Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo l’avventura delle avanguardie e la distruzione della prima guerra mondiale, la cultura europea riscopre i classici per un’esigenza di stabilità e ricostruzione. Profeta del connubio tra ordine e avventura è Apollinaire, il quale inaugura il classicismo innovatore di riviste come la “Nouvelle Revue Française”, portavoce di un programma artistico condiviso da scrittori come Gide e Cocteau, ma anche Picasso e Stravinskij. Nel panorama del rappel à l’ordre, poeti quali Eliot, Ungaretti e Valéry si distinguono per il ritorno al mestiere e il recupero tutt’altro che restauratore della tradizione, secondo il programma dell’arte nuova classica.
Guillaume Apollinaire
La bella rossa
Eccomi davanti a tutti uomo pieno di senno
Che conosce la vita e della morte quello che un vivo può conoscere
Che ha provato le gioie e i dolori d’amore
Che talora ha saputo imporre le proprie idee
Che conosce numerose lingue
Che ha viaggiato non poco
Che ha visto la guerra nell’Artiglieria e in Fanteria
Ferito alla testa e trapanato sotto il cloroformio
Che ha perduto gli amici migliori nell’orribile lotta
Io so dell’antico e del nuovo quanto un sol uomo potrebbe dei due conoscere
E senza inquietarmi oggi di questa guerra
Fra noi e per noi amici miei
Io giudico la lunga disputa della tradizione e dell’innovazione
Dell’Ordine e dell’Avventura
G. Apollinaire, Poesie, a cura di M. Pasi, introduzione di S. Solmi, Parma, Guanda, 1967
Nel clima drammatico del primo dopoguerra gli intellettuali europei si rivolgono ai classici come modello di stabilità contro l’insidia della dissoluzione. Nello scenario di rovine si tenta così di opporre allo smarrimento e all’inquietudine – angosciosamente espresse da Paul Valéry nella Crise de l’Esprit del 1919 – l’idea della ricostruzione. È un panorama perfettamente descritto da Benjamin Crémieux in Inquiétude et reconstruction (1931), quasi un manifesto della letteratura europea tra il 1918 e il 1930, periodo di instabilità e disorientamento seguito dall’“affirmation d’un nouvel humanisme” e dalla nascita dell’“homme classique nouveau”, il quale “rinnoverà la tradizione allontanandosene”. In questo tempo turbato si manifesta il recupero della tradizione che all’inizio degli anni Venti si afferma come rappel à l’ordre, ovvero il richiamo agli ideali di ordine, armonia, disciplina e mestiere contro lo spirito sovversivo dell’avanguardia, ma soprattutto come unica difesa della continuità contro l’ombra cupa della distruzione. Questa tendenza, peraltro, affiora già nei primi anni del secolo, particolarmente evidente in movimenti come il Noucentisme di Eugenio D’Ors, fautore dell’ordine e della tradizione, ma soprattutto nella cosiddetta “rinascita classica” francese, testimoniata da Ardengo Soffici in una lettera del 1903 a Giovanni Papini: “I tempi e le cose sono mutati e tendono a mutare ancora di più. Un desiderio grande di ordine, di precisione e di chiarezza accende tutte le anime, e un’epoca è ai nostri piedi come un bronzo fuso che attenda d’esser gettato nella forma per una statua colossale. C’incamminiamo verso il classicismo”.
I principi dell’ordine, del nazionalismo e del ritorno alla classicità sono sostenuti dalla rivista “L’Occident” fondata nel 1901 da Adrien Mithouard, con la collaborazione di Maurice Denis, autore di Théories 1890-1910. Du Symbolisme et de Gauguin vers un nouvel ordre classique (1912). Contemporaneamente Charles Maurras pubblica Anthinéa, cronaca di un viaggio ad Atene che si trasforma in una dichiarazione di classicismo, per fondare poi nel 1908 il quotidiano “L’Action française” nell’intento di restaurare la misura e l’equilibrio della civiltà classica secondo il modello greco e latino. Si tratta di un classicismo restauratore e reazionario, percorso da uno spirito nazionalista e dogmatico, del tutto lontano dall’idea della “moderna classicità” che anima invece la “Nouvelle Revue Française”. In effetti a partire dal 1908 la rivista si contrappone alla dottrina maurrassiana nonché al classicismo accademico e tradizionalista di Émile Faguet, Jules Lemaître, Ferdinand Brunetière e Clouard, sostenendo l’idea di un classicismo vitale, da coltivare nell’incontro di sperimentazione e tradizione, modernità e disciplina, intesa anche in senso morale. Gli scrittori legati alla rivista auspicano il ritorno all’equilibrio di un classicismo rinnovato, come appare chiaramente nel dibattito sulla renaissance classique inaugurato nel 1909 da Henri Ghéon, il quale sostiene che lo spirito classico è il risultato di una ricerca e non il frutto dell’imitazione del passato.
La discussione riprende con vigore nell’immediato dopoguerra negli articoli programmatici di Jacques Rivière e Marcel Arland, i quali difendono i “diritti dell’intelligenza” insieme a una nuova “armonia” nel disordine e nel tumulto degli spiriti, individuando nel “lavoro” e nella “morale” il rimedio contro il mal du siècle. Particolarmente significativa risulta la riflessione di André Gide, il quale nell’articolo del 1921 Classicisme individua la legge fondamentale del classico nella “discrezione” e nella litote, “arte di pudore e di modestia”, insegnando a trovare la libertà nella disciplina: è la grande lezione del classicismo dinamico e innovatore, contro il culto delle regole e dell’imitazione. La questione si riflette tra l’altro nelle Décades de Pontigny organizzate da Paul Desjardins in collaborazione con la NRF, in particolare negli incontri sull’Humanisme (1926) e Sur la réussite classique dans l’art (1929). Nel dibattito sul nuovo classicismo si distingue Ramon Fernandez, il critico filosofo della NRF che in Messages – raccolta di scritti anteriori al 1926 – e soprattutto nell’articolo sull’Esprit classique (1929), concilia l’antitesi tra classico e romantico, per affermare il valore delle regole, purché vivantes, come condizione della libertà.
Non bisogna poi dimenticare che Guillaume Apollinaire, il protagonista e animatore della stagione dell’avanguardia che aveva stilato il Manifesto dell’antitradizione futurista, poco prima di morire propone un armistizio alla lunga querelle tra modernità e classicità, lasciando una sorta di testamento spirituale nella Jolie Rousse (1918): “Et sans m’inquiéter aujourd’hui de cette guerre / Entre nous et pour nous mes amis / Je juge cette longue querelle de la tradition et de l’invention / De l’Ordre e de l’Aventure”. È la dichiarazione programmatica di un classicismo che tenta di conciliare ordine e avventura, secondo un’idea anticipata nella conferenza del 1917 sull’Esprit nouveau, dove si invita a raggiungere la libertà espressiva attraverso la misura e il buon senso dei classici. Con questa affermazione in apparenza paradossale, Apollinaire enuncia il principio fondamentale del nuovo sentimento del classico, offrendo l’immagine di un artista che non rinuncia al ruolo di inventore, ma sceglie la libertà attinta nel rispetto del rigore. Persuaso della necessità di un ordine nuovo, anche Jean Cocteau propone un recupero della tradizione sensibile alle sperimentazioni dell’avanguardia, invocando la semplicità contro il disordine. Elabora così nelle pagine del Rappel à l’ordre (1926) una risposta originale alla questione dell’ordre nouveau, nella direzione di un classicismo ironico che congiunge ordine e anarchia, recupero del passato e parodia irriverente, riconducendo l’esperienza delle avanguardie alla disciplina del mestiere. Non per nulla i paradossi di Le coq et l’Arlequin (1918) fondano il neoclassicismo musicale, rappresentato principalmente da Igor Stravinskij e, nel panorama italiano, dai “neoclassici” Ferruccio Busoni e Alfredo Casella, il quale mira al “profondo equilibrio fra tradizione e modernità” (Il neoclassicismo mio e altrui, “Pègaso”, I, 1929).
Anche nella pittura si assiste a una svolta in senso classicistico inaugurata da Pablo Picasso, il quale contempla per un certo periodo la possibilità di essere al tempo stesso antichi e contemporanei senza rinunciare all’innovazione, in nome di un ordine singolare, spinto sino alla scomposizione di un’armonia deformata. All’anarchia artistica reagisce da parte sua anche Gino Severini in Du cubisme au classicisme (1921), dove si propone il ritorno alla precisione del “compasso” e del “numero”, all’“armonia” e all’“euritmia” della composizione.
La dialettica tra convenzione e creazione, disciplina e libertà domina la riflessione di Paul Valéry, il quale fonda la propria poetica sui motivi dell’homo faber, della forma e della costruzione nel dialogo Eupalinos ou l’architecte (1921), dove si celebra il gesto del costruttore che fissa l’effimero nell’eterno per conferire all’opera solidità e durata. È l’adesione all’ideale leonardesco dell’“hostinato rigore”, centrale nell’Introduction à la methode de Léonard de Vinci (1895), la quale inaugura la riscoperta del razionalismo cartesiano che approda a Monsieur Teste (1896), figura della chiarezza e della precisione. Si fonda in questo modo il paradosso estetico della spontaneità che sorge dall’esercizio sapiente del mestiere e dal controllo rigoroso della forma, secondo la teoria sviluppata in Situation de Baudelaire (1924) e negli scritti sull’arte, nei quali Valéry congiunge classico e romantico, ordine e fantasia, sapienza tecnica e innocenza.
Queste aspirazioni classiche sono condivise da Thomas Stearns Eliot, il quale negli stessi anni avverte l’esigenza di innestare il nuovo sul tronco della tradizione, secondo la visione dinamica illustrata in Tradition and Individual Talent (1919), dove si raccomanda l’accordo tra vecchio e nuovo, insieme alla rivitalizzazione reciproca di passato e presente, poi ribadita in What is a Classic? (1944). Ed ecco emergere l’idea della letteratura come unità organica, “unità vivente di tutta la poesia che sia mai stata scritta”, “ordine simultaneo” in cui il classico diviene contemporaneo, nella consapevolezza che “tutta la letteratura europea, da Omero in avanti, e all’interno di essa tutta la letteratura del proprio paese, ha una sua esistenza simultanea”. Senza dubbio agisce in queste pagine l’influsso di Ezra Pound, in particolare la prefazione di The Spirit of Romance (1910) che esalta la tradizione come complesso vivente e simultaneo, più tardi definita “una bellezza che noi conserviamo e non una serie di catene che ci leghino” (1913). Né può sfuggire la polemica antiromantica di Thomas Ernest Hulme, profeta del classical revival che in Romanticism and Classicism privilegia il linguaggio hard and dry del classico, prescrivendo al poeta lo stile della precisione e della chiarezza (Speculations, 1924).
All’inizio degli anni Venti anche la cultura italiana si rivolge ai classici come garanzia di stabilità contro il crollo delle certezze in sintonia con la renaissance classique europea. L’esigenza di ricostruzione è sostenuta principalmente dalla rivista “La Ronda” (1919-1923), fautrice del “richiamo all’ordine” nonché avversa a ogni forma di avanguardismo e sperimentalismo, in nome del “mestiere di scrivere”, concepito come tecnica raffinata e strenuo esercizio stilistico. L’ideale neoclassico e il culto della tradizione letteraria prevalgono nella meditazione di Vincenzo Cardarelli, portavoce di un “classicismo metaforico e a doppio fondo” che non rifugge dalla modernità, ma al contrario la assume come premessa necessaria del rinnovamento classico. Malgrado questa pretesa di modernità, il classicismo rondista resta sostanzialmente sinonimo di eleganza formale e perfezione del mestiere, da riconoscere nell’esempio di Leopardi e Manzoni.
Contemporanemente anche le arti figurative riscoprono la disciplina e la serietà del mestiere, secondo il programma della rivista “Valori plastici” (1918-1922), espressione del bisogno di misura dopo la stagione del disordine, degli “isterismi” e delle “cialtronerie” condannati da Giorgio de Chirico nel Ritorno al mestiere (giugno-ottobre 1919). Dichiarandosi Pictor classicus, de Chirico annuncia il “demone del classicismo”, mentre esorta i pittori a una nuova disciplina, nella riscoperta degli antichi e del valore del disegno, intesi come una vera e propria rinascita: “Non si tratta di imitare, di rifare e di contraffare. Si tratta di trovare una via verso un paradiso perduto, verso un giardino delle Esperidi ove potremmo cogliere altri frutti che non quelli già colti dai nostri grandi fratelli antichi” (Pro technica oratio, 1932). Tra i contributi al dibattito sul nuovo classicismo sono tutti da notare gli interventi di Alberto Savinio, il quale richiama l’arte italiana all’“espressione classica” sulla base di una sorta di “religione della memoria” (Primi saggi di filosofia delle arti, 1921); e Carlo Carrà, che propone un ritorno a Giotto, da reinterpretare però attraverso l’esperienza moderna, indicando così all’“arte modernissima” la “via della serietà” contro le “sirene del pompierismo ufficiale” (Il rinnovamento della pittura in Italia, 1920). Allo “pseudoclassicismo” si oppone anche Ardengo Soffici, il quale in Richiamo all’ordine (1928) definisce il concetto della classicità autentica contro il culto sterile e inanimato del passato.
E si distingue Giuseppe Ungaretti, da annoverare tra gli interpreti più originali del nuovo classicismo per il programma dell’“arte nuova classica”, che aspira al recupero della tradizione senza negare l’esperienza delle avanguardie: “E mi pare che l’estro oggimai si muova per misterioso incontro d’inquietudine e di nostalgie, allo stesso modo dicessi che dattorno a me il presente altro non sia che un riflesso di passato e di avvenire, di abbandono e d’azzardo, di rimpianti e di desiderio, di tradizioni e di scoperte, di logica e d’intuizione, di stile e di fantasia; come se il passato fosse la carne e l’avvenire l’idea, ma fossero un tutt’uno nell’immagine viva dattorno a noi” (Verso un’arte nuova classica, 1919). Si delinea in questo modo l’idea della tradizione come dialogo vivo e perenne: “La memoria a me pareva, invece, un’ancora di salvezza: io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. […] era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di questa terra disperatamente amata” (Riflessioni sulla letteratura, 1935). Si tratta di un classicismo intimamente moderno, a tratti inquieto, fondato sul tentativo di conciliare avventura e ordine, libertà e disciplina, effimero ed eterno, secondo una dialettica del tutto lontana dal neoclassicismo autoritario e dogmatico. Diffidente delle regole rigide e del classicismo conservatore, Ungaretti aspira dunque a vivificare la tradizione attraverso un sentimento del classico estremamente dinamico e vitale, sempre sospeso tra anarchia ed equilibrio, indicando nella memoria la via per riattingere l’innocenza originaria della parola.