Melchiorre Gioia
Considerato ai suoi giorni il grande «restauratore» delle scienze economiche e l’«instauratore» di quelle statistiche, Melchiorre Gioia fu il principale interprete della modernizzazione apportata all’Italia dal dominio napoleonico, e si distinse tra gli economisti del suo tempo per privilegiare sempre «la grande proprietà, […] le arti all’agricoltura, […] i grandi ai piccoli proprietarj, i grandi ai piccoli manifattori, i grandi ai piccoli commercianti, e le grandi alle piccole città» (G. Pecchio, Storia dell’economia pubblica in Italia, 1829, p. 274).
Gioia (o Gioja) nacque a Piacenza il 20 settembre 1767 da una famiglia emergente della borghesia (suo padre era un affermato argentiere). Dopo la precoce perdita del padre (1773) e della madre (1781), entrò al Collegio Alberoni per intraprendere la carriera ecclesiastica, e ne uscì solo nel 1793, dopo essere stato ordinato sacerdote. Si deve alla permanenza presso il prestigioso collegio, centro dell’Illuminismo cattolico, la sua convinta adesione agli ideali democratici, come dimostra la stesura di alcune tragedie di stampo alfieriano, rimaste per allora manoscritte.
Nel 1796, in seguito all’occupazione della Lombardia da parte delle armate francesi, Gioia iniziò a collaborare al milanese «Giornale degli amici della libertà e dell’uguaglianza», e l’anno seguente risultò vincitore del concorso bandito dall’amministrazione generale della Lombardia sul tema Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia.
La vittoria, che ne consacrò definitivamente la figura agli occhi dei contemporanei e dei posteri come antesignano dell’unificazione politica d’Italia in chiave democratica, segnò una svolta decisiva nella sua vita: liberato dal carcere per intervento delle autorità cisalpine (vi era stato rinchiuso per le sue dichiarate simpatie patriottiche), Gioia si trasferì a Milano e si disfece dell’abito talare. Da allora cominciò la sua lunga e specifica carriera di promotore di opinione, intrecciando con il proprio pubblico un accattivante rapporto contrattuale.
Rinchiuso di nuovo nel carcere di Piacenza al seguito dell’avanzata delle armate austro-russe in Italia, dopo la vittoria di Marengo (1800) ritornò a Milano, inframezzando una feconda attività pubblicistica a provvisori incarichi governativi, tutti interrotti a causa della sua intemperanza verbale e caratteriale. Già redattore del Gran consiglio per soli dieci giorni nel 1797, storiografo della Repubblica dal 1801 al 1803, impiegato di polizia presso la prefettura di Milano nel 1805, nel 1807 fu nominato direttore dell’istituendo Ufficio di statistica del Regno, carica dalla quale venne però esonerato già nel 1808 per le sue irriverenti critiche all’establishment napoleonico (salvo poi essere recuperato come redattore di statistiche nel 1810, ma in qualità di «privato scrittore»).
Con la Restaurazione, Gioia s’impose nell’ambiente intellettuale lombardo come uno dei principali intellettuali. Risalgono a questo periodo i suoi maggiori trattati, tra i quali il Nuovo prospetto delle scienze economiche (6 voll., 1815-1817), Del merito e delle ricompense. Trattato storico e filosofico (2 voll., 1818-1819), Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento e relative basi di stima davanti ai tribunali civili (1821), la Filosofia della statistica (1826) e la terza, accresciuta edizione di Il nuovo galateo (1822), opera già pubblicata nel 1802 ma che solo allora conobbe un’ampia diffusione, assurgendo a manifesto dell’etica laica nell’Italia della Restaurazione. Gioia inoltre collaborò estesamente con la «Biblioteca italiana», usandola come vetrina delle proprie dottrine economiche. Morì a Milano il 2 gennaio 1829.
La prima organica opera economica di Gioia, Sul commercio dei commestibili e caro prezzo del vitto, apparve a Milano nel 1802. Ispirandosi alle opere antivincolistiche di Pietro Verri, egli vi delineava il primo abbozzo della sua teoria economica, già chiaramente influenzata dagli scritti di Claude-Adrien Helvétius e Jeremy Bentham: l’affermazione della libertà del commercio interno era sorretta da una visione tutta utilitaristica dell’agire sociale, nella quale l’incontro tra compratori e venditori era assicurato dal tornaconto individuale; ed era proprio quello stesso tornaconto individuale, riconosciuto al cuore del progresso collettivo, che provava l’inefficacia della tradizionale legislazione proibitiva, alla quale Gioia fin da allora suggeriva di sostituire più adeguate misure promozionali: il tutto argomentato attraverso la concreta, minuziosa e ironica volgarizzazione di materiali storici, anticipando caratteristiche proprie dei posteriori lavori statistici e di quelli più propriamente filosofici.
Tuttavia è negli anni successivi che Gioia andò approfondendo la propria proposta economica, al seguito di più agguerrite riflessioni di carattere epistemologico. In stretta aderenza con le acquisizioni filosofiche maturate nell’ambiente degli idéologues francesi, anche Gioia dovette ricredersi sullo spontaneo convergere di ragione e volontà asserito dalla settecentesca analisi delle idee. Non era quindi sufficiente scommettere sulle utilità marginali dei singoli per promuovere il progresso economico, proprio perché non era univoco l’apprendimento della realtà. Scriveva Gioia:
È facile annoverare le idee, la difficoltà sta nel pesarle. Il piacere e il dolore dipende spesso dal temperamento diverso in ciascun uomo; il timore e la speranza dall’immaginazione, parimenti diversa in tutti gli individui; quindi quello che sembra utile, e vero ad alcuno deve necessariamente sembrare dannoso e falso ad altri (Logica statistica [Appunti], Milano, Biblioteca braidense, AF XIV 5 n. 1, c. 53r).
Da questo punto di vista la statistica, presentando la realtà secondo un ordine logico predeterminato, tale da attivare quella «sensazione unica ed esclusiva» (Logica statistica, 1808, p. 69) che corrisponde all’attenzione, acquisiva agli occhi di Gioia il carattere di una vera e propria logica descrittiva. Scomponendo i fatti secondo un principio analitico e un ordine logico predeterminato, le tabelle statistiche potevano innescare comportamenti indirizzati al perseguimento dell’utile individuale bene inteso e a indirizzare in modo appropriato l’azione pubblica. Gioia in un certo senso intuì il ruolo innovativo che avrebbero svolto le tabelle in una società soggetta a repentine trasformazioni e bisognosa di dati e fatti con cui orientarsi: come pochi altri comprese che alla statistica sarebbe spettato, nel secolo che stava appena iniziando, un posto d’onore nella gerarchia dei saperi e che quella, e nessun’altra, sarebbe stata la «ragione operativa» (A. Desrosières, La politique des grands nombres. Histoire de la raison statistique, 1993) che avrebbe inciso sulla pubblica opinione.
È tuttavia palese che per Gioia la stessa articolazione delle indagini statistiche presupponeva la consapevole adozione di precisi obiettivi economici, tanto che la genesi del suo maggiore trattato – il Nuovo prospetto delle scienze economiche – matura negli anni in cui Gioia era direttore dell’Ufficio di statistica: lo dimostra il progetto dell’opera presentato al viceré Eugène de Beauharnais il 4 giugno 1807 (in appendice a Macchioro in «Bollettino storico piacentino», 1990, pp. 299-302), in cui Gioia si proponeva di dare alla luce i fondamenti teorici delle inchieste che si apprestava a compiere.
Strumento di persuasione per indirizzare la collettività verso traguardi di utilità collettiva, l’accento posto sul ruolo della statistica enfatizzava a sua volta anche l’intervento del governo nell’economia, dal momento che
l’evidenza delle idee più utili non potrebbe molte volte dissipare la nebbia dell’ignoranza, quand’anche la massa del popolo avesse e tempo e voglia di leggere le migliori istruzioni (Nuovo prospetto, 4° vol., 1816, p. 201).
Sulla scia di quanto era appena accennato nel trattato Sul commercio de’ commestibili, Gioia riteneva che le indagini statistiche dovessero servire al governo soprattutto per intraprendere specifiche azioni positive volte a promuovere i comportamenti desiderati. Che il governo dovesse ricorrere agli incentivi piuttosto che ai divieti, alle azioni premiali piuttosto che a quelle punitive, dipendeva dalla sua convinzione che la natura umana fosse retta dal principio del piacere: i comandi che promettevano felicità addizionali apparivano pertanto i più efficaci.
Da questo punto di vista Gioia rispecchiava fedelmente anche la caratteristica più tipica e innovativa degli apparati amministrativi dell’età napoleonica: il loro essere costruttori del sociale invece che custodi della sua autonomia. Tanto che il sottotitolo della sua opera maggiore chiama in causa questa nuova attività amministrativa, equiparando le scienze economiche alla «somma totale delle idee teoriche e pratiche in ogni ramo d’amministrazione privata e pubblica».
Il Nuovo prospetto si apre con un’esplicita menzione delle convinzioni antropologiche di Gioia: «La somma totale delle azioni umane tende a far cessare un dolore od a produrre un piacere, qualunque ne sia la specie» (1° vol., 1815, p. 1) e ricchezza, allora, equivale a «tutto ciò che può soddisfare un bisogno, procurarci un comodo od un piacere» (p. 63). In un certo senso l’agire economico costituisce la quintessenza dell’attività umana e, alla luce dell’idraulica dei piaceri e dei dolori che dà il tono al trattato, esso si caratterizza per «1° Ridurre gli sforzi al grado minimo; 2° Portare l’utilità al grado massimo; 3° Produrre con forze addizionali ciò che sarebbe impossibile all’uomo privo di esse» (p. 49).
In tale processo l’uomo non può essere considerato avulso dal contesto in cui agisce, né, come ricordano le «forze addizionali» richiamate da Gioia, un individuo privo dei mezzi che quel processo facilitano e rendono possibile. Solidale alla propria concezione antropologica, egli dimostra tuttavia di avere una nozione assai ampia di queste forze. Per «forze addizionali», infatti, bisogna intendere tutto ciò che accresce «la cognizione, la volontà, il potere dell’uomo in modo da ridurre a zero la resistenza degli oggetti esteriori» (p. 56).
Se per potere Gioia allude agli strumenti fisici, immediati e mediati, che consentono la creazione di ricchezza (il capitale, le macchine, il credito), cognizione e volontà meritano una qualche spiegazione. Entrambe, infatti, rispecchiano fedelmente le aspettative del mondo nuovo apportato dalla dominazione napoleonica. La fiducia nelle conoscenze umane, per cui Gioia sembra quasi scorgere in ciascun oggetto utile una solidificazione d’idee, rispecchia il passaggio da una ragione che si pensava ancora speculativa, come quella illuminista, a una ragione che può finalmente incarnarsi nel mondo circostante, manipolandolo a proprio vantaggio. La volontà, poi, rimanda a quel contesto sociale che, garantendo l’eguaglianza giuridica, consente la sua inconsapevole emersione.
Sulla base di tali premesse, è impossibile per Gioia distinguere tra lavoro produttivo e improduttivo: tutti coloro che estinguono bisogni e procurano piaceri cooperano a quella «grande intrapresa» che collima con la società civile. Tale funzione è svolta così dal medico come dall’avvocato e dal domestico, e un ruolo di tutto rispetto in questo contesto di intense interazioni sociali svolge il commercio, che garantisce l’adattamento dei beni tra produttori e consumatori: il commercio, infatti, secondo Gioia,
né accresce né scema nel numero o nel peso i risultati dell’agricoltura e dell’arte, ma agisce sopra quelli e questi in modo che compariscono nuovi prodotti ove non esistevano, e, ove esistevano sparsi, ne forma ammassi in situazioni facilmente accessibili, affine di venderli a chi ne abbisogna (p. 36).
Anche lo Stato, che incarna l’azione collettiva, converge per Gioia verso uno scopo che è solidale a quello dell’economia: con la garanzia dei diritti, innanzi tutto, ma anche con gli incentivi, in modo da «indurre ciascuno a porre il massimo caratto [sic] nella produzione nazionale, ossia ad impiegarvi tutte le sue forze» (4° vol., cit., p. 194).
Lo Stato, cioè, finisce per divenire, in ultima analisi, una delle funzioni della società civile, e se ne valorizza pertanto l’azione tecnica, come la diffusione delle cognizioni necessarie allo sviluppo, che era stata appunto quella dello stesso Gioia al servizio degli apparati napoleonici.
Premesso dunque che con l’aggettivo economico Gioia delinea la trama virtuosa che avrebbe dovuto assumere la società civile uscita dal parto rivoluzionario, vanno evidenziate comunque le soluzioni da lui proposte per conseguire un tale obiettivo, soluzioni che lo distanziano dagli economisti coevi.
La prima in ordine d’importanza, secondo l’opinione di Gioia e di molti suoi contemporanei, è quella dell’associazione del lavoro. Non che Gioia non sia favorevole al principio smithiano della divisione del lavoro, come fattore razionale di organizzazione dello stesso e come mezzo per diminuire nei processi produttivi l’aliquota di capitale. Ma l’associazione – un principio, a suo dire, su cui tutti i precedenti scrittori di economia «passarono sopra […] come un cieco passerebbe in una galleria di quadri» (4° vol., cit., p. 88) – è un principio che Gioia sembra particolarmente valorizzare. Essa, a suo dire, si dimostra indispensabile in una serie di circostanze: quando la resistenza degli oggetti supera la forza degli individui isolati; quando il tempo occorrente per la lavorazione isolata del prodotto procurerebbe il deperimento dello stesso; quando alla penuria di capitali bisogna supplire con le forze fisiche, e soprattutto quando un’impresa richiede grandi capitali. Se si riflette che la divisione del lavoro presuppone lo scambio, in questa valorizzazione del principio dell’associazione Gioia sembra rispecchiare la situazione del mercato italiano, asfittico, povero di capitali e ancora lontano dai moderni traguardi produttivi.
È ancora con riferimento al momento produttivo colto dal punto di vista dell’individuo agente che ricusa il dolore e ricerca il piacere che Gioia definisce il valore. Se è il piacere più che il bisogno ciò che stimola la produzione – «la speranza de’ piaceri agisce quasi nello stesso tempo che agisce il dolore de’ bisogni, e mentre questo cessa subito, quella continua con estensione indefinita» (4° vol., cit., p. 88) – il lavoro, in quanto ridotto a pena, fatica, dolore non ha rilevanza come fine della società economica (come, per es., prima di lui aveva affermato Cesare Beccaria), ma lo riacquista con ben diverse valenze positive nella valutazione del prodotto finale.
Nella massima gioiana – «ottenere il massimo prodotto con la minima spesa» – il vocabolo spesa rimanda, in un significato anomalo rispetto alla dizione usuale, al costo soggettivo o sociale che accompagna la produzione. Ovviamente Gioia non sottovaluta il risultato dell’attività lavorativa: produrre significa «combinare le cose in modo che ne risulti un’utilità che non esisteva» e l’adesione a questa massima, ripresa da Jean-Baptiste Say, introduce un criterio oggettivo nel discernere lo sforzo degno di considerazione. Ma il valore, negli «stati inciviliti», comprende l’utilità e il «travaglio», rimanda a oggetti utili che costarono fatica. Va tuttavia notato che questa nozione di valore non incide minimamente sulla teoria dei prezzi. Come posto in luce da Piero Barucci (1965, p. 62), una volta prodotti, i beni circolano seguendo criteri di scambio indipendentemente dal valore-sforzo necessario a produrli. Il prezzo è invece l’esito dell’incontro sul mercato della domanda e dell’offerta relative alla merce considerata, sulla base di una serie indefinita di variabili che influenzano il potere contrattuale degli agenti (il loro numero, l’intensità dei loro bisogni, le quantità delle merci domandate e offerte, le attese dei prezzi futuri). Il prezzo di un bene potrà variare tra un minimo, che corrisponde alle spese di produzione, a un massimo, equivalente alla «pena che proverebbe eseguendolo chi lo chiede» (Nuovo prospetto, cit., vol. 3°, 1815, p. 34). Se Gioia dunque abbandona la sua teoria del valore-sforzo quando affronta la teoria dei prezzi, è con il medesimo sguardo antropologico che l’analizza, giungendo a conclusioni non distanti da quelle che saranno poi degli economisti neoclassici.
Per quanto Gioia consideri la produzione frutto del concorso delle diverse attività lavorative, un soggetto soprattutto si staglia nelle sue pagine, ed è quello dell’«intraprenditore». Anello di congiunzione fra il mondo dei fattori produttivi, il processo di produzione e il mercato dei prodotti, esso è il soggetto umano che giustifica la preferenza accordata da Gioia alle attività economiche di grandi dimensioni, perché è in tali contesti che soprattutto la sua figura diventa necessaria.
Non obbligatoriamente fornito di capitali propri, ma dotato di solidi principi etici – «aspettare gli eventi, prevederli, prepararli, farli nascere, restare impassibile ai casi avversi, non lasciarsi sconcertare dagli improvisi, correggere prontamente ove sia successo abbaglio, opporre fronte di bronzo alle censure degli ignoranti» (3° vol., cit., p. 213), sono solo alcune qualità esemplificative richieste all’esercizio di questa attività economica – l’imprenditore condensa le qualità più salienti del nuovo mondo produttivo di Gioia. È lui infatti che, dotato di «volontà», riesce a creare quel cortocircuito tra il «potere» (i capitali e gli operai) e la «cognizione» (le innovazioni tecnologiche dovute ai «dotti» che abbreviano il processo produttivo), portando a compimento gli scopi che Gioia addossa all’economia.
L’imprenditore, in un certo senso, è quel soggetto che, in quanto quintessenza della mobilità sociale, è in grado di trascendere gli sconfortanti dati offerti dalla realtà economica che Gioia si trova di fronte, agendo in maniera non vincolata rispetto alle risorse disponibili.
Sotto la direzione degli intraprenditori, le lane della Spagna vanno a maritarsi in Sedan coi colori dell’America, il ferro della Svezia scende nel mare per essere cambiato in acciaio a Birmingham, la seta d’Italia trasportata tra i ghiacci della Russia adorna il trono delli Czar (p. 215).
Quello di Gioia è tuttavia un imprenditore che si riassume tutto nelle sue qualità personali, e non per il reddito guadagnato: al contrario degli economisti classici, risparmio e investimento esulano dalle riflessioni gioiane, e il suo imprenditore, che pure predilige la produzione su larga scala, non attinge diversità di funzioni per effetto dell’accumulazione del capitale. Anzi, possiamo dire che per Gioia l’imprenditore può definirsi tale perché è al cuore di quello «stato costante di carestia», da lui individuato come motore del processo di civilizzazione. Sia perché è l’agente che contribuisce di più a far crescere, con l’innovazione, il numero dei bisogni, innescando quindi nella società il desiderio di soddisfarli, sia perché è lui stesso a incarnare l’incertezza, nella sua aurorale condizione di «uomo nuovo».
La totale sottovalutazione dell’importanza del risparmio in una società industriale è strettamente correlata al ruolo strategico che egli affida ai consumi nel proprio universo economico. Consapevole di distanziarsi da Say, sostenitore in proposito di «idee metafisiche-monastiche», Gioia, abbandonata la distinzione tra consumi produttivi e consumi improduttivi, considera ogni consumo di per sé produttivo, in quanto incentivante ulteriore produzione.
Sono poi proprio i consumi superflui quelli che Gioia ritiene i più essenziali: dal punto di vista dell’organizzazione sociale, perché, appetiti da molti ma goduti da pochi, sono uno stimolo a migliorare le singole prestazioni lavorative; dal punto di vista dello sviluppo economico, perché il venir meno dei settori produttivi legati ai consumi di lusso avrebbe fatto calare i prezzi dei beni necessari, riducendo l’economia a uno stato stazionario.
Il consumo, allora, rappresenta, come l’imprenditore, l’aspetto dinamico del sistema: se la domanda di beni di consumo è alta, crescono gli investimenti e l’offerta di lavoro; se poi il consumo è qualitativamente variegato le imprese saranno stimolate ad ammodernarsi dal punto di vista tecnologico, garantendo lo sviluppo complessivo. L’eventuale contraddizione che un aumento della produzione sia possibile senza un correlativo aumento di capitale per Gioia non si pone: la sagacia e l’intelligenza umana, apportando economie di scala, razionalizzazione nei processi produttivi e nella distribuzione, sono ai suoi occhi fattori molto più rilevanti ad assicurare il progresso collettivo.
L’umanesimo soggiacente a questa convinzione informa anche il nesso che Gioia instaura tra consumo e piacere. Se la ricchezza è l’insieme dei piaceri «di cui partecipa la popolazione», il consumo allora è un premio indispensabile a chi ha prodotto con fatica. Colta da questo punto di vista, la produzione aumenta «a misura che cresce la somma delle sensazioni aggradevoli che si possono ottenere travagliando, […] giacché non si produce che per godere» e, benché vari possono essere gli stimoli al consumo, «pure il più generale e il più costante motivo che spinge a consumare, si è il desiderio di godere» (1° vol., cit., p. 257; 4° vol., cit., pp. 54, 80, 86, 87). Mai partecipe emotivamente delle condizioni di vita dei lavoratori, Gioia tuttavia in questa sua valorizzazione del consumo, inteso come giusta ricompensa del lavoratore, sembra intuire la democratizzazione implicita nel consumismo di massa e auspicarne la realizzazione.
Le opere di Gioia, seppure con alcune errate attribuzioni, furono pubblicate in due serie dall’editore Ruggia:
Opere minori, 17 voll., Lugano 1832-1837, e Opere principali, 16 voll., Lugano 1838-1840.
Un accurato inventario dei suoi manoscritti disseminati in biblioteche e archivi italiani, dei suoi saggi pubblicati sulle riviste e delle numerose ristampe delle sue singole opere fino al 1990, è in:
M. Perugi Morelli, Saggio di bibliografia di Melchiorre Gioia, «Bollettino storico piacentino», 1990, 1-2, nr. monografico: Melchiorre Gioia, 1767-1829. Politica, società, economia tra riforme e Restaurazione, Atti del Convegno di studi, Piacenza 1990, a cura di C. Capra, pp. 393-439.
In epoca posteriore sono apparse due opere di Gioia rimaste fino allora inedite:
Statistica del dipartimento dell’Adda, a cura di F. Sofia, Roma 2000.
Statistica del dipartimento del Mella, a cura di T. Maccabelli, E. Morato, Brescia 2007.
P. Barucci, Il pensiero economico di Melchiorre Gioia, Milano 1965.
A. Macchioro, L’economia politica di Melchiorre Gioia, in Id., Studi di storia del pensiero economico, Milano, 1970, 20062, pp. 27-56.
«Bollettino storico piacentino», 1990, 1-2, nr. monografico: Melchiorre Gioia, 1767-1829. Politica, società, economia tra riforme e Restaurazione, Atti del Convegno di studi, Piacenza 1990, a cura di C. Capra (in partic. F. Sofia, Melchiorre Gioia e la statistica, pp. 249-68; A. Macchioro, La «philosophia naturalis» gioiana dell’economia, pp. 269-302; R. Romani, Un popolo da disciplinare: l’economia politica di Gioia come sapere amministrativo, pp. 303-30; L. Pucci, Un assertore della «forza industriale»: Melchiorre Gioia tra Chaptal e List, pp. 331-42; R. Salvo, Melchiorre Gioia nel dibattito politico-economico in Sicilia (1824-1831), pp. 343-76).
R. Romani, L’economia politica del Risorgimento italiano, Torino 1994, pp. 48-73.
F. Sofia, Introduzione a M. Gioia, Statistica del dipartimento dell’Adda, a cura di F. Sofia, Roma 2000, pp. 9-33.
F. Sofia, Gioia (Gioja) Melchiorre, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 55° vol., Roma 2000, ad vocem.
P. Riillo, Melchiorre Gioia e Achille Loria: un impianto istituzionalistico nel pensiero economico italiano tra Otto e Novecento, «Il pensiero economico italiano», 2005, 2, pp. 231-53.