Delfico, Melchiorre
Filosofo e uomo politico (Leognano, Teramo, 1744 - Teramo 1835), esponente di spicco dell’Illuminismo meridionale, D. ebbe una parte significativa nella vita non soltanto culturale, ma anche politica e amministrativa dello Stato napoletano fra ancien régime, età rivoluzionaria e napoleonica, e Restaurazione. Formatosi alla scuola delle correnti empiristiche e sensistiche dei suoitempi, tra John Locke, Étienne Bonnot de Condillac e Antonio Genovesi, D. mantenne fede fino agli ultimi anni a questo tipo di formazione, fondamento teorico d’un riformismo che lo vide in prima fila nel tentato ammodernamento delle strutture economiche e giuridiche del Regno. Si trattava di un riformismo che il periodo rivoluzionario non muta in giacobinismo: in quei tempi non facili, la posizione di D. fu lontana dal radicalismo e dall’eccesso di altri intellettuali meridionali. Dopo un lungo esilio nella Repubblica di San Marino (1799-1806), gli anni dell’impero e della Restaurazione lo trovarono nuovamente impegnato sul fronte dell’attività politica, alla quale s’accompagnò una produzione filosofica e storica destinata a prolungarsi sin quasi al termine della sua lunghissima vita.
L’interesse di D. per M. si colloca all’insegna d’un sostanziale antimachiavellismo. In D. sembrano prevalere le ragioni del dissenso, della presa di distanza, peraltro non aprioristica o viscerale, ma disponibile a riconoscere, accanto ai limiti, i pregi d’uno scrittore del quale non si nega la grandezza. L’opera capitale da lui dedicata a M. – le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino – appartiene agli anni della vecchiaia. La precedono nel tempo le succinte annotazioni che si leggono in testi come il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale (1782), che nella condanna delle truppe mercenarie risente di note tesi machiavelliane, o come i Pensieri su l’istoria (1808), dove M. è riprovato per la sua ammirazione della romanità e per aver condiviso il «pregiudizio» avverso alla «più bella metà della specie» (per es., in Discorsi III xxvi: «Come per cagione di femine si rovina uno stato»). Quanto alle Osservazioni, esse ci sono pervenute in due stesure preparatorie – risalenti agli anni Venti dell’Ottocento e pubblicate nel 1986 da Adelmo Marino – verosimilmente destinate a metter capo a una redazione definitiva di cui non sembra esistere traccia. A M. il D. delle Osservazioni s’avvicina con un atteggiamento disincantato, nel quale le ricorrenti espressioni di stima non attenuano la severità d’un giudizio che nell’insieme suona sfavorevole, ancorché i limiti dell’opera machiavelliana siano addebitati, prima e più che all’autore stesso, all’impasto di violenza e d’incultura che egli ritiene caratteristico del tempo in cui M. visse. Condivisa appare l’esigenza della rigenerazione dell’Italia, condiviso l’affidamento della stessa a un sovrano consapevole delle esigenze del popolo, e capace di farselo amico; s’aggiunga la convergenza sul terreno dell’istituzione militare, con D. che non soltanto approva la critica delle milizie mercenarie, ma ritiene prioritaria, agli effetti del buon funzionamento degli eserciti, un’autentica e non superficiale consonanza fra gli interessi del principe e dei combattenti.
Assai più fitto l’elenco delle ragioni di dissenso. D. non accetta la dissociazione della politica dalla morale, chiave di volta del pensiero machiavelliano. Né consente con la rappresentazione negativa della religione cristiana, che sarebbe il frutto di un’indebita confusione fra il cristianesimo in quanto tale e lapolitica ecclesiastica. È necessario distinguere, e una volta distinto condannare unicamente la seconda, sulla quale il verdetto di D. non è meno severo di quello del Segretario fiorentino. Scarsa la simpatia di D. per quella religione dei Romani che M. celebra nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio come essenziale cemento della civiltà in questione. Ma qui è inevitabile allargare il ragionamento: poiché è la romanità nel suo complesso a essere censurata dallo scrittore, che già nei Pensieri citati più sopra, dissociandosi tanto da M. quanto da Montesquieu, aveva etichettato i Romani come un popolo barbaro e superstizioso. Inevitabile, stando così le cose, la presa di distanza dai Discorsi machiavelliani; alla quale concorre per la sua parte anche un rilievo circa la struttura dell’opera: sarebbero i Discorsi un lavoro «senza scopo particolare, senza metodo, e che si può dir mancante di principio e di fine» (Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, in Marino 1986, p. 68), privo insomma d’un disegno e d’un centro ragionativo. D’altronde a un illuminista come D., animato da una profonda fiducia nella progressività della storia, difficilmente poteva risultare accettabile la promozione dei Romani a modello per le generazioni successive; e tanto meno la necessità, asserita da M., di rifarsi periodicamente alle origini, al fine di recuperare allo Stato la presunta perfezione della sua fase aurorale. Altrettanto inaccettabile sarebbe la nozione machiavelliana di quei due principi basilari del vivere associato che si chiamano libertà e uguaglianza. Manca, dell’uno e dell’altro, una definizione approfondita, che eviti allo scrittore di vagare «nell’incertezza, e quindi, nell’oscurità» (Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, in Marino 1986, p. 63): ma di tale mancanza sarebbe responsabile, ancora una volta, non tanto l’autore quanto il milieu storico-culturale che lo circondava.
Bibliografia: F. Venturi, Nota introduttiva a M. Delfico, in Id., Illuministi italiani, t. 5, Riformatori napoletani, Milano-Napoli 1962, pp. 1161-88; A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Chieti 1986; G. Carletti, Melchiorre Delfico, Pisa 1996.