito romano nel 363, le strutture ufficiali della Chiesa a est dell'Impero romano, ormai sotto l'autorità dei Sasanidi, rimasero quasi intatte e che la successione dei vescovi di Nisibi non s'interruppe. Barsauma aveva studiato alla Scuola di Edessa e nel 435 divenne vescovo della città di Nisibi. La sua erudizione e il suo prestigio gli valsero il favore di Peroz (Pērōz, re della dinastia dei Sasanidi che regnò dal 459 al 484), tanto più che egli svolse spesso un ruolo di mediatore ai confini dell'Impero sasanide di fronte ai territori posti sotto il dominio romano. Di lingua siriaca, queste molteplici attività diplomatiche lo mostrano in grado di padroneggiare il persiano e il greco. La fondazione della Scuola nestoriana di Nisibi può essere ritenuta la più notevole impresa politica e letteraria di questa singolare figura della Chiesa persiana. Quando il trionfo dei monofisiti a Edessa obbligò Narsai, il grande esegeta biblico, a partire, Barsauma lo accolse a Nisibi permettendogli di dirigere la sua scuola, compito che Narsai svolse per molti anni. Gli studi grammaticali acquisirono particolare importanza, come ci fa capire l'opera di Giuseppe Huzaya (Yāwsep Hûzāyā, prima metà del VI sec.), un allievo di Narsai che nella sua qualità di maqrǝyānā, ovvero di 'lettore', sembra essere stato il primo a scrivere una grammatica siriaca, che era un adattamento di quella di Dionisio Trace. Il suo lavoro diminuiva le distanze esistenti tra la lingua vernacolare e la lingua letteraria, che era quella della Chiesa. Nel VI sec., il prestigioso Mar Aba (Mār Āḇā) affermava di essere allievo della Scuola di Nisibi. Egli era un uomo di grande cultura che apprese il greco a Edessa e si convertì dallo zoroastrismo, divenendo katholikòs (era questo il titolo col quale, a partire dal V sec., si designavano i capi di alcune chiese orientali staccatesi dal patriarcato di Antiochia) della Chiesa persiana tra il 540 e il 552.
La Scuola di Nisibi fu importante quanto quella di Alessandria e svolse un ruolo essenziale nella diffusione della cultura ellenistica anche in Occidente. Barhadbeshabba ha riassunto così questo avvenimento del mondo delle lettere siriache: "Nell'impero dei Persiani le scuole si moltiplicarono; Edessa si oscurò, Nisibi si illuminò; l'impero dei Romani si riempì di errore, quello dei Persiani della conoscenza del timor di Dio" (Barhadbeshabba, p. 386). Non è possibile dargli torto se si pensa alla risonanza di cui la scuola godette durante il Medioevo in Occidente. La reputazione di questo centro della grande cultura biblica e filosofica giunse sino al cuore dell'Impero d'Occidente. Aurelio Cassiodoro, uomo di Stato e scrittore romano nato in Calabria verso il 490, si ritirò dalla vita politica (aveva ricoperto importanti cariche sotto Teodorico e sotto Atalarico) e fondò nella sua terra natale, nei pressi di Squillace, il monastero di Vivarium, che ebbe grande reputazione come luogo di studio e di scrittura. È lo stesso Cassiodoro a informarci di aver chiesto al papa Agapito di creare a Vivarium una scuola come quella di Nisibi, da lui visitata durante un breve soggiorno nel nord della Mesopotamia. Un altro esempio dell'interesse che gli occidentali manifestarono per la Scuola di Nisibi è fornito da Giunilio Africano, un contemporaneo di Cassiodoro. Seguendo il consiglio del vescovo africano Promisius, egli scrisse un manuale intitolato Instituta regularia divinae legis, che altro non era se non la traduzione dell'opera del metropolita Paolo di Nisibi sulle istituzioni. Per gli intellettuali occidentali, porsi sotto l'influenza dell'Oriente era un mezzo per rimediare alla decadenza culturale dell'Occidente latino.
Nel XIII sec., Abū'l-Faraǧ, detto Barebreo (1226-1286), medico, poligrafo di grande erudizione e patriarca, scrisse in siriaco Il candelabro dei santuari, una storia della cosmologia a partire dal VII sec. a.C.
Gli antichi ‒ egli scrive ‒ hanno avuto molteplici e diverse opinioni sulla natura dell'universo. Uno di loro ha posto l'acqua come principio mobile, tale Talete di Mileto che per primo ha inventato la filosofia, avendo visto che tutti gli animali nascono dall'umidità spermatica e se ne nutrono, che le piante crescono in essa e che nei vapori caldi si sviluppano il fuoco, il Sole e le stelle. Anche il poeta Omero ha cantato in modo simile quando ha denominato l'Oceano e Teti mare e umidità, genitori degli esseri. Altri hanno posto l'aria, come Anassimene e Diogene. Essi hanno detto, infatti, che l'anima di tutto ciò che vive si conserva nell'aria, e che vento e aria conservano questo mondo. Altri, a loro volta, hanno posto il fuoco, come Ippaso, Eraclito e Teofrasto, perché dicono che il calore produce e sviluppa tutto. Se si esaurisce, anche il mondo cessa. Altri hanno invece posto un principio immobile, come Senofane. Egli ha interamente respinto la nascita e la distruzione e ha detto che tutto è Uno, senza alcun cambiamento. Parmenide ha parlato di un solo principio immobile, ma l'Uno è solamente nel pensiero e per questo egli lo ha detto finito. Melisso ha posto l'Uno nel numero e nella materia e lo ha detto infinito. (pp. 542-544)
Dopo aver menzionato Anassagora, Leucippo, Democrito, Epicuro ed Empedocle, Barebreo giunge ad Aristotele per poi commentare Platone servendosi del testo di Proclo:
Aristotele ha posto tre principî: la materia, la forma e la privazione. Ha posto la privazione come principio perché la distruzione di qualsiasi forma causa la nascita di un'altra forma. Nel primo capitolo del libro di Proclo, Attico dice che Platone menziona quattro principî: l'intelligenza, che è il creatore, ovvero Dio; il ricettacolo, ovvero la materia che è anche la madre ricettiva; l'idolo, ovvero eidos, che egli chiama anche esempio perché le nature sono state costruite a sua immagine; e il movimento, ovvero l'anima che era dapprima senza coscienza e che, come principio primo, si muoveva confusamente e senza ordine nella materia. Nel libro del Timeo, Platone dice che vi sono tre principî: l'essere, il ricettacolo e il divenire, tripla triade, prima che fossero i cieli. Egli chiama essere, Dio e l'Idea; ricettacolo, la materia; divenire, il movimento ovvero l'anima. In un altro brano parla di due principî che uniscono Dio e l'Idea: la materia e il movimento. (pp. 546-547)
È probabilmente questa l'interpretazione della storia della filosofia greca che era trasmessa nelle scuole siriache durante l'Alto Medioevo; nell'atmosfera di riflessione, di preoccupazione per la purezza del discorso e di curiosità per il passato che fu propria degli scrittori di lingua siriaca dei primi secoli della nostra era, l'opera di Paolo il Persiano, un logico cristiano di lingua siriaca, acquista una dimensione particolare. Non sappiamo se Paolo abbia studiato alla Scuola di Nisibi, ma fu senza dubbio la protezione del re sasanide a permettergli di recarsi a Seleucia-Ctesifonte. Lo troviamo verso il 529 alla corte persiana, ove redasse un breve trattato sulla logica di Aristotele da lui dedicato a Cosroe I Anushirvan (Xusrō Anōširwān, 531-579). Il testo originale, in siriaco, è conservato in un manoscritto della British Library (Land 1875, pp. 1-32).
All'inizio del trattato, Paolo ricorda che è la logica a dover guidare la ricerca sui temi più ardui, per esempio quello della creazione del mondo, riguardo al quale, egli afferma, esiste una grande varietà di opinioni: chi sostiene che il Creatore abbia creato il mondo e chi no; chi pensa che il mondo fu creato dal nulla e chi dice che lo fu dalla materia; chi insegna che il mondo fu senza inizio e non avrà fine, e chi insegna il contrario.
Abbiamo qui un elenco delle questioni che furono ampiamente dibattute nel VI sec. tra i filosofi cristiani e quelli pagani. Paolo non poteva trascurarle nel suo trattato, ma le passa in rassegna senza soffermarvisi; si limita a dire che la scienza si occupa di cose vicine, evidenti e conoscibili, e la fede di temi lontani, invisibili, che non sono conosciuti con esattezza, affermando:
La fede è nel dubbio, mentre la scienza esiste senza il dubbio. Qualsiasi dubbio comporta la divisione, e l'assenza di dubbio l'unanimità. La scienza, dunque, è meglio della fede ed è meglio scegliere quella che questa anche se i credenti, quando sono istigati dalla fede, si giustificano nei confronti della scienza dicendo che quanto crediamo adesso lo sapremo più tardi. (Land 1875, pp. 4-5)
La posizione di Paolo non si lascia definire facilmente; in realtà, la netta distinzione tra scienza e fede da lui professata dovette scandalizzare le anime pie, e ciò può spiegare perché Barebreo, lo storico vissuto nel XIII sec., tentò di diffamarlo sostenendo che lasciò la Chiesa e si unì ai Magi perché non era stato nominato metropolita. Si tratta senza dubbio di un luogo comune, dal momento che nell'VIII sec. Teodoro bar Koni, nel suo Libro degli scoli, descrive in modo sommario la vita di Bardesane presentandolo come eretico e aggiungendo che si allontanò dalla Chiesa unendosi alla setta di Valentino per non aver ottenuto l'episcopato che desiderava.
Tanto nelle scuole ebraiche della Palestina quanto tra i cristiani, il primo insegnamento da trarre dal primo libro della Genesi era che Dio aveva creato il mondo ex nihilo. All'inizio del II sec., un filosofo aveva fatto una volta la seguente osservazione a Rabbān Gamaliel II: "Il vostro Dio era un grande artista, ma è vero che Egli aveva avuto a disposizione dei colori eccellenti". "Quali erano questi colori?", chiese Gamaliel. "Il caos, le tenebre, le acque, il vento e l'abisso", disse il filosofo. Gamaliel rispose con un'imprecazione e con una serie di testi ove si dimostrava che tutti quegli elementi erano stati creati (Moore 1927, pp. 381-382). L'appello di Paolo alla scienza come base di ogni ricerca non lascia credere che il suo pensiero si sia inscritto in questa corrente biblica. La sua proposta di far dipendere la soluzione del problema della creazione del mondo dallo studio della logica va fatta risalire piuttosto al sapere degli intellettuali cristiani del suo tempo. Purtroppo Paolo non fece che sfiorare il problema; per comprenderlo nel contesto intellettuale della sua epoca siamo costretti a rivolgerci ai commentari che Filopono, nel VI sec., scrisse in greco riguardo alle teorie di Aristotele sull'infinito, sulle tre dimensioni della materia o sul quinto elemento o corpo primo, l'etere. Proprio nel lanciare un pesante e sistematico attacco contro l'opera di Aristotele, e in particolare contro la sua idea di un Universo senza principio né fine, Filopono utilizzò la logica per cercare di spiegare la creazione del mondo, pur riconoscendo, come lui stesso afferma, che il fatto che la creazione sia stata rivelata non svela come essa abbia avuto luogo.
Per Paolo, la scienza è superiore alla fede: è "la scienza che produce l'autorità, la bellezza del mondo, la pace dell'anima, la gioia degli esseri dotati di intelligenza". Tutto questo invita alla riflessione. Paolo doveva credere che nell'uomo sono saldamente radicate predisposizioni a una ricerca scientifica che poteva confortare la vita religiosa. Nella dedica al sovrano Cosroe I Anushirvan scrive infatti: "La filosofia, che è la vera scienza di tutte le cose, risiede in te ed è di questa filosofia che è in te che io ti faccio dono; non deve sorprenderti che ti vengano offerti i doni del tuo stesso giardino: è delle sue stesse creature che si fa sacrificio a Dio" (Land 1875, p. 1).
Tralasciando il tono adulatorio della frase, appare evidente che la radice della saggezza si trova in sé stessi. La distinzione tra scienza e fede è un tema caratteristico, se non un luogo comune, degli scritti religiosi dell'epoca in cui le nozioni della filosofia aristotelica iniziavano a diffondersi nel Vicino Oriente. È comprensibile la perplessità di certi intellettuali siri, arabi ed ebrei particolarmente attaccati alle loro tradizioni religiose nel trovarsi di fronte a un'analisi 'logica', scientifica, dunque nuova, del loro discorso religioso. Per Paolo, la scienza è quella del 'discorso' e oggi sappiamo sempre meglio che la retorica fu una delle discipline di cui la Chiesa si servì per farsi accettare sia dagli intellettuali sia dal popolo. Perché Paolo avrebbe dovuto temere di presentarsi come uomo di scienza quando la Chiesa di lingua siriaca, attraverso l'insegnamento dei vescovi e gli scritti dei monaci, voleva presentarsi vestita del linguaggio di Aristotele, un linguaggio che apriva una vera e propria direzione di ricerca?
I filosofi cercano di conoscere la scienza di tutte le cose; in relazione a questo Paolo elaborò una definizione della filosofia, che descrisse
come la scienza che tratta di ciò che è, perché chi vuole sapere cosa è l'uomo, o il cavallo, o qualunque altra cosa, non cerca di sapere come gli uomini o i cavalli esistono nel mondo, cosa furono o cosa sono, perché ciò è indefinito e quello che è indefinito non è da noi conosciuto. La scienza tratta della somiglianza delle cose e non dell'indefinito […] La filosofia è l'immagine del divino, per quanto gli uomini possano somigliarvi. Dio conosce e crea, e i filosofi, a immagine di Dio, conoscono e pensano [ma] attraverso una rappresentazione. (ibidem, pp. 3-5)
L'ultima frase fa riferimento al testo della Genesi 1, 26: "Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine (ṣelem), a nostra somiglianza (dǝmûth)". Il riferimento alla Genesi rivela, probabilmente, il tipo di insegnamento dispensato nel circolo, risolutamente aristotelico, dei discepoli di Teodoro di Mopsuestia. Per Teodoro, infatti, questo versetto della Genesi svela l'essere stesso dell'uomo definito dai limiti della sua conoscenza, come egli spiega in una orazione pronunciata nel 392 alla presenza dei vescovi di Cilicia riuniti ad Anazarba. L'avvenimento era stato provocato dall'eresia di Macedonio, vescovo di Costantinopoli (342-360), che non ammetteva la divinità dello Spirito Santo. Il testo del discorso, scritto in greco, fu molto presto tradotto in siriaco, a dimostrazione dell'avidità con cui gli scritti di Teodoro erano accolti dagli intellettuali di Edessa. Il testo siriaco afferma:
Poiché la natura divina è invisibile in sé, (l'uomo) ‒ alla maniera di un'immagine ‒ ha ricevuto molte cose che gliela fanno conoscere. Abbiamo la potenza legale; abbiamo il potere esercitato mediante le parole e le leggi; abbiamo un giudice; abbiamo la preoccupazione delle cose a venire; abbiamo l'intelligenza che contiene molte cose insieme; abbiamo il potere di generare e di creare. Noi possediamo tutto questo, pur essendo in ciò lontani dal poter essere paragonati a Dio. (Nau 1913, par. 20)
Il vescovo di Mopsuestia è cosciente del fatto che l'immagine è inferiore alla cosa che rappresenta e, di conseguenza, conclude: "Né potenza, né giudizio, né visione del futuro ci fanno cogliere la realtà come fa colui che è prossimo a tutto" (ibidem). Nel VI sec., Barhadbeshabba potrà riassumere questa teologia dell'immagine divina affermando che l'eccellenza non consiste nel fatto di esistere quanto piuttosto nella maniera di essere.
Possiamo completare la prospettiva dell'uomo immagine di una realtà che lo trascende con il commentario al libro della Genesi scritto da Isho῾dad (Κô῾dāḏ) di Merv verso l'850. Seguendo la tradizione di Teodoro di Mopsuestia, il vescovo nestoriano vi afferma che l'uomo è l'immagine di Dio "per il suo potere reale e giudiziario". In una prospettiva nuova aggiunge che l'uomo è un'"immagine" che si potrebbe definire cosmica: "l'uomo è la sintesi del mondo". Nel suo commentario al libro della Genesi, egli trova sette accezioni della parola dǝmûṯâ ('immagine'): (1) l'imitazione della natura o della persona; (2) la rappresentazione di un uomo fatta con il bronzo e i colori; (3) le immagini e i fantasmi; (4) (le immagini) dei sogni; (5) (quelle) dello specchio; (6) le immagini impresse nello spirito (re῾yānā) dell'artista; e (7) (l'immagine) della dignità, come quando Dio dice "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza" (Isho῾dad, p. 49).
Per i teologi siri che commentano la Genesi, il tema dell'uomo come immagine divina si presta a importanti riflessioni sulla natura fisica dell'uomo. In tal modo, Teodoro di Mopsuestia insegna che l'uomo è stato creato mortale, come provano la generazione corporea e la formazione dei sessi in vista della procreazione di figli. Narsai, il grande esegeta della Scuola di Nisibi, erede delle dottrine di Teodoro, espone la dottrina sulla mortalità originale dell'uomo con argomenti che corroborano quelli del suo maestro. La distinzione dei sessi, in particolare, è uno degli argomenti fondamentali su cui poggia questa dottrina. Anche Giacomo di Sarug (Sǝrûg, ca. 466-521) si domanda come è stato creato l'uomo. Che egli sia stato creato allo stesso tempo mortale e immortale discende da una dottrina antica presso i Siri: all'origine della loro riflessione filosofica si trova l'accettazione dell'impulso 'cosmico' che spinge la Natura verso il suo esaurimento, il quale comporta a sua volta quello della natura fisica dell'uomo. Non sorprende che gli scrittori siri abbiano concepito questa stessa natura suscettibile di perfezionamento all'interno del processo 'cosmico', senza con ciò voler concludere che l'opera del Creatore sia stata in origine imperfetta.
La divisione della filosofia in teorica e pratica rappresenta una nozione fondamentale nei commentari dei filosofi siri, tanto monofisiti quanto nestoriani. Paolo il Persiano, per esempio, la spiega nel modo seguente: la filosofia teorica si occupa della scienza dell'uomo, dei demoni e degli angeli, del fondamento del mondo (la materia), delle nature invisibili, di cose naturali come la scienza della generazione e della corruzione e dunque delle nature sensibili, ma oltre a questo si occupa anche di tutto ciò che sta a metà tra le cose intelligibili e le cose sensibili, come l'aritmetica, la geometria (o agrimensura), la musica e l'astronomia. La filosofia pratica tratta del governo in generale, come quello del regno o della città, oppure quello di una casa. L'uno e l'altro di questi due rami della filosofia sono conosciuti attraverso la logica (Land 1875).
Presso la scuola neoplatonica l'aritmetica, la geometria e l'astronomia erano chiamate 'arti enciclopediche' (nel senso della enkýklios paidéia), espressione che implicava l'accettazione di un corpo di scienze ritenute propedeutiche, il cui ruolo sarebbe stato quello di stringere, 'accerchiare' sempre più il fine da raggiungere, la filosofia. In un bel testo dell'imperatore Giuliano contro il cinico Eraclio si trova questa breve osservazione sulla sua educazione:
Così iniziato dai miei maestri: dal filosofo che mi ha iniziato alle materie propedeutiche, e dall'eminentissimo filosofo che mi ha mostrato il vestibolo della filosofia, pur trattandosi di poca cosa a causa delle occupazioni che mi invadono dall'esterno, godo nondimeno di autentica educazione, non avendo preso la strada che propone una scorciatoia, quella che tu raccomandi, bensì quella che procede in circolo: eppure, ne sono testimoni gli dèi, credo di aver preso una via più breve di te verso la virtù. (Hadot 1984, p. 276)
La nozione di arti enciclopediche poteva suggerire tutta una serie di riflessioni presso i Greci, ma la locuzione enkýklios paidéia in siriaco sembra designare il solo studio dei rudimenti della grammatica.
La divisione della filosofia in due rami fa capo a una tradizione che si conserverà presso i filosofi siri e arabi. Ammonio di Alessandria, scolarca della Scuola di Alessandria verso la fine del VI sec., aveva presentato la logica come strumento di cui dovevano servirsi i due rami della filosofia. Ne giustificò la necessità in modo molto chiaro: la parte teorica, diceva, "mira alla conoscenza del vero e del falso" e quella pratica "alla distinzione del bene e del male"; ora, poiché in ciascuno di questi ambiti "si insinuano come vere nozioni che non lo sono, e come buone cose che non lo sono", gli uomini hanno bisogno della logica "cosicché utilizzandola come una squadra o un regolo essi eliminano quanto non vi si adegua" (Busse 1895, pp. 5, 10).
Tra gli autori siri, Paolo concorda con Ammonio affermando che la filosofia ha due rami e che la logica è strumento dell'uno e dell'altro. Non trae però conclusioni sul vero e il falso, né sul bene e il male; soltanto il suo riferimento al 'rigore' della logica che "non erra" potrebbe intendersi come conseguenza del potere che essa ha di distinguere il vero e il falso. Per Proba, l'arte (᾽ûmmānûṯā) che "cerca di decorare" l'anima e, di conseguenza, le sue due facoltà, quella teorica e quella pratica, non è altro che la logica (Hoffmann 1869, p. 65). Verso la metà del VII sec., Atanasio di Balad, patriarca monofisita di Antiochia, vuole spiegare la logica in maniera semplice al popolo e inizia così il suo trattato: "Poiché l'arte (pragmatéia) della logica in Aristotele è difficile quando non si è abituati alle difficoltà del suo stile, ho ritenuto opportuno comporre per te un trattato semplice e breve di scienza sillogistica, affinché tu possa percorrere una via più facile e più chiara" (Renan 1852, pp. 327-328). Alcuni autori siri sono pienamente coscienti della distinzione esistente tra la vita di tutti giorni, la vita mondana, e la riflessione filosofica, ovvero la scienza che fa capo a un'immagine mentale.
Si potrebbe ritenere che la separazione tra ragione teorica e ragione pratica sia una deformazione introdotta in filosofia a seguito di uno studio scolastico di Aristotele. In realtà, per Ammonio di Alessandria, Proba, Sergio di Reshaina o Paolo il Persiano comprendere l'ordine del mondo e sforzarsi di instaurare un ordine nel nostro mondo umano costituivano un solo e medesimo compito. Fu, ovviamente, attraverso gli scrittori e gli uomini di scienza della Scuola di Nisibi che il re sasanide Cosroe I Anushirvan, salito al trono nel 531, si aprì all'influsso dell'ellenismo. L'Islam, a sua volta, profittò della scienza scritta in siriaco da parte degli studiosi di Edessa e di Nisibi. La scuola di traduttori creata a Baghdad nel IX sec. è rappresentativa della sopravvivenza dell'ellenismo nel Vicino Oriente, pur trattandosi di un cenacolo di eruditi isolati, epigoni di una filosofia siriaca inizialmente sviluppata ad Atene o Alessandria e più tardi trapiantata in Oriente. Ciò nonostante, grazie al loro lavoro, questa filosofia che si attardava prima di scomparire dalle scene del Vicino Oriente sarebbe poi rifiorita in Europa in epoca medievale.
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