Cesarotti, Melchiorre
Melchiorre Cesarotti (Padova, 1730 - Selvazzano, presso Padova, 1808) fu uno dei maggiori rappresentanti dell’Illuminismo italiano in campo linguistico. Nacque e studiò a Padova, dove divenne insegnante di retorica, greco ed ebraico. Grande conoscitore di lingue antiche e moderne, si distinse per l’intensa attività di traduttore sia di classici greci sia di autori francesi e inglesi a lui contemporanei.
La sua traduzione più celebre è quella delle Poesie di Ossian (1763), raccolta di poemi epici che ebbe risonanza inusitata e rivestì un ruolo determinante per la lingua poetica italiana. Le edizioni del 1772 e del 1801, più volte ristampate, presentano varianti e incrementi di testi, tanto che passarono da due a quattro tomi; sono inoltre corredate da un Dizionario di Ossian, contenente una scelta delle parole e delle espressioni «più singolari e notabili» e la spiegazione dei «modi più oscuri» presenti nell’opera (Cesarotti 1772: IV, 301). L’originale inglese, in prosa, era stato pubblicato a Londra con titolo Fingal, seguito due anni dopo da altri scritti ossianici, accolti da Cesarotti nella seconda e nella terza edizione e nelle ristampe successive. Ne era autore James Macpherson, il quale presentò l’opera al pubblico come traduzione di antichi testi gaelici di nuova scoperta, scritti da Ossian, bardo paragonato a un Omero del Nord. I temi preromantici (i soggetti barbarici e primitivi, l’ammirazione per la natura selvaggia e misteriosa) furono trattati da Cesarotti con un linguaggio classicheggiante, ma aperto a novità stilistiche e lessicali. Tra gli elementi stilistici di gusto classicistico presenti nella traduzione si possono citare le inversioni sintattiche, le costruzioni latineggianti, i numerosi ➔ latinismi, i termini aulici, gli ➔ arcaismi lessicali e fono-morfologici, usati però, più che per conservatorismo poetico, per dare al testo una patina primitiva. L’endecasillabo sciolto, con frequenti enjambements, è il verso prevalente nelle Poesie di Ossian, in parte polimetriche. Nel Settecento l’endecasillabo sciolto, usuale due secoli prima per le traduzioni dai classici, fu adottato per altre traduzioni dall’inglese: Paolo Rolli l’aveva adoperato per tradurre Milton (1735) e Antonio Conti per tradurre Pope (1756); lo stesso Cesarotti, per es., lo riadoperò per la poesia sepolcrale di Thomas Gray, l’Elegia sopra un cimitero di campagna (1772). Notevole, nell’Ossian, è lo stile conciso ed ellittico, con frequente sintassi nominale, che rende mimeticamente la concitazione del dialogo o tratteggia rapidamente i passaggi descrittivi; originale è la dissonanza degli accostamenti per emulare la rozza energia del poeta barbaro, talvolta con ricerca dell’inusitato, inserendo in un contesto solenne voci della tradizione prosastica (insolita in poesia, per es., l’indicazione geografica «nord» / «sud»). La ricerca e l’esaltazione del primitivismo era stata sollecitata in Cesarotti dalla lettura di Vico.
Quanto al lessico, l’apertura linguistica si registra nelle neoformazioni (caratteristico l’uso di aggettivi composti, come fosco-rotante, alto-sbuffante, ondi-cerchiata e occhi-azzurro) e nei calchi dall’inglese di interi sintagmi, non numerosi ma ricorrenti e che, in alcuni casi, comportano l’estensione del significato di parole perfettamente italiane, come basso (ingl. low) per «disteso, morto» («son bassi i duci», «egra / s’abbassò nella tomba»). Presenti in buon numero i neologismi: foscheggia, ondoleggiante, infiochì, fumeggia, arieggi, ravvoltolandosi, guaiola. Tra gli ➔ hapax: tristeggiante, schiantator, codeggia (cfr. Della Corte 1997; Roggia 2007; Speranza 2007-2008).
Inoltre, Cesarotti tradusse dal greco le orazioni di Demostene (1774-78, 6 voll.) e l’Iliade (1786-94), prima in prosa, con ragionamenti storico-critici e note, poi in una versione molto libera in versi sciolti, con titolo La Morte di Ettore (1795). Attraverso traduzioni, fedeli non alla lettera ma allo spirito del testo, Cesarotti proponeva di riscoprire i classici, riallacciando con essi un rapporto libero e diretto, svincolato dal culto reverenziale per gli antichi. Dal francese portò in versi sciolti due tragedie di Voltaire, Il Cesare e Il Maometto, uscite in un unico volume nel 1762, alle quali premise due ragionamenti nei quali rivendicava la libertà dello scrittore da ogni regola e teorizzava una tragedia nutrita di motivi filosofici e capace di dilettare.
Gli ideali linguistici illuministi di Cesarotti sono sistematicamente illustrati nel Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana (ed. definitiva 1800, nel vol. I delle opere complete dello scrittore), uscito dapprima in due diverse edizioni (1785 e 1788) con il titolo Saggio sopra la lingua italiana, e oggi reperibile nelle edizioni a cura di Bigi (1960: 304-468) e di Puppo (19662: 297-489). Si tratta di uno dei contributi più importanti alla questione della lingua, non solo nel Settecento illuminista, ma nell’intera tradizione italiana, per quanto molte tesi dell’autore derivassero dalla cultura linguistica francese sei-settecentesca (Marazzini 1999: 134-143). Per questo trattato Cesarotti è oggi considerato l’anticipatore di alcune idee della moderna linguistica.
Il saggio ha un impianto nitido: è diviso in quattro parti, corredate di dettagliati sommari della materia trattata; ogni parte si articola in una serie di paragrafi numerati, in ognuno dei quali è svolto un singolo tema individuato nel sommario (la numerazione dei paragrafi è romana, quella delle note alfabetica); talvolta sono presenti sottoparagrafi, introdotti da cifre arabe in progressione, che enucleano sinteticamente i punti salienti delle tesi dell’autore. Viene quindi abbandonato l’armamentario retorico tipico della trattatistica linguistica ed è lasciata da parte la forma dialogica, tradizionale in Italia per questa materia, soprattutto nei trattati del Cinquecento, ma avvertita a fine Settecento come arcaica, inadatta a un’esposizione razionale e scientifica.
Cesarotti apre il trattato con quelle che considera le opinioni «mal fondate o mal applicate» (Parte I, I) intorno alla lingua ancora dominanti in Italia, e provvede subito a smentirle, elencando in otto punti una serie di enunciazioni teoriche universali della sua «filosofia delle lingue»: nessuna lingua è pura; tutte le lingue nascono da una combinazione casuale e all’inizio della loro storia sono «barbare»; tutte soddisfano le necessità comunicative della nazione che le parla; nessuna è perfetta ma tutte possono migliorare; nessuna è inalterabile e nessuna è ricca abbastanza da non aver bisogno di nuove ricchezze; tutte, infine, si sviluppano attraverso il consenso dei parlanti.
Un’importante novità del saggio di Cesarotti è rappresentata dall’attenzione per la lingua parlata, allora generalmente ignorata dagli studiosi, interessati solo alla lingua scritta letteraria. Già in alcuni punti teorici che aprono l’opera trapela questo interesse per l’oralità e la varietà. Cesarotti osserva che dappertutto si adoperano i dialetti, che all’interno di ogni città si registrano differenze di ceto e di pronuncia, per le quali la lingua dei colti e dei nobili è diversa da quella del volgo, e rileva inoltre che le «diverse classi degli artefici si formano il loro gergo» (Parte I, I, in riferimento al lessico tecnico dei mestieri). Tenendo conto di queste considerazioni, Cesarotti formula quindi il principio teorico: «Niuna lingua è parlata uniformemente dalla nazione». La lingua parlata serve agli usi comuni, risponde a una necessità pratica immediata, non è preceduta da una lunga meditazione e per questo è spontanea, più ricca, più animata e più disinvolta della lingua scritta, alla quale però lo studioso riconosce una superiore dignità, perché momento di riflessione e strumento con il quale operano i dotti. In base alle sue teorie, la lingua scritta non deve rifarsi all’uso popolare dei parlanti, ma non deve nemmeno essere fissata nei modelli letterari di un determinato secolo o dipendere dall’autorità dei grammatici; deve bensì aspirare a una sana medietà, raggiungibile attraverso la «ragione» e il «ben giudicare», capaci di conciliare uso vivo ed esempi dei grandi scrittori di tutte le epoche, perseguendo sempre un ideale di chiarezza. L’italiano, parlato e scritto, come ogni altra lingua, progredisce parallelamente alla crescita delle conoscenze. Il lessico dovrà quindi aumentare per rispondere a tutte le esigenze del tempo, accogliendo anche i forestierismi necessari, tanto avversati dai puristi e dai cruscanti.
La seconda parte del saggio affronta il tema della nascita del linguaggio, accogliendo le teorie sensiste degli illuministi francesi Condillac e De Brosses, in base alle quali l’uomo primitivo si sarebbe espresso per monosillabi e solo in seguito si sarebbe creata una pluralità di lingue sempre più evolute; le radici delle parole sarebbero portatrici di un significato remoto ereditato dalla comune lingua primitiva (l’articolazione st-, per es., indicherebbe la «fissità», la «stabilità», e sarebbe riconoscibile nella radice di parole come stare, stabile, statuto, statua). Cesarotti diede a questa teoria il suo apporto originale, introducendo la distinzione tra «termini cifre» e «termini figure» (Parte II, II-III): i primi sono frutto di pura convenzione o di un moto naturale degli organi fonatori (egli osserva che i suoni labiali sono i più semplici e i primi a essere usati dai bambini); i secondi, più espressivi, rispecchiano una relazione tra oggetto e suono, e talvolta sono derivati da semplice onomatopea, cioè dall’evocazione della cosa attraverso il suono della parola (per es., il sostantivo latino flumen evoca lo scorrere dell’acqua nell’articolazione fl-). Seguono osservazioni su pregi e difetti dei vocaboli, sulla loro formazione per «traslazione», «composizione», «derivazione» (Parte II, IV). Sono infine formulate alcune riflessioni sui proverbi e gli «idiotismi», pienamente accettabili solo se comprensibili a tutti, largamente diffusi e poggianti su esperienze e patrimoni condivisi, non su realtà circoscritte o tradizioni locali.
Nella terza parte del saggio Cesarotti difende la legittimità dei prestiti stranieri e in particolare dei ➔ francesismi, purché la loro introduzione sia regolata da norme precise che frenino le innovazioni eccessive. I termini stranieri devono infatti essere accolti nel rispetto del «genio della lingua», ovvero del suo carattere originario (il concetto di ‘genio’ era stato introdotto dai filosofi francesi). Cesarotti applica una distinzione tra il «genio grammaticale» della lingua, cioè la sua struttura logico-grammaticale (costruzione di frasi e parole), che deve restare inalterabile, e il «genio retorico», cioè lessico e stile, che può trasformarsi e ampliarsi in relazione all’evoluzione dei tempi e al progresso (Parte III, XIX). I cambiamenti nel lessico possono avvenire per ampliamento o restringimento semantico di un termine, per introduzione di neologismi derivati da dialetti o da lingue straniere, antiche (greco e latino, anche se si auspica una diminuzione dei grecismi nel linguaggio scientifico) e moderne. A parere di Cesarotti, tutti i dialetti, purgati dagli idiotismi plebei, possono contribuire all’arricchimento della lingua italiana. Una volta entrati nell’italiano, forestierismi e neologismi producono legittimamente nuovi traslati e parole derivate seguendo le regole grammaticali tradizionali: così, per es., ammesso il sostantivo elettricità, è ammessa anche l’espressione «si elettrizzi lo spirito» (Parte III, XIV).
Nell’ultima sezione del saggio, Cesarotti suggerisce soluzioni pratiche alla questione della lingua e affronta il tema del rinnovamento della lessicografia. Propone di istituire un «Consiglio nazionale» della lingua (Parte IV, XV) al posto della Crusca, la quale, nel momento in cui Cesarotti scriveva, non aveva più autonomia, perché fusa dal 1783 con l’Accademia Fiorentina; ➔ accademie nella storia della lingua). I membri del Consiglio, scelti tra gli intellettuali di tutte le regioni d’Italia, avrebbero dovuto lavorare alla compilazione di un vocabolario etimologico italiano e di un nuovo vocabolario italiano, senza arcaismi, con attestazioni di autori dimenticati dalla Crusca, e ricco di termini delle arti e delle scienze, raccolti nelle varie zone d’Italia. I criteri di compilazione si discostavano quindi da quelli del tradizionale vocabolario della Crusca, che era arrivato alla quarta edizione. Il nuovo vocabolario italiano avrebbe dovuto uscire in due forme: una ridotta, divulgativa e pratica, per uso comune, l’altra ampia, per uso scientifico, con i lemmi ordinati per radici, e con informazioni etimologiche, storiche, filologiche e comparative.
Le argomentazioni che Cesarotti trasse dalla filosofia sensista francese, presenti in gran numero nel Saggio sulla filosofia delle lingue, erano già state da lui in parte adoperate nelle prolusioni latine, composte nel 1769 e negli anni immediatamente successivi, con l’intento di teorizzare la sua esperienza linguistica caratterizzata da soluzioni di mediazione tra tradizione antica ed esigenze moderne. L’intimo legame tra lo sviluppo delle lingue e quello della civiltà delle nazioni che le parlano era stato rilevato nella De linguarum studii origine, progressu, vicibus, pretio; la teoria illuministica dell’origine naturale, meccanica, del linguaggio era stata illustrata nella De naturali linguarum explicatione; la distinzione tra il linguaggio poetico immaginoso e il linguaggio oratorio, che invece obbedisce alla ragione e alla logica, era stata operata nella De universae et praecipue graecae eloquentiae originibus (questi interventi in latino si leggono nel vol. XXXI delle opere complete).
Le idee e le proposte del Saggio sulla filosofia delle lingue, pur largamente conosciute e discusse, non ebbero presa sui contemporanei e furono accantonate nel giro di pochi anni, soffocate dal successo del ➔ purismo primo-ottocentesco. Benché le posizioni di Cesarotti fossero moderate ed equilibrate, l’ambiente purista accusò lo studioso padovano di ‘lassismo’, giudicando permissiva la sua apertura verso i prestiti francesi. Già dopo la prima edizione del saggio, gli furono mosse critiche dall’abate vicentino Garducci, pseudonimo di Giambattista de Velo (ricordate nell’Avvertimento degli editori posto in chiusura del Saggio nell’ed. del 1800), seguite da quelle del conte piemontese Gianfrancesco Galeani Napione, al quale Cesarotti rispose aggiungendo in appendice all’edizione definitiva del suo trattato alcuni Rischiaramenti apologetici e una lettera indirizzata al conte stesso.
Solo pochi intellettuali di inizio Ottocento accolsero, almeno in parte e non in maniera dichiarata, l’eredità illuminista cesarottiana: talora furono classicisti, come ➔ Vincenzo Monti (➔ classicismo), talora romantici, come Ludovico di Breme. Il nome di Cesarotti venne tuttavia sempre menzionato con una certa cautela. Nella seconda metà dell’Ottocento, De Sanctis guardò finalmente al Saggio sulla filosofia delle lingue come all’«emancipazione della lingua dall’autorità e dall’uso in nome della filosofia e della ragione» ravvisando in quell’opera «lo spirito moderno, che violava quelle forme consacrate e fossili, logore per lungo uso, e dava loro un’aria cosmopolitica, l’aria filosofica, a scapito del colore locale e nazionale» (De Sanctis 1968: 770). Ma ancora a inizio Novecento il saggio linguistico di Cesarotti non riscuoteva consensi (cfr. Trabalza 1908). Il valore del saggio fu pienamente riconosciuto solo verso la metà del Novecento con gli studi di Schiaffini (19532; ma lo studio risale al 1937) e, soprattutto, di Nencioni (1983, ma lo studio risale al 1950), grazie al quale a Cesarotti è stato assegnato un posto di rilievo tra i predecessori dei moderni linguisti; Simone (2002) sottolineò le intuizioni tipologiche di Cesarotti, ponendolo in relazione con Leopardi.
Cesarotti Melchiorre (1772), Poesie di Ossian, edizione II ricorretta ed accresciuta del restante dei componimenti dello stesso, 4 tt., Padova, presso Giuseppe Comino.
Cesarotti, Melchiorre (1800-1813), Opere, Pisa, Tipografia della Società letteraria; Firenze, Molini e Landi; Pisa, Capurro, 40 voll.
Bigi, Emilio (a cura di) (1960), Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, in Dal Muratori al Cesarotti, Milano - Napoli, Ricciardi, 5 voll., vol. 4°.
Della Corte, Ileana (1997), Gli aggettivi composti nel Cesarotti traduttore di Ossian, «Studi di lessicografia italiana» 14, pp. 283-346.
De Sanctis, Francesco (1961), Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, Milano - Napoli, Ricciardi.
De Sanctis, Francesco (1968), Storia della letteratura italiana, a cura di G. Contini, Torino, UTET.
Nencioni, Giovanni (1983), Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Bologna, Zanichelli, pp. 1-31.
Marazzini, Claudio (1999), Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull’italiano, Roma, Carocci.
Puppo, Mario (a cura di) (19662), Discussioni linguistiche del Settecento, Torino, UTET.
Roggia, Carlo E. (2007), La lingua dell’“Ossian” di Cesarotti: appunti, «Lingua e Stile» 42, 2, pp. 243-281.
Schiaffini, Alfredo (19532), Aspetti della crisi linguistica italiana del Settecento, in Id., Momenti di storia della lingua italiana, Roma, Studium, pp. 91-132.
Simone, Raffaele (2002), Esiste il genio delle lingue? Riflessioni di un linguista con l’aiuto di Cesarotti e Leopardi, in La parola al testo. Scritti per Bice Mortara Garavelli, a cura di G.L. Beccaria & C. Marello, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2 voll., vol. 1°, pp. 415-429.
Speranza, Lucia (2007-2008), Sulla lingua del Cesarotti ossianico, «Lingua nostra» 68, pp. 9-20, 73-81; 69, pp. 38-50, 86-93.
Trabalza, Ciro (1908), Storia della grammatica italiana, Milano, Hoepli.