GIOIA, Melchiorre
Scrittore e uomo politico, nato a Piacenza il 20 settembre 1767, morto a Milano il 2 gennaio 1829. Orfano, uno zio materno gli fece percorrere i primi studî nel liceo S. Pietro di Piacenza. Vestito l'abito ecclesiastico, il G. entrò nel collegio Alberoni (2 novembre 1784); e ivi incontrò maestri che seguivano correnti di sinistra sì in filosofia come in teologia, prossime a Condillac le une, a Giansenio le altre, onde venne al G. un orientamento mentale di carattere niente affatto ortodosso. Ordinato sacerdote, uscì di collegio nell'agosto del 1793 e si recò in Piacenza presso un fratello. La politica non lo seduceva se non per dir male del duca Ferdinando. Si sentì giacobino, simpatizzante con le idee di Francia, e quando Piacenza divenne centro di cospirazioni politiche, e i numerosi inviati di Parigi favorivano i piani annessionisti del Direttorio sotto colore di libertà popolare, il G. si unì con gli elementi locali che, persuasi che la sterilità del ducato provenisse dalla sua ristrettezza e clausura, profittavano dell'opera francese per preparare un'insurrezione che aggregasse Parma e Piacenza al Milanese. Dei suoi ideali fortemente unitarî il Gioia fece argomento di particolare trattazione in una memoria inviata nel 1797 da Piacenza all'amministrazione generale di Lombardia, coraggiosa risposta al problema messo a concorso: "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia" (27 settembre 1796). Il G. vi propugna una sola repubblica indivisibile, illustrando i vincoli geografici, linguistici, storici, religiosi, economici della penisola; sconsiglia, per l'attuazione di essa, un'azione violenta, e descrive i mezzi e le precauzioni necessarî a ottenere per gradi e per consensi la scomparsa dell'antico regime. La dotta dissertazione ottenne il premio; ma il G. ricevette la notizia del premio in carcere, ove dal 17 marzo giaceva sotto l'accusa di avere celebrata per scopo di lucro più di una messa al giorno: in realtà per sospetto di giacobinismo. Il 10 maggio da Piacenza fu trasferito a Parma per subire il processo di lesa maestà in compagnia di molti altri Piacentini. Liberato per intervento del Bonaparte, riparò subito a Milano (novembre 1797), ove lo chiamava il Consiglio degli Iuniori nominandolo suo redattore. Ma il trattato di Campoformio ne fece un deciso oppositore della politica francese: gettò l'abito talare, rinunziò alla carica ufficiale e divenne giornalista.
Insieme col Foscolo e col vicentino Breganze fondò il Monitore Italiano (20 gennaio 1798), ove sottopose a critica le opere del Direttorio in Italia, che gli sembravano opere di violenza. Il Monitore fu soppresso (13 aprile 1798; n. 42°). Il G. proseguì per la stessa via, scrivendo una quantità di opuscoli che ora difendevano il clero dagli eccessi repubblicani, ora i repubblicani dal dispotismo di Parigi, ora il popolo dalle coscrizioni militari a servigio di Bonaparte, vagheggiando sempre l'idea di uno stato italiano indipendente da quello francese. Il 22 agosto 1798 fondò Il Censore, con uguali intenti; ma il giornale fu proibito dopo il quarto numero, e il G. fu esiliato (16 settembre). Riammesso in Milano l'anno dopo, fondò un altro giornale, la Gazzetta nazionale della Cisalpina, che poté vivere pochi giorni; e quindi il Giornale filosofico-politico, dalle cui colonne, nell'aprile del '99, dirigeva una lettera aperta al duca Ferdinando per sfogare la vecchia collera contro i danni patiti nel '96, chiedendo un'indennità di ottomila lire. Cadde in cattivo momento. Gli Austro-Russi prendevano la rivincita su Bonaparte: la Cisalpina era agonizzante. L'incauto giornalista fu arrestato per opera del rappresentante parmense e del ministro spagnolo e solo dopo 14 mesi di carcere giunse a liberarlo la vittoria di Marengo. Il G. rientrò in Milano.
La seconda Cisalpina, meno scapigliata, gli prometteva giorni più quieti. Chiese e ottenne la nomina di storiografo della repubblica. Ma storico non fu; si diede all'economia e scrisse Sul commercio dei commestibili, ispirato da tumulti per il rincaro del pane; a cui seguì un Ragionamento sui destini della Repubblica Italiana (maggio 1803), favorevole commento all'opera di riordino del vice-presidente Melzi. Un libro sul divorzio, difeso edonisticamente, lo mise in disgrazia del governo e gli fece perdere l'ufficio di storiografo. Ma, perseverando in lavori di economia, apprezzati per inchieste realistiche sui dipartimenti d'Olona e del Lario, riebbe il favore e con esso un impiego nella polizia (28 novembre 1805) del regno d'Italia. Carica inadatta, donde fu tolto per esser preposto alla direzione dell'Ufficio di statistica. Quivi spirava un'aria veramente conforme alla natura del suo ingegno. Il G. sente la necessità, per amore di precisione matematica, di esprimersi statisticamente. E, con febbre di scienziato, iniziò lavori di tabelle, quadri sinottici, raffronti demografici, ecc., e andò tant'oltre da suscitare polemiche sopra i fini della statistica. Il dibattito degenerò in personalismi e il G. perdette l'impiego e, successivamente, fu confinato in Castel S. Giovanni. Restituito a Milano, sul finire del 1811, riprese i suoi lavori di statistica, ma sotto forma di privato cittadino sovvenuto dal governo. Nell'aprile del 1814 il crollo del regno d'Italia apriva al G. un periodo di studî fecondi e più liberi, di carattere economico (Nuovo prospetto delle scienze economiche, Milano 1818-19) o sociale (Del merito e delle ricompense, Milano 1818) o filosofico (Ideologia, 1822; Esercizio logico sugli errori, 1824; tutti e tre messi all'Indice). Ma il fecondo lavoro fu interrotto da un arresto per sospetto di cospirazione patriottica a danno dell'Austria, determinato dalla familiarità che il G. dimostrava con la casa del conte Porro Lambertenghi e con il cenacolo del Conciliatore. Arrestato il 20 dicembre 1820, fu liberato il 10 luglio 1821. Continuò a vivere fra gli studî, confortato per breve tempo dalla devozione di Bianca Milesi. L'ultima sua opera fu la Filosofia della statistica (1826).
Il G. vive e scrive nel momento del maggior contrasto fra le vecchie e le nuove idee; il suo pensiero ha l'impronta di questo contrasto. Facile all'entusiasmo per ogni promessa di grandezza all'Italia, risente dell'enciclopedismo umanitario e della sua superficialità; e nello stile stesso si avvertono stridori e deficienze: all'eleganza e alla correttezza si sostituisce la verbosità del tribuno repubblicano.
Mente enciclopedica, il G. trattò di tutti i problemi sociali del suo tempo. Di questioni metafisiche non si appassionò. Al problema delle cause antepone il problema delle leggi ("mi limito ad osservare gli effetti") che intende stabilire per trarne un utile. Insiste nel concetto che giudicare è sentire: ma il suo sensismo non è assoluto. Anzi ammette l'impossibilità di spiegare tutti i prodotti dello spirito con le semplici sensazioni e con l'associazione di queste. Abbandona a poco a poco il punto di vista del Condillac e presenta una dottrina delle facoltà psichiche che concede largo posto all'azione dell'intelletto sul materiale grezzo fornito dai sensi. Grande importanza assegna anche, nella sfera della conoscenza, alla tradizione e all'opera del passato. "Lo spirito umano è la somma dei pensieri di tutti gli uomini, dal principio dei secoli sino al presente". Di qui l'alto valore dell'educazione, che il G. considera prima maestra di benessere sociale. Quello stato è più forte che ha un popolo più istruito.
Una posizione più originale occupa il G. nell'economismo del suo tempo, come fondatore della statistica, avendo per primo insegnato "la logica descrittiva della situazione attuale di una nazione", ed essendosi giovato del numero per dare norme di vita pubblica. Seguace della dottrina liberista in tutti i campi, propugnò la libera esportazione, specie nel commercio dei grani.
Un'edizione completa delle opere del G. fu pubblicata a Lugano negli anni 1832-49.
Bibl.: G. D. romagnosi, Elogio storico di M. G., in Biblioteca italiana, fasc. LII, Milano 1829; F. Lampertico, Sulla statistica ... e su M. G., 2ª ed., Roma 1879; F. Momigliano, Un pubblicista econ. e filosofo del periodo napol., in Riv. di filos. e scienze affini, Bologna 1903-1904; L. Mensi, Dizionario biogr. piacentino, Piacenza 1899, p. 208; E. Rota, L'educazione nel pensiero di M. G., in Boll. stor. piacentino, XIII (1918); G. Capone Braga, La filos. franc. e ital. del '700, Arezzo 1920, I, cap. 3°; E. Cacciato, Il pensiero pedagog. di M. G., Acireale 1921; F. Luzzatto, La politica agraria nelle opere di M. G., Piacenza 1929.