Memoria e mappa sismica
Il susseguirsi degli eventi sismici negli ultimi cinquant’anni in Italia ha fortemente influenzato lo sviluppo della nostra società e delle comunità locali e il loro rapportarsi ai temi legati ai terremoti, quali la prevenzione, la percezione del rischio, la gestione delle emergenze e la ricostruzione. Come in un percorso evolutivo, il susseguirsi di riflessioni, decisioni, errori e successi ci porta oggi a sottolineare l’importanza di un approccio multidisciplinare al problema dei terremoti. Discipline quali l’ingegneria sismica, la sismologia, l’economia, la sociologia e la storia sono tutte coinvolte, con le rispettive comunità scientifiche, nell’affrontare il tema della memoria dei terremoti e della coscienza collettiva. Innanzitutto il ruolo dell’ingegneria e quello della sismologia sono centrali rispetto a tali obiettivi. Fare questa riflessione aiuta a comprendere quanto sia importante il colloquio e il dialogo tra discipline apparentemente lontane, ma che in realtà sono molto vicine, puntando a obiettivi comuni. A questo scopo possono essere riportati due esempi.
Il primo è relativo al tema della valutazione del grado di sismicità di un’area. Nell’immaginario collettivo, si parla di zone a media, alta o bassa sismicità. Ebbene, come si giunge a queste conclusioni? Senza entrare a fondo nei dettagli, basti sapere che dietro la valutazione della sismicità di un’area vi è uno studio relativo alla ciclicità degli eventi sismici, ovvero alla ripetitività nel tempo di questi avvenimenti, legata essenzialmente a meccanismi geofisici molto complessi che sono spiegati con la teoria delle tettonica a placche. E come quindi è possibile valutare i periodi di ritorno e i livelli di intensità dei terremoti in un’area? Come si giunge alla conclusione che il periodo di ritorno in un’area è trenta o cento anni, o in alcuni casi trecento e in altri mille anni? Per fare ciò si costruisce quello che viene definito un catalogo storico (l’Italia adotta per questo obiettivo il sistema più sofisticato a livello mondiale), ovvero un catalogo dei terremoti che si sono succeduti nel Paese. La parte più corposa del catalogo storico non è stata ottenuta utilizzando misure strumentali di carattere sismologico – in quanto le misure degli eventi sismici sono state avviate solo nel primo dopoguerra –, ma viene ricavata studiando i documenti storici. Esiste quindi un forte interesse ad analizzare i documenti relativi a terremoti e catastrofi, cercando di trasformare le descrizioni e le informazioni dell’epoca in intensità e in dati scientifici. Il catalogo storico dei terremoti italiani è quindi alla base della mappa sismica nazionale, che è una delle più evolute in tutto il mondo. Quindi da un lato la storia millenaria del nostro Paese, dall’altro lo strumento altamente scientifico della mappa sismica, ci aiutano ad affrontare il problema delle catastrofi dei terremoti con cui dobbiamo convivere.
Un secondo esempio, che rafforza la tesi secondo la quale l’approccio multidisciplinare è cruciale per affrontare la questione dei terremoti, riguarda la percezione delle catastrofi da parte delle persone e da parte della società e quanto tale percezione influenzi poi le politiche che si mettono in atto per mitigare le catastrofi. Oggi, fare mitigazione e prevenzione di grandi catastrofi, ovvero fare importanti investimenti economici per rinforzare edifici e infrastrutture, richiede una grande volontà politica; ma una forte volontà politica deriva dal consenso, che a sua volta si forma soltanto se i cittadini imparano a percepire che determinate iniziative politiche producono un’utilità collettiva o personale. D’altra parte, l’utilità connessa a interventi di mitigazione non è immediata, ma si tratta piuttosto di una politica di lungo termine. È per questo che diventa necessario coltivare il tema della memoria legata alle catastrofi avvenute nel nostro Paese, in modo che tutti riescano a guadagnare la giusta percezione del problema attribuendogli l’importanza prioritaria che esso merita. Deve radicarsi il convincimento che per affrontare in maniera adeguata il terremoto e altre catastrofi vanno implementate soprattutto le azioni di mitigazione di cui la politica ha l’obbligo di farsi carico, coadiuvata ovviamente dalla società intera.
La nuova frontiera della ricerca nel settore dell’ingegneria sismica cerca di introdurre nei modelli matematici, che trattano variabili fisiche e meccaniche complesse, anche variabili sociologiche, trasformando il concetto di percezione in una variabile matematicamente e probabilisticamente quantificabile, introducendo quindi fattori socioeconomici in grado di influenzare le scelte delle persone. Risulta quindi cruciale la necessità di inglobare la percezione sociale dei disastri in modelli quantificabili, che favoriscano e guidino il processo decisionale e politico relativo alla mitigazione sismica, con investimenti e risorse, sia economiche sia sociali. Emerge come non esista una netta divisione tra quelle che sono le scienze definite esatte, cioè la parte scientifico-tecnologica, e il grande mondo del sapere umanistico e sociologico e come le due competenze possano e debbano affrontare questi grandi problemi in maniera trasversale e sinergica.
L’analisi della sismicità storica rivela che in Italia ogni 100 anni si verificano in media più di 100 terremoti di magnitudo momento compresa tra 5,0 e 6,0 e dai cinque ai dieci terremoti di magnitudo superiore a 6,0. Di questi, alcuni si sono verificati nel Sud della penisola e in Sicilia (si ricordi il terremoto del 1968 nella valle del Belice), altri nel Centro Italia (con l’Abruzzo in testa) e i restanti nel Nord (soprattutto in Friuli). Tutti eventi, questi, che creano un clima diffuso di allerta e un diverso ordine di percezione da parte della collettività, ovvero il cosiddetto stress massivo collettivo, che permette, cioè, al sistema di rispondere in maniera adattiva ai cambiamenti che si sono verificati. Il processo che governa il disastro sopraggiunto, coerentemente con tale definizione, si può dunque descrivere individuando tre fasi successive: fase di impatto, ovvero l’intervallo temporale durante il quale si svolge l’evento, provocando condizioni, più o meno gravi, di danno e disorganizzazione; fase di emergenza, cioè momento nell’ambito del quale si mettono in atto, a livello sia istituzionale sia informale, i comportamenti collettivi necessari a soddisfare le imminenti necessità della popolazione; fase di ricostruzione, che rappresenta il momento fondamentale ai fini della ripresa dei contesti urbani colpiti e delle popolazioni che li abitano, in cui si concretizza la messa a punto di una strategia politica, sanitaria e sociale.
Il carattere peculiare di un evento sismico è rappresentato dalla ricorrenza piuttosto elevata del fenomeno e dalle costanti e devastanti conseguenze; sorge dunque spontaneo e lecito un quesito: la causa è sempre e solo la conformazione geomorfologica di un territorio o spesso l’umana imprevidenza? A tal proposito, risulta necessario investigare nel dettaglio le caratteristiche di un evento sismico, analizzando l’impatto potenzialmente dannoso che questo ha sull’ambiente, espresso, generalmente, distinguendo la molteplicità di conseguenze che possono rilevarsi indirette e indotte.
Di seguito verranno ripercorsi gli effetti che i diversi sismi susseguitisi negli ultimi cinquant’anni in Italia, a partire dal terremoto in Irpinia del 1962, hanno prodotto sull’uomo e le sue opere e sull’ambiente, focalizzando l’attenzione sulla fase immediatamente successiva alle devastazioni, sul quadro degli interventi adottati, nonché sulle iniziative intraprese per la ricostruzione. Con il passare del tempo e con il verificarsi sempre più incalzante di disastri sismici, la ricostruzione pare aver perso ogni connotazione statica di ripristino delle condizioni precedenti, per assurgere a un complessivo miglioramento delle prestazioni urbane e territoriali, superando diffuse credenze culturali e una visione ‘tecnicistica’ degli interventi.
Si tenterà quindi di mettere in luce, in particolare, gli aspetti più rilevanti delle ricostruzioni, terminate, non ancora concluse o mai iniziate, nei contesti locali devastati dai terremoti, e le inevitabili conseguenze economiche, sociali e politiche da esse scaturite. Infine si illustreranno l’evoluzione della normativa sismica in Italia e la recente storia istituzionale e normativa della protezione civile, evidenziando come questa sia stata fortemente dettata e influenzata dal susseguirsi dei principali eventi sismici della recente storia italiana.
Il terremoto del 21 agosto 1962 fu caratterizzato da tre scosse: alle 19,12, alle 19,21 e infine alle 19,45. L’epicentro fu collocato fra i territori di Montecalvo e Savignano di Puglia, raggiungendo un’intensità del IX grado della scala macrosismica e di magnitudo momento 6,1. Fra le ore 22,15 e le 23,10 si verificarono due ulteriori scosse di rilevante intensità, che accrebbero notevolmente l’entità dei danni. L’attuale conoscenza dei danni prodotti da questo evento, così come desumibile dal Catalogo dei forti terremoti (cfr. Boschi, Guidaboni, Ferrari et al. 2007), è basata prevalentemente sull’analisi di una fonte diretta istituzionale (Ministero dei Lavori pubblici 1963) e su fonti giornalistiche che, nell’insieme, hanno consentito l’attribuzione dell’intensità macrosismica per 262 siti. Le province più danneggiate furono quelle di Avellino e di Benevento. Danni meno gravi, ma comunque cospicui, interessarono anche le province di Napoli, Foggia, Caserta e Salerno.
I soccorsi, in seguito al terremoto verificatosi in Irpinia nel 1962, furono disposti e organizzati principalmente dal ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani (1912-2001) e dal ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo (1921-2000), i quali misero a punto vari provvedimenti, come per es. lo stanziamento di 20 miliardi di lire per la ricostruzione, nuove misure per l’edilizia antisismica, che integravano il vecchio r.d.l. 22 nov. 1937 nr. 2105, e una serie di agevolazioni fiscali e finanziarie per i residenti nelle aree colpite. Purtroppo, però, la macchina dei primissimi soccorsi fu lenta e poco reattiva, e a detta di Taviani ciò si verificò «per un inefficace (se non inesistente) coordinamento dell’emergenza ma anche per il difficile contesto territoriale del Mezzogiorno interno» (Iannino 2011). Nei 39 comuni più colpiti delle province di Avellino e Benevento vivevano in totale 358.000 persone, di cui 16.000 rimasero senza tetto, costrette ad alloggiare in baracche provvisorie. Furono montate, in circa dieci giorni, 18.800 tende normali, oltre 3800 tende di grandi dimensioni e furono allestite 53 mense. Numerosi enti prestarono aiuto alle popolazioni, supportati da iniziative private e locali; dai vigili del fuoco alla Croce rossa, ai vari reparti dell’esercito inviati dal ministro della Difesa, allo scopo di rimuovere dalle macerie i corpi senza vita e gli ultimi superstiti e ad allestire tende e realizzare le baracche destinate a ospitare i sopravvissuti rimasti ormai senza casa. L’amministrazione del Genio civile spese, per gli interventi di primo soccorso (demolizioni, puntellamenti, realizzazione delle baracche e allacciamenti di servizi vari), circa due miliardi e 600 milioni di lire (cfr. Guidoboni, Valensise 2011).
Su richiesta del ministro dei Lavori pubblici Sullo fu approvata, con l’obiettivo di disciplinare l’opera di ricostruzione, la l. 1431 (5 ott. 1962), un documento prescrittivo che poneva finalmente precise disposizioni in favore del risanamento dell’intera struttura abitativa esistente, adeguandola non solo contro il terremoto, ma secondo le esigenze specifiche di ciascuna famiglia. Tale legge fu poi modificata con provvedimenti del 1963 e del 1964 e, infine, integrata dalla l. 373 (28 marzo 1968); questi provvedimenti prevedevano uno stanziamento complessivo di 50 miliardi di lire, ma ciononostante essi si rivelarono inadeguati. Il ripristino del patrimonio edilizio sarebbe dovuto partire dalla GESCAL (Gestione Case per i Lavoratori), che però disattese le previsioni, in quanto portò a termine solo pochi dei progetti originari, tra l’altro con grande lentezza.
Nel 1972, a distanza quindi di dieci anni dal terremoto, il 70% degli edifici danneggiati era ancora rimasto tale, molte famiglie vivevano in case dichiarate inagibili dal Genio civile o nelle baracche finanziate dai fondi messi a disposizione per il primo intervento, in condizioni pessime a livello sia igienico sia di vivibilità. Delusi nelle aspettative riposte nel processo di ricostruzione, molti residenti campani preferirono emigrare nelle città del Nord, ormai totalmente sfiduciati di ottenere l’avvio di sussidi e di finanziamenti pubblici. La figura 1 individua i comuni colpiti e la relativa intensità macrosismica (valutata attraverso la Scala Mercalli-Cancani-Sieberg, MCS, che indica, in una scala da I a XII, l’entità degli effetti di un evento sismico).
Dopo soli otto anni, in Italia, e in particolare nel Sud, si dovette fronteggiare nuovamente il disastro derivante da un terremoto di magnitudo momento 6,3 e di intensità epicentrale del X grado MCS che nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 seminò il panico nella popolazione della Sicilia occidentale, in provincia di Trapani e al confine con la provincia di Agrigento. La zona complessivamente coinvolta dall’ondata distruttiva del sisma fu di circa 6200 km2. Le distruzioni più intense si verificarono nei centri urbani ubicati lungo la valle del Belice, su un’area di circa 100.000 ettari con una popolazione di quasi 200.000 abitanti. L’area dei massimi effetti, ovvero con distruzioni delle unità immobiliari del 100%, fu localizzata nei paesi di Gibellina, di Poggioreale, di Salaparuta e di Montevago. Ad accrescere il bilancio dei danni riportati agli edifici colpiti dal terremoto, contribuirono le scadenti condizioni in cui versava gran parte del patrimonio edilizio: un’edilizia, quella siciliana, tradizionale, sprovvista di regole, realizzata in maniera inadeguata e preservata ancora peggio. I danni maggiori, però, furono quelli in termini di perdita di vite umane: 296 le vittime ufficialmente dichiarate e oltre 600 feriti. I senzatetto furono circa 100.000.
La prima fase dell’emergenza, così come avvenuto in Irpinia pochi anni prima, fu contraddistinta dalla disorganizzazione e dalla lentezza dei soccorsi. Si recarono prontamente nei luoghi del disastro Aldo Moro (1916-1978), al quale la gente chiedeva beni di prima necessità, Giuseppe Saragat (1898-1988), allora presidente della Repubblica, e il ministro dell’Interno Taviani; ma ancora i soccorsi non erano arrivati, il che aggravò la situazione di malcontento generale, provocando, di conseguenza, l’insorgere di numerosi movimenti di contestazione da parte dei terremotati. Le popolazioni del Belice cercarono, infatti, di far sentire la propria voce contro la totale apatia decisionale, attraverso svariate forme di protesta, come la renitenza alla leva e un mese di picchettaggio dei terremotati a Roma, in piazza Montecitorio.
Nella triste consapevolezza della gravità di una situazione generale talmente disastrata, gran parte della popolazione siciliana cominciò ad avvertire la necessità di andar via; è così che si mise in atto un vero e proprio esodo: lo Stato stesso concesse procedure accelerate per il rilascio dei passaporti, rendendo più semplice una prima emigrazione di circa 1000 persone, favorita anche dalla distribuzione di biglietti ferroviari di sola andata per l’estero e aerei per Australia e America del Nord e del Sud. Nei primi giorni furono circa 40.000 i biglietti distribuiti agli sfollati; il governo australiano, inoltre, offrì lavoro e viaggio a chi voleva recarvisi. Il governo italiano, da parte sua, mise in atto numerose agevolazioni fiscali, tra cui la sospensione dei termini di pagamento, l’esenzione venticinquennale dall’IRPEF, l’esenzione decennale per le imprese e l’esonero dai diritti doganali per le donazioni dall’estero nel Belice; ma anche agevolazioni contributive, quali la sospensione di cartelle esattoriali per la riscossione a rate dei contributi e l’esenzione dai contributi in agricoltura, finanziando complessivamente 8375,2 milioni di euro, attualizzati al 2008 (cfr. di Girolamo 2013).
Nel Belice, l’esperienza del terremoto causò uno spietato bilancio in termini di perdite di vite umane e di identità urbane e paesistiche. Intere città rase al suolo furono ricostruite secondo criteri progettuali che prediligevano la velocità di realizzazione e il risparmio economico, dimenticando i reali bisogni della popolazione. Gli organismi con l’ausilio dei quali lo Stato curò il processo di ricostruzione furono fondamentalmente due: l’ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale), al quale furono affidate le funzioni di progettazione dei nuovi piani di trasferimento dei 14 comuni devastati e delle grandi opere di infrastrutturazione primaria nonché la locazione del 15% delle residenze, e l’Ispettorato generale per le zone terremotate della Sicilia, con compiti complementari a quelli dell’ISES.
Per quanto riguarda le scelte di pianificazione territoriale, le responsabilità dello Stato si intrecciarono con quelle della Regione Sicilia, la quale si dimostrò poco capace di espletare efficacemente l’autonomia posseduta nel campo legislativo e urbanistico. Essa decise di suddividere la Sicilia occidentale in nove comprensori comunali, da sottoporre ad altrettanti piani territoriali di scala sovracomunale, i cosiddetti piani comprensoriali.
Sempre nel 1968, una legge regionale obbligò i comuni terremotati non soggetti a trasferimento totale a dotarsi di programmi di fabbricazione da usare in attesa della definizione dei piani comprensoriali; tutti provvedimenti presi in parallelo, che ebbero come unico effetto quello di incrementare la confusione generale. Su iniziativa della regione, inoltre, furono redatti nella prima metà degli anni Settanta anche piani particolareggiati di risanamento degli abitati sopravvissuti al terremoto, tramite gruppi di progettazione locali. Nonostante fossero stati approvati, molti di questi piani non furono realizzati.
I criteri progettuali adoperati per disegnare le nuove città del Belice provenivano da matrici culturali eterogenee, accumunate da una totale estraneità ai luoghi nei quali si doveva intervenire, derivanti sia dalla tradizione razionalista tedesca sia da quella empirista anglosassone sia, anche se in forma più ridotta, dai metodi town design. Il Belice divenne un disinvolto e bizzarro laboratorio architettonico, in cui non si riuscì a trovare un filo conduttore tra le necessità della gente del posto, il territorio e il concetto stesso di nucleo socioabitativo.
Esemplare è il caso della costruzione della nuova Gibellina, il più importante dei paesi distrutti dal terremoto, su cui conversero gli interessi dei politici, dei proprietari dei terreni e delle imprese costruttrici. La sua ricostruzione assunse un particolare significato anche per il tentativo di conferire una nuova identità e un nuovo ruolo culturale alla cittadina, attraverso la consultazione e il coinvolgimento di eminenti esponenti della cultura artistica e la disseminazione di opere d’autore. Il vecchio centro fu abbattuto con la dinamite e poi coperto dal Cretto ideato da Alberto Burri (enorme colata di cemento bianco che compattava i 12 ettari di macerie del centro storico), mentre la nuova Gibellina fu ricostruita 18 km a valle, dove tutt’oggi sorge la Porta del Belice, la stella in acciaio alta 24 metri di Pietro Consagra, che ne rappresenta l’accesso (cfr. Cannarozzo 1995). La storia della ricostruzione del Belice appare davvero interminabile e una buona parte delle responsabilità è imputabile all’inefficace e male organizzata politica economica dello Stato e alla Cassa del Mezzogiorno, incapace di dare una svolta decisiva e di fornire i mezzi necessari alla ricostruzione e alla riqualificazione locale.
Alle ore 21,06 di giovedì 6 maggio 1976, un terremoto di eccezionale intensità sconvolse il Friuli. Numerosi comuni, nel raggio di 60 km dall’epicentro, furono investiti dal sisma. La scossa ebbe una durata di 50 secondi, un breve lasso di tempo che fu, però, sufficiente a causare gravi danni alle abitazioni e alle infrastrutture. L’epicentro fu localizzato presso Tolmezzo, 8 km a nord di Carnia sul Tagliamento. Il sisma colpì una vasta area di circa 900 km2 e fu stimato del X grado della scala macrosismica e di magnitudo momento 6,5. Dopo il disastro del 6 maggio, l’11 e il 15 settembre la terra tremò nuovamente; due scosse che raggiunsero rispettivamente i gradi VIII e IX della scala macrosismica. La prima accrebbe i danni causati dall’evento precedente. Il sisma fu avvertito in tutta l’area veneta e in Slovenia, fino a Bologna, Modena e Firenze, verso sud, e fino a Bolzano, verso ovest, dove crollarono molti edifici già lesionati. Anche lo scuotimento che si verificò il 15 settembre minacciò le città di Bolzano, Gorizia, Venezia, alcune località slovene e austriache e addirittura fu sentito in tutta l’Italia centro-settentrionale, a Vienna, Monaco di Baviera, Stoccarda e Strasburgo. Complessivamente, il bilancio del terremoto del 1976, in Friuli Venezia Giulia, fu di 137 comuni danneggiati, 600.000 persone coinvolte, 965 morti, 2400 feriti, 45.000 senzatetto e 5725 km2 colpiti (cfr. Guidoboni, Valensise 2011). Il sisma del 1976 in Friuli, inoltre, ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica; peraltro fu anche il primo terremoto in cui la diretta televisiva portò le immagini del dolore e della distruzione in tutte le case italiane.
In occasione del terremoto in Friuli, Giuseppe Zamberletti, oggi considerato il padre fondatore dell’attuale sistema di Protezione civile italiana, venne nominato commissario straordinario del governo. Fu impiegato in maniera massiccia l’esercito per il primo soccorso e poi per tutta la fase di emergenza; una reazione, quella approntata in Friuli, celere ed esemplare. A far visita alle popolazioni giunsero molti esponenti politici, tra cui il presidente della Repubblica Giovanni Leone (1908-2001), il ministro degli Interni Francesco Cossiga (1928-2010) e il ministro dell’Istruzione Franco Maria Malfatti (1927-1991). La regione, dal suo canto, istituì un fondo di solidarietà regionale e creò una segreteria generale straordinaria per la ricostruzione che affrontava principalmente i problemi di natura operativa e di coordinamento tra enti locali e regionali, prendendo con fermezza e coraggio decisioni quali lo sgombero delle macerie e le norme sanitarie da adottare, l’esodo di parte della popolazione (anziani e bambini) verso le località costiere, la ripresa delle attività lavorative e dei servizi pubblici. Anche lo Stato contribuì ad agevolare e sostenere la situazione e le operazioni di gestione dell’emergenza, attraverso agevolazioni fiscali, quali la sospensione dei termini di versamento, la sospensione della riscossione IRPEF, IRPEG e ILOR fino al 31 dicembre 1997, l’esclusione dall’imponibile IRPEF di alcuni beni patrimoniali e l’esenzione dall’IVA, dalle imposte di bollo, ipotecarie e catastali legate alla ricostruzione, e per mezzo di agevolazioni contributive, come il trattamento di integrazione salariale, il versamento di assegni familiari, lo sgravio del 50% dei contributi previdenziali e assistenziali, la sospensione dei versamenti contributivi fino al 31 dicembre 1976 (prorogata al 30 giugno 1997) e la sospensione dei contributi dovuti in agricoltura.
La chiave di volta della ricostruzione in Friuli fu il protagonismo dei sindaci. L’allora presidente del Friuli Venezia Giulia, Antonio Comelli (1920-1989), intuì che per ottenere una ricostruzione del tipo ‘com’era e dov’era’ era necessaria la collaborazione dei sindaci; un’idea, questa, che poi venne ben accolta e approvata anche dal commissario straordinario Zamberletti e dal governo guidato da Moro. Vennero quindi concessi ai comuni contributi derivanti dalle leggi nazionali, affinché i sindaci potessero gestire al meglio e rapidamente la ricostruzione. Inoltre, la relativa omogeneità del territorio permise una gestione più idonea della pianificazione: tutte le risorse, infatti, compresi i risparmi privati, furono convogliate verso la ricostruzione abitativa – lasciando poco spazio alla speculazione, molto più diffusa nell’ambito delle grandi opere –, che non a caso fu ultimata in poco più di 15 anni. La politica di ricostruzione, tra l’altro, si sviluppò, dal punto di vista degli strumenti attuativi, attraverso un numero elevato di leggi, alcuni piani comprensoriali, un numero elevato di varianti comunali di ricognizione e infine una quantità massiccia di Piani particolareggiati di ricostruzione. Un altro aspetto da rilevare è la limitata influenza esercitata dalla pianificazione generale, a livello regionale, intercomunale e comunale, sugli orientamenti assunti dalla ricostruzione; fattore, questo, che probabilmente contribuì a rendere tempestivo il processo di ripristino, in quanto il sistema tradizionale di pianificazione urbanistica era estremamente complesso, anche dal punto di vista burocratico.
Il 23 novembre 1980, alle 19,34, una scossa di magnitudo momento 6,9 e di intensità del X grado della scala macrosismica sconvolse una vasta area dell’Appennino meridionale, tra la Campania e la Basilicata. Il sisma interessò un territorio di oltre 15.400 km², sul quale vivevano più di 300.000 persone; circa 687 comuni, di cui 542 in Campania, 131 in Basilicata e 14 in Puglia subirono la furia della natura. Delle province coinvolte, quella più colpita risultò senza dubbio Avellino, con i suoi 119 comuni danneggiati; a Conza della Campania il 90% del patrimonio edilizio venne completamente distrutto; a Sant’Angelo dei Lombardi gli edifici più vecchi furono rasi al suolo e quelli ristrutturati gravemente danneggiati, circa 3205 unità edilizie crollarono e, anche a Lioni, il 75% del patrimonio abitativo fu distrutto dalla veemenza del sisma. Tra le centinaia di città colte dal terremoto, ma recanti danni minori, ci furono anche alcuni importanti capoluoghi di provincia, tra cui Avellino, Benevento e Napoli, nei cui territori ben 27 comuni subirono gravi danni.
Erano passati solo quattro anni dal terremoto del Friuli e, di fatto, la Protezione civile ancora non esisteva. Solo con la promulgazione della l. 4 febbr. 1992 nr. 225 nacque poi il servizio nazionale della Protezione civile. Intervenne l’esercito, insieme ai vigili del fuoco e a numerosi volontari. L’opera di soccorso, però, nel complesso procedette con notevoli difficoltà e ritardi; una lentezza accresciuta dall’incertezza delle prime ore relativa alla localizzazione dell’epicentro, dovuta alla mancanza di una Rete sismica nazionale adeguata, che impedì il corretto dispiegamento dei primi soccorsi. La circolazione ferroviaria si arrestò completamente e la penisola restò tagliata in due; situazione che fu ulteriormente aggravata dalla popolazione che, in preda al panico, cercò di fuggire bloccando le principali arterie stradali.
Gli interventi provenienti dal Nord non furono favoriti dalla configurazione orografica e dal conseguente sviluppo della rete viaria. Intasamenti inevitabili si verificarono in corrispondenza di Avellino e Salerno, punti di obbligato passaggio per l’accesso all’area maggiormente colpita; la viabilità minore fu inoltre ulteriormente ostacolata dalla natura geologica dei terreni e dalle macerie delle case distrutte, specie nelle prime 24-48 ore. La nebbia fittissima della prima notte e le avverse condizioni meteorologiche resero ancor più difficile la rapidità e la sicurezza delle azioni. Gli elicotteri stessi operarono in pessime condizioni, così come l’esercito, che spesso per raggiungere le aree di interesse impiegava 24 ore per un ciclo-viaggio di 80/100 km. Il sisma coinvolse infine anche i centri nodali della rete infrastrutturale delle trasmissioni, a causa di danneggiamenti subiti dagli apparati e dagli impianti e a causa dell’interruzione dell’alimentazione ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica). Il presidente Sandro Pertini (1896-1980), che il 25 novembre si recò sulle zone colpite, espose agli italiani un celebre messaggio televisivo, nel quale denunciava i ritardi dei soccorsi e l’inattività dello Stato, colpe per le quali sarebbero state individuate precise responsabilità; egli poi concluse:
Qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutti gli italiani e le italiane devono sentirsi mobilitati per andare in aiuto di questi fratelli colpiti da questa sciagura. Perché credetemi il modo migliore per ricordare i morti è quello di pensare ai vivi (Rizzo 2012).
Le parole di Pertini causarono la rimozione del prefetto di Avellino e la presentazione delle dimissioni, poi ritirate, dell’allora ministro degli Interni. Con la nomina di un commissario straordinario nella figura dell’onorevole Zamberletti e con l’impiego cospicuo di mezzi e uomini delle Forze armate, l’organizzazione cominciò a migliorare. Il mattino del 24 novembre già 26 comuni furono raggiunti dalle unità delle Forze armate, mentre dopo 24 ore dal sisma l’area assistita fu allargata a 35 comuni, con un impiego complessivo di 6350 uomini. Nel frattempo, nella sera del 24 novembre e nelle prime ore del 25, le unità provenienti dalla costa adriatica e da Roma affluirono celeri, prestando soccorso ad altri dieci comuni.
Si cercò, fin da subito, di stimare i danni: inizialmente si parlò di circa 8000 miliardi, ma successivamente addirittura di 60.000 miliardi. L’elenco dei comuni destinatari degli interventi si allungò a dismisura. Ai danni direttamente legati al terremoto nelle aree più vicine all’epicentro si sommarono gli effetti su un patrimonio edilizio atavicamente degradato e vulnerabile presente nell’hinterland napoletano. Un processo di ricostruzione a due facce: più efficace nei comuni dell’area epicentrale, costellato di sprechi nelle zone più distanti. Purtroppo, di fronte a un così gravoso impegno economico, non furono pochi a pensare di poter partecipare al ‘banchetto’ e così la ricostruzione fu un pessimo esempio di speculazione su una tragedia, come testimonia tuttora una lunga serie di inchieste, per le quali sono state coniate espressioni quali ‘Irpiniagate’ o ‘Terremotopoli’, che hanno mostrato l’infiltrazione della camorra imprenditrice. Come avvenne in seguito al terremoto del Friuli nel 1976, si cercò di incentrare la ripresa sul rilancio industriale; purtroppo la conseguenza di ciò, data l’assenza in quei territori di presupposti idonei a supportare, sopportare e mantenere le attività di sviluppo industriale, fu l’arrivo di ingenti finanziamenti mal spesi. Un errore, questo, commesso in particolar modo dai governi nazionali, incapaci di individuare la realtà dei territori colpiti e di agire su di essi in modo appropriato, e soprattutto facendo in modo che da essi si sradicassero valori quali l’attaccamento e la speranza per la propria terra.
Per quanto riguarda ciò che realmente fu realizzato, si parlò di una costruzione rapida di circa 15.000 case definitive, dopo soli pochi mesi dal sisma, soprattutto nella zona di Napoli. L’opera di reinsediamento,con un ritardo di soli 45 giorni da quanto previsto, fu completata tra novembre e dicembre dell’anno successivo. Aggiungendo ai prefabbricati leggeri i 2248 alloggi prefabbricati (container) donati e gli 11.961 alloggi della Protezione civile, si arrivò a un totale di ben 39.161 unità abitative realizzate in poco meno di un anno. Il primo consuntivo, dopo due anni di attività, mise in luce tali cifre: 25.000 alloggi prefabbricati, 14.000 case monoblocco, 50.000 buoni per la riparazione dei danni più lievi causati dal terremoto a singole abitazioni e a condomini. Il tutto per una spesa complessiva di circa 3500 miliardi di lire (Alessandrini 2006). Nel 2010 però il processo di ricostruzione risultava concluso solo al 90%, richiedendo ancora circa 600 milioni di euro per essere completato (Terremoto dell’Irpinia, 2012).
Il ritorno alla normalità per le popolazioni investite dal sisma del 1980 rappresentò un processo molto lento. La ricostruzione urbanistica, oltre che carente e stentata, convulsa e irrazionale, non fu guidata da una pianificazione politica volta a recuperare e consolidare il tessuto delle convivenze, creando spazi di unione sociale. Un aspetto positivo che il sisma del 1980 ha prodotto è stato però quello di aver dato vita a un momento di riflessione profonda intorno all’assoluta necessità di adottare nuove regole e più efficaci tecniche edilizie atte a fronteggiare, in modo adeguato, gli effetti del terremoto. La ricerca in ingegneria sismica in Italia, ormai all’avanguardia nel mondo, deve molto a questo momento di riflessione, che ha contribuito a far nascere nuove conoscenze, competenze e qualità in questo settore.
Il 26 settembre 1997 una lunghissima sequenza di scosse seminò panico e distruzione nell’Umbria e nelle Marche; la prima di queste si verificò alle ore 2,33 (magnitudo momento 6,0; intensità dell’VIII-IX grado della scala macrosismica) e colpì una vasta area dell’Italia centrale, localizzata lungo l’asse della dorsale montuosa dell’Appennino marchigiano e umbro. Ebbe inizio una serie di eventi sismici che continuò a interessare per alcuni mesi l’Umbria e le Marche, con migliaia di scosse localizzate in un’ampia fascia estesa per 50 km in direzione da Nord-Ovest a Sud-Est, compresa tra le località di Gualdo Tadino e Nocera Umbra, a nord, e di Sellano e Norcia, a sud. Una decina di ulteriori scosse, come quelle del 3 ottobre (5,1), del 7 ottobre (5,3), del 14 ottobre (5,4) e del 26 marzo 1998 (5,6) arrecarono altri danni a queste regioni, così ricche di storia e di arte. Nei mesi successivi, l’attività sismica andò smorzandosi a poco a poco; ma l’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) registrò, a partire dalla data del 26 settembre, circa 13 scosse di magnitudo superiore al VI grado della scala macrosismica.
Le province di Perugia e Macerata furono quelle più colpite; in Umbria danni consistenti furono rilevati nei comuni di Foligno, Nocera Umbra, Sellano, Gubbio, Assisi, dove ancora oggi si ricorda il crollo di due volte nella basilica superiore di San Francesco, causando tra l’altro la morte di quattro persone. In particolare, dei 76 comuni umbri in cui si avvertì il terremoto, si stima che furono 33 a riportare i danni maggiori; in quest’area territoriale gli effetti di un tale evento disastroso costrinsero molti abitanti ad abbandonare le proprie abitazioni. Furono altresì rilevati effetti di dissesti idrogeologici, danni gravissimi a opere pubbliche, beni culturali, infrastrutture, aziende agricole, esercizi commerciali, fabbriche, e così via. I tempi di reazione furono talmente repentini che, quasi contestualmente al verificarsi del terremoto e al crescente diffondersi tra la popolazione di una condizione di panico e ansia, venne attivata una molteplicità di operazioni di soccorso, alle quali seguì, con altrettanta tempestività, l’avvio del processo di ricostruzione. Proprio in queste fasi, quella dell’emergenza e quella della ricostruzione, venne pianificato e progressivamente implementato un modello organizzativo di intervento esemplare. Nel mese di ottobre del 1997 furono eseguiti in Umbria circa 60.000 sopralluoghi, palesando la presenza di oltre 17.000 edifici inagibili; anche nelle Marche i 45.000 sopralluoghi eseguiti segnalarono l’inagibilità di circa 11.000 strutture.
I soccorsi da parte delle strutture locali e nazionali della Protezione civile, il cui responsabile era Franco Barberi, furono rapidi; infatti, grazie all’intervento di circa 6000-7000 persone dalle numerose amministrazioni comunali, provinciali e regionali d’Italia, e al lavoro di numerosi volontari, la fase dell’emergenza fu gestita e superata in soli tre mesi, garantendo una collocazione a più di 9000 famiglie umbre, e cercando, con discreti risultati, di riassestare le strutture sanitarie e le attività economiche, pubbliche e private. A livello di organizzazione dei soccorsi, fu, inoltre, sperimentata una nuova strategia di gestione dei campi base. Anziché realizzare pochi campi base di grosse dimensioni, ne furono costruiti ben 18, di cui 16 di piccolissime dimensioni, a livello di sezione operativa, e due grandi, a livello di cinque sezioni operative e dotati di una potenzialità logistica dal punto di vista dei servizi e dei rifornimenti, tale da assicurare il funzionamento di tutti i 18 campi. Tutto ciò fu reso possibile grazie all’ingente supporto fornito dalla regione, dai comuni e dal volontariato. A livello amministrativo e politico, i poteri del Commissario del governo furono delegati al presidente della regione, creando così un coordinamento e un’intesa immediata tra Protezione civile ed enti locali. Problemi quali le caratteristiche morfologiche accidentali del territorio e la viabilità spesso gravosa, portarono il Dipartimento della Protezione civile e le Prefetture a decidere per la creazione dei COM (Centri Operativi Misti), che furono allestiti dopo soli tre giorni ad Assisi, Nocera Umbra, Gualdo Tadino e Foligno.
Subito dopo il verificarsi del sisma del 1997, effettuate le verifiche, fu avviata la cosiddetta ricostruzione leggera, per garantire un tempestivo rientro nelle abitazioni meno danneggiate riparandole. L’ulteriore passo nell’attuazione del processo di ricostruzione, previsto dalla normativa tecnica, fu quello della cosiddetta ricostruzione pesante, riguardante la riparazione o sostituzione di edifici recanti un livello di danneggiamento grave. Infine fu prevista la ‘ricostruzione integrata’ su edifici o complessi di edifici individuati per UMI (Unità Minime d’Intervento), ricompresi all’interno dei programmi integrati di recupero. Nonostante i momenti di difficoltà, in seguito al sisma del 1997 prevalse la volontà di condivisione delle scelte, l’assunzione delle responsabilità, l’impegno a mettere il meglio di sé. Oggi si può, dunque, affermare che la ricostruzione sia riuscita, impiegando in totale circa 10.000 miliardi di lire; la catastrofe del terremoto ha trasformato le realtà urbane colpite in cantieri di sviluppo innovativo, efficiente, rapido e partecipe (cfr. Marotta 2011). I numeri ne sono la conferma: i centri storici sono stati recuperati nella quasi totalità, l’86% degli interventi ammessi a finanziamento per edifici privati sono stati terminati, così come l’85% delle opere pubbliche, l’83% degli edifici monumentali, il 95% degli alloggi di edilizia residenziale pubblica progettati. Quasi tutti i cittadini sono tornati nelle proprie case recuperate e ricostruite e sono quasi completati i progetti della grande viabilità.
Per il conseguimento di un valore aggiunto nella ricostruzione si lavorò in modo da orientare il risultato finale alla qualità, intesa come consolidamento delle valenze esistenti e come potenziamento delle prospettive di sviluppo della zona. Questo incluse una continuità filosofica nell’impostazione del processo di ripristino dei patrimoni danneggiati. Emblematica fu la ricostruzione della basilica di San Francesco d’Assisi, che fu definita il ‘cantiere dell’utopia’, poiché i lavori di restauro terminarono – inaspettatamente – nel rispetto cronometrico dei tempi previsti: prima dell’inizio dell’anno giubilare del 2000, il Sacro Convento fu riaperto ai fedeli e agli amanti dell’arte. Furono ricostruite nella basilica superiore le volte cadute, restaurata e ripulita l’intera decorazione pittorica murale, quasi 5000 m2 di affreschi, e infine ricostruito l’altare maggiore. Questa esperienza ha rappresentato un punto di svolta nell’approccio alla protezione sismica del patrimonio storico-monumentale italiano, delineando nuove prospettive e metodologie di intervento attraverso l’innovazione tecnologica e i nuovi materiali.
Tra il 31 ottobre e il 2 novembre 2002, diverse scosse investirono il Molise e parte della Puglia. La scossa più violenta, di magnitudo momento 5,7, con effetti corrispondenti all’VIII-IX grado della scala macrosismica, venne registrata alle ore 11,32 del 31 ottobre e localizzata nella zona del basso Molise, a nord-est della provincia di Campobasso, tra i monti Frentani e la valle del Fortore. La scossa ebbe una durata di 60 secondi e fu avvertita distintamente nell’intero Molise, nel Foggiano, in provincia di Chieti; venne percepita fino nelle Marche, a Bari, a Brindisi, a Roma, a Potenza, a Taranto, a Napoli e a Salerno. Gli effetti massimi si stimarono comprendere un territorio di circa 1400 km2, abitato da 66.000 persone. La zona fino a quel momento era considerata a basso rischio sismico; fu per questo un sisma decisamente inaspettato (cfr. Cifani, Di Capua, Lemme et al. 2007).
Il centro più colpito fu San Giuliano di Puglia dove, ai numerosi crolli totali e parziali di edifici in muratura nella fascia centrale del paese, si aggiunse il devastante e tragico crollo del solaio di copertura dell’edificio scolastico Francesco Jovine, che comprendeva scuola materna, elementare e media: sotto le macerie rimasero intrappolati 57 bambini, otto insegnanti e due bidelli. Per tutto il giorno i vigili del fuoco, i volontari della Protezione civile e le persone del posto cercarono in tutti i modi di scavare per estrarre dalle macerie persone vive; purtroppo, però, le voci di 27 bambini e di una maestra non furono mai più udite. Al di là di San Giuliano, ben 62 furono i siti colpiti dalla scossa; tra questi il comune di Santa Croce di Magliano, Casalnuovo Monterotaro, Colletorto e Larino, aree territoriali in cui i danni maggiori furono rilevati nei centri storici, ma anche nelle parti più recenti degli abitati.
La gestione dell’emergenza, coordinata dagli organi centrali della Protezione civile, fu affidata a organismi quali i vigili del fuoco (circa 600 nelle prime 24 ore), la Croce rossa italiana e ad associazioni di volontariato tra cui l’ANPAS (Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze), che collaborarono per garantire un ricovero ai circa 10.000 sfollati (900 i volontari nelle ore immediatamente successive al sisma). I danni causati dall’evento al patrimonio edilizio locale furono sicuramente inferiori rispetto a quelli seguiti agli altri terremoti qui trattati, ma causarono comunque importanti perdite economiche e richiesero lo stanziamento di più di 3 miliardi di euro. Sebbene questo evento sia stato di intensità inferiore a quello delle altre tragedie sismiche, il processo di ricostruzione è andato avanti negli anni con difficoltà, intoppi e polemiche, al punto che ancora nel 2009 gli amministratori locali denunciavano la necessità di sbloccare i fondi non assegnati e tutt’oggi, al 2014, sono ancora presenti strascichi di polemiche sulla gestione degli stanziamenti per la ricostruzione.
Ma il terremoto del Molise del 2002 rimarrà nella memoria del nostro Paese per i fatti di San Giuliano e la scomparsa dei 27 bambini della scuola Francesco Jovine. Un evento che scosse l’opinione pubblica e pose all’attenzione nazionale la questione dell’inadeguatezza dell’impianto normativo in materia di sicurezza sismica. In particolare, l’evento mise in discussione il livello di sicurezza offerto dagli edifici pubblici, soprattutto quelli scolastici, e l’adeguatezza della mappa sismica e della normativa strutturale vigente, non al passo con il livello di conoscenze e competenze scientifiche presenti in Italia. Solo pochi mesi dopo, nel marzo 2003, sulla scia dei fatti di San Giuliano, l’emanazione dell’ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri (o.p.c.m. 3274) recante Primi elementi in materia di criteri generali per la classificazione sismica del territorio nazionale e di normative tecniche per le costruzioni in zona sismica, avviò un complesso percorso di riforma normativa che ha condotto a un profondo ammodernamento della normativa strutturale e sismica in Italia.
La serie di scosse, iniziata già alla fine del dicembre 2008, culminò il 6 aprile 2009, alle ore 3,32 (magnitudo momento 5,9; IX-X grado della scala macrosismica, alla profondità di 8,8 km). L’epicentro fu individuato a una decina di km da L’Aquila, anche se il sisma fu avvertito in tutta l’Italia centromeridionale, dalla Romagna alla Campania (Strong motion parameters for the Mw=6.3 Abruzzo (Central Italy) earthquaker, 2009). Per tutta la giornata del 6 aprile furono oltre 200 le scosse susseguitesi nell’Aquilano. Al termine della giornata, alle 23,57, fu registrata un’ulteriore scossa, con epicentro nei comuni dell’Aquila, di Pizzoli, Barreto e Scoppitto; la scossa fu nettamente avvertita dalla popolazione e dai soccorritori, impegnati a scavare tra le macerie. In definitiva, dei 317 siti ispezionati, la località più devastata fu Onna, piccolo borgo di 350 abitanti, in cui l’80% delle case crollò rovinosamente e il rimanente 20% fu gravemente danneggiato.
A L’Aquila, la zona più gravemente colpita dal terremoto fu il centro storico, pesantemente danneggiato e totalmente inagibile. Dei numerosi edifici crollati, molti costituivano strutture strategiche o sedi di servizi di pubblica utilità tra i più importanti: la Prefettura, una parte della Casa dello studente (in cui morirono otto giovani universitari), il rettorato e il polo d’Ingegneria dell’Università dell’Aquila e l’hotel Duca degli Abruzzi; crollarono, inoltre, la cupola della chiesa delle Anime sante, parte del transetto della basilica di Santa Maria di Collemaggio e parte del transetto del Duomo cittadino. (cfr. Guidoboni, Valensise 2011). Gran parte delle località colpite dall’evento sismico era caratterizzata da un centro storico costruito per lo più in pietra non squadrata e irregolare, talvolta con muratura ‘a sacco’. Accanto a edifici realizzati con mattoni o pietra, ve ne erano altri in cemento armato, che riportarono in percentuale danni minori.
L’evento sismico dell’aprile 2009 causò, purtroppo, un tragico bilancio anche in termini di vite umane: 308 morti, oltre 1600 persone ferite e circa 65.000 sfollati (cfr. Galli, Civile, Camassi et al. 2009). La gestione dell’emergenza fu affidata, su disposizione del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, a Guido Bertolaso, capo della Protezione civile. La situazione aquilana richiamò in tempi rapidissimi l’attenzione di enti governativi, personaggi del mondo politico, volontari e anche semplici cittadini, a livello nazionale e mondiale; messaggi di solidarietà furono inviati alle popolazioni colpite dal sisma dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal papa Benedetto XVI, ma anche dai diversi capi di governo e di Stato di altre nazioni.
In meno di 24 ore, prestarono la loro opera 4000 volontari, di cui 1200 vigili del fuoco; nel giro di 48 ore si attivarono, nell’area colpita, 1800 militari, 1580 poliziotti, 816 operatori della Croce rossa, 2400 vigili del fuoco e 4300 volontari.
Nei giorni successivi al disastro, furono allestite 13 aree attrezzate e messi a disposizione 15.000 posti letto negli hotel sulla costa abruzzese e 5000 nelle tendopoli, dimostrando una rapidità d’intervento mai prima realizzata. Per dare una risposta immediata alle necessità dei senzatetto che non potevano restare a lungo nelle tendopoli per le condizioni climatiche dell’Aquilano ed evitare una diaspora dei residenti verso altre località, si decise di realizzare in tempi rapidissimi degli interventi residenziali da rendere disponibili in pochi mesi che potessero essere riutilizzati con destinazioni sociali dopo il rientro degli sfollati nelle abitazioni originarie. Le abitazioni del progetto CASE (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili) sono state destinate alle persone con una casa distrutta o inagibile nel comune dell’Aquila. Le aree del complesso sono 19, su una superficie di 1.820.248 m2 e per un totale di 4449 appartamenti. Dal settembre 2009, con la consegna dei primi 400 appartamenti, la popolazione è tornata ad aumentare, raggiungendo nel febbraio 2010 la cifra di circa 15.000 persone ospitate. A marzo 2012, gli assistiti risultavano diminuiti (12.969) grazie al notevole avanzamento dei lavori nell’edilizia privata (cfr. «Progettazione sismica» 2009). I MAP (Moduli Abitativi Provvisori), invece, ospitavano cittadini con casa distrutta o inagibile nei comuni abruzzesi. I moduli costruiti fuori dalla città furono 2262 (ospitanti, a marzo 2012, 4411 assistiti) e 1273 all’interno, accoglienti 2791 assistiti.
Lo sviluppo della fase di ricostruzione portò alla luce una molteplicità di problematiche legate alle disponibilità economiche, alle influenze del sistema politico nazionale e locale, ma anche e soprattutto alla concreta realizzazione degli interventi. Un caso particolare riguardò la ricostruzione del centro storico dell’Aquila, dove il dilemma fra il ripristino delle caratteristiche strutturali, estetiche e funzionali antecedenti al verificarsi del terremoto e l’innovazione urbanistica rappresentò un motivo di polemica e di dubbio sull’avvio delle attività di ricostruzione. La medesima questione si era posta nel caso del terremoto friulano, per via della distruzione integrale di molte costruzioni, e si era poi conclusa optando per la soluzione del ripristino. Tale scelta comportò una serie di vantaggi, quali la rapidità di esecuzione dei lavori, durati solo dieci anni, e la conservazione dell’identità artistico-culturale locale, ma si rilevarono anche condizioni limitative, come il fatto che operare in tal senso comportasse la realizzazione di un’espansione dubbia e non innovativa. Nel caso del terremoto umbro-marchigiano, invece, la perplessità circa la strategia di ricostruzione da adottare non era neanche sorta, dal momento che si era scelto direttamente di destinare le risorse a una ricostruzione integrata, che potesse rafforzare la capacità attrattiva di numerosi borghi e agglomerati urbani della zona.
Nei mesi successivi all’evento aquilano furono stanziate risorse finanziarie per 10,6 miliardi di euro (10,5 erano di fonte pubblica), di cui, al 2014, sono stati erogati i 2,9 miliardi previsti per l’emergenza, mentre 7,7 miliardi per la ricostruzione (edifici privati e pubblici, reti e azioni per lo sviluppo) sono stati quasi integralmente assegnati. I circa 65.000 sfollati subito dopo l’evento si sono ridotti, ad aprile 2014, a circa 4600, di cui la maggior parte in autonoma sistemazione. A fine 2013 si erano già chiusi circa 15.000 cantieri di ricostruzione di edilizia privata. Per quanto riguarda, invece, la concessione dei contributi per la ricostruzione o la riparazione degli immobili, la prassi è stata definita dal d.l. 28 apr. 2009 nr. 39, secondo cui la gestione delle pratiche deve essere organizzata mediante la cosiddetta Filiera. Essa è composta sostanzialmente da tre strutture distinte: Fintecna (sorvegliata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze), la Rete dei Laboratori universitari di ingegneria sismica (RELUIS) e il Consorzio universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni del Politecnico di Milano (CINEAS) che approvano, rispettivamente, per profili di ammissibilità, validità tecnica e congruità economica e trasmettono al comune per gli ultimi controlli amministrativi e per lo sblocco del contributo. La ricostruzione dei centri storici, invece, è affidata ai cosiddetti Piani di ricostruzione (PdR), contemplati nell’art. 14, 5° co. bis, del d.l. del 28 aprile 2009, secondo cui il coordinamento della ripresa socioeconomica e della riqualificazione dell’abitato è affidato all’intesa tra i sindaci e il presidente della Regione Abruzzo.
Nelle prime ore di domenica 20 maggio 2012 si è abbattuto sul territorio nazionale un altro evento calamitoso, un’ulteriore ferita, aperta ancor prima che l’ultima si rimarginasse: il terremoto che ha sconvolto l’Emilia-Romagna rappresenta l’ennesima tragedia che l’Italia è costretta a fronteggiare. Il sisma, di magnitudo momento 5,9, con epicentro a 36 km da Bologna, al confine con Modena, a una profondità di 10,1 km, ha causato la morte di sette persone, di cui quattro operai, circa 5000 sfollati e centinaia di feriti.
Due province, Modena e Ferrara, sono state messe in ginocchio. E la terra ha continuato a tremare. Un’altra forte scossa di magnitudo momento 5,0 è stata registrata verso le 15,15 dello stesso giorno ed è stata avvertita nel Modenese, nelle zone di Mirandola, Finale Emilia, Campogalliano, persino a Bologna e Milano. Le repliche sono state più di 100, sino al lunedì 21 maggio, la più lunga delle quali alle 19,30 ancora nel Modenese, con la gente nuovamente in strada. Il 29 maggio, però, un nuovo terremoto, di magnitudo momento 5,7, collocato a circa 9,6 km di profondità, ha nuovamente scosso le popolazioni emiliane, arrecando ingenti danni, in particolar modo a Finale Emilia. Il bilancio delle vittime degli eventi del 20 e del 29 maggio arriva infine a 27 morti. Gli sfollati diventano infine circa 15.000. L’Appennino, però, non ha neanche accennato a fermarsi: il 31 maggio è stata registrata un’altra scossa di magnitudo momento 4,0, con epicentro tra Novi (Modena) e Rolo (Reggio Emilia), a una profondità di 5,8 km («Rapporti tecnici INGV», 2012).
Il terremoto ha infine causato l’inagibilità di circa 14.000 edifici. Secondo una stima tracciata dalla Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’Emilia-Romagna, sono circa 600 i beni culturali danneggiati dal terremoto. Per la ricostruzione sono stati stanziati circa 8,5 miliardi di euro e, a fine 2013, già 2300 pratiche di ricostruzione sono state autorizzate. Ma il terremoto dell’Emilia verrà ricordato per aver colpito al cuore il tessuto produttivo italiano, impattando su un’area che produce circa 20 miliardi l’anno di ricchezza, pari a circa il 2% del PIL nazionale. Quella che si è verificata in Emilia è stata una sorta di emergenza nell’emergenza; a risentire degli effetti del sisma, a livello economico, sono stati il settore agricolo e quello produttivo, principali fonti di ricchezza per la regione. È stato stimato che il sisma abbia determinato perdite indirette per mancata ricchezza prodotta pari a 3,1 miliardi di euro. Il Consorzio del Grana padano, per es., ha perso più di 400.000 forme di grana, distrutte in seguito al crollo degli scaffali dove erano riposte, con un danno stimato di 250 milioni di euro.
Danni ingenti si sono avuti inoltre nel settore tessile e biomedicale. Nell’area interessata dal sisma, moltissime sono state le aziende agricole che hanno subito danni elevati alle costruzioni rurali, ai capannoni, alle strutture degli allevamenti, ai fienili e agli animali stessi. L’impatto del terremoto si è quindi ripercosso sull’occupazione, determinando la perdita di circa 4800 posti di lavoro. La priorità in tali zone è stata quella di riattivare il più rapidamente possibile la macchina produttiva, onde evitare un significativo crollo dell’economia padana, e numerose misure specifiche sono state intraprese in questa direzione, dal credito d’imposta a contributi a fondo perduto per la ricostruzione del settore produttivo, a contributi per la delocalizzazione temporanea delle attività.
Un’ulteriore peculiarità del terremoto emiliano ha riguardato la gestione dell’emergenza e della ricostruzione. Per la prima volta infatti gli enti locali, e in particolare la regione, hanno avuto un ruolo principale, con la nomina, subito dopo l’evento, del presidente della Regione Emilia-Romagna a commissario per la ricostruzione. Tale decisione ha sicuramente condizionato le scelte e le procedure adottate e ha contribuito positivamente al percorso di ricostruzione; d’altra parte è probabile che l’efficacia di tale percorso sia legata alla lunga tradizione di efficienza delle amministrazioni locali emiliane.
La tabella seguente sintetizza i principali dati sull’intensità dei terremoti descritti e sull’intensità sociale ed economica dei processi di ricostruzione avviati.
I dati sull’intensità macrosismica e sulla magnitudo evidenziano come i diversi eventi siano assimilabili dal punto di vista fisico. Essi però hanno avuto conseguenze estremamente diverse, a causa delle peculiarità delle aree colpite e del momento storico in cui si sono verificati. Emerge quindi come il numero di vittime e il numero dei senzatetto del terremoto dell’Irpinia del 1980 sia molto più alto degli altri casi. Accade poi che la permanenza media degli sfollati in strutture provvisorie sia andata progressivamente riducendosi, passando dai 12 anni e dai 15 anni dei terremoti del Belice e dell’Irpinia ai tre anni del terremoto dell’Aquila. Ciò è sicuramente dovuto agli importanti progressi avuti nelle procedure di gestione dell’emergenza, dove si è passati da gravissime situazioni di disorganizzazione nei terremoti del Belice e dell’Irpinia all’importante ruolo di coordinamento svolto dalla Protezione civile nazionale nel terremoto dell’Aquila. Anche nei tempi di ricostruzione emergono le rilevanti criticità che si sono avute nei terremoti del Belice e dell’Irpinia, dove addirittura la ricostruzione è ancora in corso. Nella stima dei fondi stanziati salta di nuovo agli occhi come la fase di ricostruzione del terremoto dell’Irpinia sia stata gestita in maniera estremamente critica, con un importo stanziato molto più alto degli altri casi più recenti, ma con una ricostruzione meno efficiente. La lievitazione dei costi è stata anche causata da una smodata espansione del numero di comuni – più di 600 – interessati ai contributi statali per la ricostruzione. In molti di essi, distanti dall’area epicentrale, ai modesti danni dovuti al terremoto si è sommato l’effetto di una preesistente fatiscenza e vulnerabilità del patrimonio edilizio. Negli eventi successivi al terremoto dell’Irpinia, regole più severe per la definizione dell’area disastrata sono state applicate in modo da limitare queste degenerazioni.
Il susseguirsi degli eventi sismici negli ultimi anni ha influenzato l’evolversi del panorama istituzionale e giuridico in Italia. La memoria sopita e poi ravvivata, in maniera ciclica, dai terremoti che si sono susseguiti negli anni ha modificato attraverso accelerazioni e periodi di stasi il sistema di leggi e istituzioni. Ciò è accaduto sia per la normativa tecnica e quindi per la definizione di mappe sismiche, sia per l’organizzazione della protezione civile. La normativa italiana in materia sismica ha registrato notevoli miglioramenti ed evoluzioni soltanto a partire dal 1996, subendo poi un impulso significativo dopo i fatti di San Giuliano di Puglia del 2002. Benché infatti l’ingegneria sismica e la sismologia italiane fossero all’avanguardia da decenni sul panorama scientifico internazionale, la normativa sismica ha tardato ad adeguarsi all’evoluzione scientifica nel settore della progettazione di strutture. Solo recentemente infatti si è passati da un concetto di normativa prescrittiva, che imponeva, cioè, le regole e i criteri per la progettazione, a quello di normativa prestazionale, ovvero di un testo giuridico che impone dei parametri di prestazione per la struttura in esame, affidandosi, al contempo, all’esperienza, alle capacità di valutazione e alle conoscenze tecniche dei professionisti nel settore delle costruzioni.
Attualmente i concetti tecnici principali per la costruzione di strutture su tutto il territorio italiano sono sanciti da un testo organico: le Norme tecniche per le costruzioni (d.m. 14 genn. 2008 e successiva circolare 2 febbr. 2009 nr. 617). Esse definiscono i principi basilari per il progetto, l’esecuzione e il collaudo delle costruzioni, nei riguardi delle prestazioni e dei requisiti essenziali loro richieste in termini di resistenza meccanica e stabilità (criteri generali, azioni da utilizzare nel progetto, caratteristiche dei materiali e dei prodotti, ecc.), incendio, durabilità, sicurezza rispetto a situazioni estreme (capacità di evitare crolli, perdite di equilibrio e dissesti gravi, totali o parziali, che possano compromettere l’incolumità delle persone ovvero comportare la perdita di beni, provocare gravi danni ambientali e sociali), sicurezza in condizioni di normale esercizio (capacità di garantire le funzionalità per cui la struttura è stata progettata) (cfr. Cosenza, Pecce, Manfredi 2008).
Analogamente alla normativa sismica, anche la classificazione sismica nazionale ha subito in Italia notevoli ritardi. Sostanzialmente la storia della legislazione sismica nazionale ha avuto inizio dopo il terribile terremoto di Reggio Calabria e Messina del 1908 (XI grado MCS), che provocò la scomparsa di 80.000 persone. In seguito a questo evento ci fu un deciso impegno dello Stato a tradurre in legge le consuetudini progettuali, le conoscenze scientifiche e le tecniche costruttive sino ad allora maturate. Fu così emanato il r.d. 18 apr. 1909 nr. 193, contenente la prima classificazione sismica del territorio italiano, che diede il via allo sviluppo della normativa tecnica che è andato poi perfezionandosi negli anni.
Gli aspetti trattati dal regio decreto riguardavano essenzialmente i criteri di scelta dei siti edificabili, le altezze massime e il numero dei piani degli edifici, alcune prescrizioni urbanistiche, nonché una serie di indicazioni sull’idoneità dei sistemi costruttivi, sulle regole del buon costruire e su alcune prescrizioni inerenti i calcoli di stabilità. In particolare, si prescriveva, per la prima volta nella storia, che le azioni del moto ondulatorio causato dal sisma dovessero essere simulate da forze orizzontali applicate alle masse del fabbricato nelle due direzioni principali, e calcolate tenendo conto che i rapporti tra le forze applicate e le masse dovevano essere convenzionalmente pari a un ottavo per il piano terreno (0,125) e a un sesto per i piani superiori (0,16). Il moto sussultorio, invece, veniva considerato aumentando del 50% le azioni statiche.
Analogamente, sull’impulso del terremoto di Reggio Calabria si ebbe la prima legge sul soccorso, il r.d. 2 sett. 1919 nr. 1915, che fornì un primo assetto normativo ai servizi del pronto soccorso in caso di calamità naturali, anche se limitato ai soli terremoti. Nel 1925 si ebbe poi una prima normativa organica in materia di protezione civile: la l. 17 apr. nr. 473 che individuò nel Ministero dei Lavori pubblici e nel suo braccio operativo, il Genio civile, gli organi fondamentali per il soccorso. Tornando alla normativa sismica poi, un impulso significativo si ebbe a seguito del terremoto in Irpinia del 1962. Con il passare degli anni, infatti, le leggi furono modificate, sino ad arrivare all’emanazione della l. 25 nov. 1962 nr. 1684 sui provvedimenti per l’edilizia e le prescrizioni per le zone sismiche.
Convenzionalmente vengono considerate norme di prima generazione quelle emanate fino al 1962, che prevedono la definizione di indicazioni progettuali finalizzate a ridurre la vulnerabilità delle costruzioni, rivolte essenzialmente agli edifici in muratura, che all’epoca rappresentavano la maggior parte del patrimonio edilizio. Dopo il verificarsi del sisma nella valle del Belice, nel 1968, emerse la necessità di adeguare la mappa sismica italiana. Ciò porto quindi all’emanazione della l. 64 (2 febbr. 1974), secondo la quale si stabiliva che la classificazione sismica del territorio italiano dovesse procedere sulla base di «comprovate motivazioni tecnico scientifiche» e rimandava ai «decreti del Ministro per i lavori pubblici, emanati di concerto con il Ministro per l’interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici e le Regioni interessate» per l’aggiornamento degli elenchi delle zone dichiarate sismiche.
La prima normativa sismica veniva emanata ufficialmente con il d.m. 3 marzo 1975 nr. 40, in forza dell’art. 3 della l. 2 febbr. 1974 nr. 64 (che era successivamente aggiornata con decreti del 19 giugno 1984, 29 genn. 1985, 24 genn. 1986 e 16 genn. 1996). La particolare innovazione di tale decreto riguardò l’introduzione dello spettro di progetto in accelerazione, al variare dello smorzamento del sistema e in funzione del periodo proprio di vibrazione della struttura. Per quanto riguarda invece la Protezione civile, un’ulteriore evoluzione si ebbe a seguito del terremoto dell’Irpinia nel 1962, dell’alluvione di Firenze del 1966 e del terremoto del Belice del 1968. Questi tre eventi convinsero della necessità di strutturare un’adeguata rete di soccorso e portarono alla l. 8 dic. 1970 nr. 996, la prima che definisce un quadro complessivo degli interventi di protezione civile nel soccorso e nell’assistenza alle popolazioni colpite da calamità.
Per la prima volta venne introdotto il concetto di Protezione civile, come predisposizione e coordinamento degli interventi, e vennero definite le calamità naturali. La direzione e il coordinamento di tutte le attività passarono al Ministero dell’Interno e venne previsto, in caso di calamità, un commissario per le emergenze, con il compito di coordinare i soccorsi. La l. 996 del 1970 ebbe lo scopo di governare essenzialmente il momento dell’emergenza, disciplinando solo il soccorso nell’immediatezza dell’evento. Purtroppo il regolamento d’esecuzione della legge tardò e venne approvato solo dopo undici anni, in seguito ai terremoti del Friuli del 1976 e dell’Irpinia nel 1980, quando il sistema dei soccorsi mostrò tutti i suoi limiti. Tali eventi condussero quindi a ripensare il sistema della Protezione civile, riconoscendo l’importanza delle fasi di previsione e prevenzione. Nel 1982 quindi venne istituita la figura del ministro per il coordinamento della Protezione civile (l. 938 del 1982), che costituisce una sorta di ‘commissario permanente’. Il ministro per il coordinamento della Protezione civile si avvale del Dipartimento della Protezione civile, istituito sempre nel 1982 presso la Presidenza del Consiglio (Ordine di servizio del 29 aprile).
Tornando alla normativa tecnica, va sottolineato che fino al terremoto dell’Irpinia del 1980 la classificazione sismica del territorio era effettuata in maniera disorganica, interessando solo le aree soggette agli eventi sismici che progressivamente si susseguivano. Tale approccio fece sì che l’estesa edificazione avvenuta nel dopoguerra in vaste aree del Paese a elevato rischio sismico fosse realizzata senza alcuna regola antisismica. Solo gli studi di carattere sismologico effettuati all’indomani dei terremoti del Friuli e dell’Irpinia, condotti nell’ambito del Progetto Geodinamica del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), portarono a una prima conoscenza sistematica e approfondita della sismicità del territorio nazionale e consentirono la formulazione di una proposta di classificazione sismica più dettagliata, presentata dal CNR al governo. Sulla base di indagini di tipo probabilistico condotte nell’ambito del progetto e implementando il catalogo storico dei terremoti italiani (cfr. Working group CPTI 2004), fu proposta la suddivisione del territorio nazionale in tre categorie sismiche, la terza delle quali (la meno pericolosa, introdotta dal d.m. 3 giugno 1981 nr. 515, comprendente solo alcuni comuni della Campania, della Puglia e della Basilicata, interessati dal terremoto del 1980, ma non estesa alle altre zone d’Italia contraddistinte dal medesimo livello di pericolosità.
Una serie di decreti ministeriali si susseguirono, poi, in seguito al disastro di Seveso del 1976, tra cui quelli che riguardarono alcune parti della Regione Friuli Venezia Giulia dichiarate zone sismiche. Altrettanto numerosi furono i provvedimenti legislativi emanati dopo il terremoto del 1980, tra cui il d.m. 7 marzo 1981 e il d.m. 3 giugno 1981 che classificarono a bassa sismicità S=6 il territorio dei comuni delle Regioni Basilicata, Campania e Puglia e a sismicità S=9 il territorio di Santa Maria La Carità. Seguì quindi il d.m. 19 giugno 1984, che apportò significative modifiche da un punto di vista tecnico, proponendo anche il principio di differenziazione del livello di protezione sismica per particolari categorie di edifici in relazione alla destinazione d’uso. Il decreto del Ministero dei Lavori pubblici del 14 luglio del 1984 rappresenta poi l’ultimo di una serie di provvedimenti emanati dal Ministero tra il 1979 e il 1984, con i quali sono stati ridisegnati i limiti della classificazione sismica.
A partire dal 1984 viene introdotto un doppio livello di prestazioni nell’ambito della progettazione degli edifici a uso abitativo. Il primo livello si riferisce alla verifica della funzionalità dell’edificio, in caso di terremoti di modesta intensità. Il secondo, invece, è relativo alla verifica della sicurezza ai fini della salvaguardia delle vite umane, quindi in corrispondenza di terremoti di grande intensità. Si definiscono quindi i ‘terremoti di progetto’ per il calcolo delle azioni sulla struttura in corrispondenza dei due livelli di prestazioni. Un passo avanti significativo in questa direzione viene condotto con il d.m. dei Lavori pubblici del 16 genn. 1996, sui criteri generali per la verifica della sicurezza delle costruzioni e dei carichi e sovraccarichi ai sensi dell’art.1 della l. 2 febbr. 1974 nr. 64, che consente anche l’applicazione di moderni criteri tecnici di verifica, quale il ‘metodo agli stati limite’ in aggiunta a quello delle ‘tensioni ammissibili’, già ampiamente in uso ai tecnici. Ciò risulta in linea con la normativa per le costruzioni in cemento armato e in acciaio (d.m. 9 gennaio 1996), che ha permesso di utilizzare, per la prima volta in Italia, gli Eurocodici, linee guida europee che disciplinano la progettazione strutturale. Anche le norme relative agli edifici in muratura sono state riviste, al fine di renderle più coerenti con la normativa tecnica per la progettazione, l’esecuzione e il collaudo degli edifici in muratura di cui al d.m. 20 novembre 1987.
Tornando al sistema della Protezione civile, un ulteriore momento di passaggio si ha con la l. 225/92, che sancisce la nascita del Servizio nazionale di Protezione civile, con il compito di «tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e altri eventi calamitosi». La Protezione civile viene riorganizzata in un sistema coordinato al quale contribuiscono tutte le amministrazioni locali e lo Stato, secondo il principio di sussidiarietà. La prima risposta deve essere quindi garantita dal comune e dal sindaco e, quando l’evento è di particolare intensità, intervengono le amministrazioni superiori, offrendo una risposta integrata.
Ancora con riferimento alla normativa tecnica, dopo alcuni anni, successivamente al terremoto del Molise nel 2002, è stata quindi introdotta un’ordinanza del presidente del Consiglio dei Ministri (o.p.c.m. 20 marzo 2003 nr. 3274), poi modificata (o.p.c.m. 3 maggio 2005 nr. 3431), allo scopo di rispondere tempestivamente alla necessità di aggiornamento della classificazione sismica e delle norme antisismiche, il cui doveroso adeguamento registrava un’inaccettabile situazione di stallo che durava da molti anni. Nelle premesse all’ordinanza, viene chiarito che essa ha carattere transitorio in attesa dell’emanazione delle specifiche norme tecniche previste dapprima dall’art. 83 del d.p.r. 380 (6 giugno 2001), e dopo anche dall’art. 5 del d.l. 136 (28 maggio 2004). Con l’entrata in vigore dell’o.p.c.m. 3274, e a differenza di quanto previsto dalla normativa precedente, tutto il territorio nazionale viene finalmente classificato come sismico e suddiviso in quattro zone. Si demanda poi alle regioni l’individuazione delle zone sismiche e l’elaborazione di una mappa di pericolosità sismica regionale.
Un anno dopo veniva emanato il d.m. 14 sett. 2005 con il quale sono state approvate le Norme tecniche per le costruzioni (NTC), allo scopo di riunire in un unico testo la disciplina relativa alla progettazione e all’esecuzione delle costruzioni. Sia l’o.p.c.m. 3274 sia il d.m. 2005 non saranno mai obbligatori e verranno superati dal d.m. 14 genn. 2008, con il quale è stata varata una nuova versione delle Norme tecniche.
Con la l. 7 febbr. 2009 nr. 14, detta Milleproroghe, il Parlamento ha deciso di rinviare di un altro anno, fino al 30 giugno 2010, l’obbligo di rispettare le nuove Norme tecniche delle costruzioni, ma dopo il sisma in Abruzzo, sotto la spinta emotiva della tragedia e con l’obiettivo di sancire definitivamente il passaggio a una normativa moderna, l’entrata in vigore dell’obbligatorietà delle nuove Norme tecniche è stata anticipata al 30 giugno 2009.
Guardando ai terremoti avvenuti in Italia negli ultimi cinquant’anni, ci si rende conto di quanto la nostra storia recente sia stata influenzata da questi eventi calamitosi e quanto estese siano state le loro ripercussioni sullo sviluppo sociale del nostro Paese. Nel modo di rispondere alle emergenze sismiche si rispecchiano i vizi e le virtù della società italiana e delle nostre comunità, la voglia di reagire e le difficoltà che si frappongono tra le catastrofi e la rinascita, talvolta l’inerzia delle istituzioni, ma anche l’impegno del volontariato e le eccellenze scientifiche e tecnologiche. Tutto questo costituisce la nostra memoria collettiva del terremoto, cui hanno contribuito il settore dell’informazione e i media, che, specie per gli eventi più recenti, hanno rafforzato in tutto il Paese la consapevolezza dei fatti accaduti. Tale ruolo è stato forse svolto per la prima volta in occasione del terremoto del Friuli, per il quale vi furono le prime dirette televisive. Un ruolo fondamentale ebbero i media anche nel terremoto dell’Irpinia.
Molti ricordano la prima pagina de «Il mattino» con lo straziante appello «Fate presto», a voler scuotere la nazione e le istituzioni che non riuscivano a mettere in piedi un’efficiente organizzazione dell’emergenza. Tutti ricordano poi le immagini del crollo della basilica di Assisi nel terremoto umbro nel 1997 e le dolorose dirette dalla scuola di San Giuliano di Puglia nel 2002, nella vana attesa di trarre in salvo i bimbi rimasti intrappolati sotto le macerie, fino ad arrivare alla diretta quasi continua del terremoto dell’Aquila nel 2009.
La memoria collettiva, però, benché amalgamata dai mezzi di comunicazione, si particolarizza ancora nelle varie comunità regionali d’Italia, per intensità e per capacità evocativa. Accade quindi che per i siciliani il terremoto sia quello della valle del Belice nel 1968, con tutte le difficoltà della ricostruzione. Per i campani il terremoto diventa l’Irpinia del 1980, con il dramma dell’emergenza, le polemiche della ricostruzione, ma la voglia di imparare a difendersi e ripartire. Per i friulani il terremoto è quello del 1976, con la presenza dell’esercito e la gestione comunale della ricostruzione. Per gli umbri, invece, il terremoto è il crollo nella basilica di Assisi, è uno sciame sismico che non fa placare la paura. Per gli abruzzesi il terremoto è L’Aquila, con una grande città martoriata e un approccio moderno alla ricostruzione, che però non ha risparmiato polemiche. E per tutti gli altri italiani forse il terremoto è San Giuliano di Puglia, con la morte dei bimbi nella scuola elementare, o L’Aquila, con il crollo della Casa dello studente, qualcosa di tragico, ma di lontano, da guardare in televisione. L’idea che si trattasse di qualcosa di lontano era anche quella degli emiliani, fino al terremoto del 2012, che ha ricordato a tutti che tutta l’Italia è sismica, e un terremoto può accadere anche se è passato più di mezzo millennio dall’ultimo evento e anche se nessuno, nemmeno gli anziani, ne ha mai sentito parlare. Ciò dimostra l’importanza del ricordo degli eventi e la possibilità offerta dalla memoria collettiva di aumentare la capacità delle popolazioni di difendersi e reagire ai terremoti.
La parola chiave del futuro non è più mitigazione, dunque, ma resilienza, ovvero la capacità di mitigare gli impatti, ma anche di risollevarsi rapidamente e ritornare alle funzioni vitali che caratterizzavano le città e le comunità prima dell’evento. E quindi, accanto alle strategie per rinforzare gli edifici, assumono un ruolo fondamentale le politiche di comunicazione del rischio e di salvaguardia della memoria, affinché possa rafforzarsi la resilienza sociale e diffondersi la cultura positiva del terremoto. Perché in fondo non è il terremoto in quanto evento naturale a fare danni, ma la nostra incapacità di conviverci.
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Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 3 settembre 2014
Si ringraziano Rosanna Napolitano e Anna Bozza per il loro fondamentale contributo alla raccolta e alla catalogazione dei dati.