Medioevo plurale
Nel 1932, in un bel saggio sul Rinascimento, Delio Cantimori scrisse che quando si parlava del Medioevo gli uomini moderni non erano ancora capaci di esprimere un giudizio sereno, perché il loro mondo era nato da un conflitto frontale con l’età di mezzo nel quale essi continuavano a sentirsi coinvolti: «Nello studio dell’epoca seguente al ‘Medioevo’ – scriveva Cantimori – non siamo più sereni e tranquilli: sulle valutazioni di quegli uomini ci sentiamo differenti, e soprattutto direttamente impegnati nel respingere o nell’accettare le loro condizioni. Non siamo […] ancora liberi dalla loro concezione del ‘Medioevo’» (D. Cantimori, Sulla storia del concetto di Rinascimento, in Id., Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico, 1971, p. 415). Così dicendo, Cantimori esprimeva un atteggiamento, e un sentimento, assai diffuso, che veniva da molto lontano: esso risaliva fino alla polemica degli umanisti e si era fortemente consolidato nel Seicento e nel Settecento, per essere poi ripreso, e sistematizzato, nel corso dell’Ottocento, nelle opere fondamentali di Jules Michelet e di Jacob Burckhardt.
Quando nei secoli moderni si parla di Medioevo, è acquisito che si sia trattato di un tempo di tenebre; fin dall’inizio si discute quanto esse siano durate, ma sul fatto che di tenebre si tratti non c’è discussione. È nella seconda metà dell’Ottocento che questa posizione comincia a incrinarsi, in saggi assai importanti di studiosi come Henry Thode ed Émile Gebhart, i quali iniziano a proporre una nuova immagine del Medioevo facendo pernio, nel caso di Thode, sulla figura di Francesco d’Assisi; ma è soprattutto con Konrad Burdach – un nome destinato a ricorrere altre volte in questo volume – che il giudizio sul Medioevo viene riformulato dalle fondamenta, interpretando in modi nuovi e originali il rapporto tra età di mezzo e Rinascimento. Come si avrà modo di dire nelle pagine introduttive alla sezione sul Rinascimento, questa impostazione scaturiva dalla crisi del concetto di ‘mondo moderno’ elaborato, sul piano filosofico-storico, in primo luogo dagli illuministi e al centro, sia pure in modi problematici, di un’opera classica come Die Kultur der Renaissance in Italien (1860; trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, 1876) di Burckhardt. È un processo nel quale giocano sicuramente un ruolo essenziale motivi di ordine ideologico, come appare chiaro proprio nelle pagine di Burdach, che polemizza in modo esplicito contro l’Illuminismo, il liberalismo, il socialismo; ma dalla crisi del concetto di ‘mondo moderno’, oltre ad apparire una nuova immagine del Medioevo, risalgono anche alla luce tutta una serie di motivi che la tradizione ‘moderna’ aveva inabissato, proprio contrapponendo le tenebre medievali alla luce del Rinascimento – dalla magia all’astrologia, all’alchimia, tutte forme dell’esperienza umana rubricate come superstizioni premoderne da cui il Rinascimento era riuscito a liberarsi, aprendo un nuovo ciclo nella storia dell’umanità. Burdach ebbe il merito straordinario di avviare la dissoluzione di queste posizioni, dando un contributo a una migliore conoscenza sia del Medioevo che del Rinascimento, e dei loro rapporti, destinata a incidere a fondo nelle ricerche storiografiche su entrambi i periodi.
Ma tutto questo ormai appartiene al passato: se si legge ora quella pagina di Cantimori, appare chiaro che essa risale a un altro mondo, distantissimo da noi, e che le polemiche nelle quali egli si sentiva ancora coinvolto non ci riguardano più. Anzi, oggi la situazione per certi aspetti si è rovesciata: mentre il Rinascimento – almeno nella sua accezione tradizionale – è venuto perdendo terreno anche sul piano istituzionale e accademico, il Medioevo ha assunto una nuova centralità e in alcuni momenti si è addirittura configurato, anche sul piano del costume e della letteratura, come l’effettiva sorgente della civiltà europea. Naturalmente occorre specificare quando si parla di età di mezzo, perché esistono molti medioevi da analizzare ciascuno nella propria specificità. Così come è necessario discutere le periodizzazioni – cioè le interpretazioni – che ne sono state date, fino al punto da collocare nell’universo medievale perfino una figura come quella di Erasmo da Rotterdam. Ma queste osservazioni critiche non tolgono il valore, e l’importanza, che l’età di mezzo ha assunto, riverberandosi anche nel giudizio sul Rinascimento; né del resto poteva essere diversamente, tenendo conto che i due concetti – quello di Rinascimento e quello di Medioevo – nascono insieme, a un solo parto, nel quadro del lungo processo di formazione del concetto di ‘mondo moderno’. Si potrebbe dire che, nella loro forma tradizionale, nascono e decadono insieme: il che vuol dire anche che tutte le antiche discussioni, ad esempio, sulla continuità o la discontinuità tra l’uno e l’altro non hanno più senso sul piano storiografico, pur se ne hanno avuto uno molto profondo e duraturo su quello ideologico. Oggi la periodizzazione della storia europea può essere fondata su basi differenti, consegnando al passato vecchie polemiche e discussioni, e guardando con occhi nuovi, al di là di vecchie contrapposizioni, all’insieme della nostra civiltà.
Uno dei fili attraverso cui si può vedere l’inconsistenza di alcuni paradigmi tradizionali è verificato proprio dagli autori – e, attraverso di essi, dai problemi – messi al centro di questa sezione. Come il lettore vedrà, essa è inaugurata dalla figura di Gioacchino da Fiore, a differenza dei canoni tradizionali. A questa scelta siamo stati indotti da due ordini di considerazioni: il rilievo, ovviamente, della sua figura; l’incidenza che nella ‘tradizione’ italiana hanno avuto componenti profetiche e apocalittiche variamente declinate. È stato, anche in questo caso, Burdach a mostrare in pagine molto acute l’importanza della ‘traduzione politica’ di queste posizioni nell’esperienza di Cola di Rienzo e nel mito di Roma che egli venne elaborando, suscitando l’interesse di una personalità di eccezione come Francesco Petrarca. Ma la componente apocalittico-profetica si impone anche nella cultura umanistica e rinascimentale, mostrando l’inconsistenza di vecchie contrapposizioni o di antiche esclusioni di carattere essenzialmente ideologico. Basta pensare a una figura centrale nella vicenda religiosa e civile del nostro Paese come Girolamo Savonarola, il quale dedica alla profezia un testo fondamentale e, profeta egli stesso, riprende e svolge tematiche di carattere apocalittico. Naturalmente anche in questo caso occorre saper guardare alla sostanza della cosa e vedere che cosa si muova dietro formule e posizioni che possono apparire vecchie o addirittura superstiziose. Su questo punto sono veramente notevoli le osservazioni di Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, nelle quali è sottolineato l’elemento di originalità e di novità di Savonarola, mentre altri studiosi in Italia o insistevano sulla contrapposizione tra Niccolò Machiavelli e il frate ferrarese; oppure individuavano – secondo un modulo sostanzialmente desanctisiano – nell’intreccio tra politica e religione tipico di Savonarola una delle radici della corruzione italiana. Rispetto a questa interpretazione Gramsci si muoveva su un’onda più lunga; ma questa era anche una conseguenza della maniera originale con cui egli interpretava il Rinascimento, individuandone le radici addirittura nell’anno 1000, quando si erano imposte nuove forze sociali e politiche che, pur non essendo state capaci di uscire dalla fase «economico-corporativa», avevano iniziato una nuova, e decisiva, epoca della civiltà sia italiana che europea. In altre parole, Gramsci si era situato al di là della tradizionale opposizione fra Medioevo e Rinascimento cogliendo, da un lato, la profonda continuità della storia europea ed esprimendo, dall’altro, un giudizio assai severo sul Rinascimento in quanto tale, dal quale staccava solo, e per contrasto, figure come quelle di Savonarola, per un verso, di Machiavelli, per un altro.
Ma per verificare la consistenza di questa tradizione profetica e apocalittica basta analizzare i testi pubblicati a Firenze, a Venezia, a Roma negli ultimi anni del Quattrocento, lungo una linea che arriva perfino a un pensatore come Giordano Bruno, il quale nello Spaccio de la bestia trionfante riprende l’Apocalisse ermetica interpretando alla sua luce la crisi del «secolo infelice». E questa constatazione consente di chiarire con maggior precisione uno dei tratti della filosofia italiana: il suo configurarsi in termini civili non esclude un rapporto significativo con la religione, sia di carattere politico che di ordine propriamente scientifico: si pensi ai Discorsi di Machiavelli, da una parte, e al De incantationibus di Pietro Pomponazzi, dall’altra. Paradigmi critici destinati a complessi sviluppi, ma generati entrambi da una forte valorizzazione della religione in tutte le sue componenti, alla quale appartiene a pieno titolo anche un personaggio come Paolo Sarpi che tende, con massima consapevolezza e radicalità, a separare religione e politica, Chiesa e Stato, affermando il primato di quest’ultimo. Anche in questo caso il cosiddetto Medioevo – almeno nella sua parabola finale – aveva avuto qualcosa di importante da dire, come appare da alcuni temi centrali dell’opera di Marsilio da Padova – dall’affermazione del primato della Scrittura e del concilio alla distinzione fra ‘regno di Dio’ e ‘regno di Cesare’, dall’assunto secondo cui è il legislatore umano che deve punire gli eretici e scegliere le persone che devono essere innalzate alle cariche ecclesiastiche fino alla tesi per cui il potere di scomunica non spetta né a un sacerdote né a un collegio di sacerdoti. Si comprende che pagine come queste siano state interpretate in termini ‘modernizzanti’, forzandole e distaccandole dal contesto teorico e politico in cui Marsilio si muove; ma non c’è alcun dubbio che con queste posizioni egli abbia avviato una tendenza di fondo della filosofia civile italiana destinata, anche in questo caso, a vari e complessi sviluppi che sollecitano sia il lettore che lo studioso a interpretare – e a periodizzare – in termini nuovi lo stesso concetto di ‘filosofia italiana’, quando sia valorizzato in modo speciale il suo predicato civile.
Su questo lungo sfondo può essere collocato, e meglio decifrato – come appare nel saggio a lui dedicato – un personaggio come Petrarca, del quale viene sottolineata con forza la dimensione civile e politica, e anche la straordinaria inquietudine di cui essa è al tempo stesso causa ed effetto, sottraendolo sia a immagini di carattere tradizionalmente letterario sia all’esclusiva valorizzazione della sua polemica frontale contro i ‘barbari britanni’. Colta attraverso la lente critica adottata in questo volume, la personalità di Petrarca sprigiona elementi e temi nuovi che proiettano la sua figura in una diversa prospettiva: ma questo riguarda tutti gli autori oggetto della sezione.