Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il mito, cioè il racconto delle origini, che affonda le sue radici in epoche preistoriche, è un oggetto culturale ricercato e rimaneggiato lungo il corso del Novecento, nell’arte, nelle letteratura, nel cinema e nel teatro. Il mito, come spiega Calvino negli anni Sessanta, è la parte nascosta di ogni storia, la parte che rimane in ombra, e che all’inizio del secolo le teorie psicanalitiche, osservate con interesse dagli scrittori europei, pensano di stanare dal chiuso delle mura borghesi.
La luna e i falò
Stavolta stette zitto, sporgendo le labbra, e soltanto quando gli raccontai quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa. “Fanno bene sicuro,” saltò. “Svegliano la terra”. “Ma, Nuto,” dissi, “non ci crede neanche Cinto”. Eppure, disse lui, non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace. “Questa è nuova,” dissi. “Allora tu credi anche nella luna?”. “La luna,” disse Nuto, “bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano”. Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le più grosse erano queste. [...] Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano. Mi ricordai la delusione ch’era stata camminare la prima volta per le strade di Genova - ci camminavo nel mezzo e cercavo un po’ d’erba. C’era il porto, questo sì, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto che non sapevo più di saperla.
C. Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950
Il secolo inizia con la riformulazione di un mito che lo percorrerà estesamente, il mito di Edipo che Sigmund Freud riprende dalla tragedia greca di Sofocle e ripropone come strumento di analisi dell’uomo moderno, scisso, incompleto, nevrotico. L’Edipo di Freud va subito a insediarsi nel luogo più specifico del racconto moderno, la famiglia, e qui opera sconvolgimenti e sovversioni, mettendo in crisi in maniera irreversibile il nucleo che aveva garantito almeno due secoli di vita borghese regolare (almeno all’apparenza). Quanto questo fenomeno sia connesso a una città, Vienna, e agli intellettuali che vi operano lo dimostra nel 1917 il critico Josef Körner parlando di uno scrittore come Arthur Schnitzler e affermando: “Una futura storia della cultura del nostro più recente passato, dovrà spiegare per quali motivi, nell’ultimo decennio del secolo scorso, siano nate a Vienna, quasi contemporaneamente, una poesia, una filosofia e una biologia della sessualità”. Anche se, proprio a proposito del mito edipico, è Schnitzler stesso a prendere le distanze da Freud: “Psicanalisi, complesso di Edipo. Ciò che c’è di vero in questo è quasi una banalità”.
La storia di come il mito entra ed esce dalla letteratura è in effetti anche la storia di come molti scrittori si fanno attirare, per ragioni diverse, da studiosi dell’inconscio, da antropologi, da filosofi, da critici della cultura. E ne nascono opere di vasta portata, spesso ambiziose e onnicomprensive, dove il richiamo al passato assume la funzione di interpretare il presente senza volerlo affrontare di petto: molti romanzi di Thomas Mann, la poesia di Rainer Maria Rilke, il teatro di Jean Cocteau, Ulisse di James Joyce, The Waste Land di Thomas Stearns Eliot, i Cantos di Ezra Pound, e poi le opere di Michel Tournier, di Cesare Pavese, di Pier Paolo Pasolini, di Marguerite Yourcenar, di Elsa Morante, di Christa Wolf. In tutti questi scrittori si assiste anche a un fenomeno implicito di riconsacrazione del moderno: il mito viene recuperato con la consapevolezza che non è più proponibile in una realtà sempre maggiormente tecnicizzata e industrializzata, ma che può fornire, proprio per il fatto di essere inattuale, schemi di lettura complessi e ampi del mondo. Il ricorso al mito è anche spesso un modo per ritrovare tradizioni locali minori, estinte o in via d’estinzione, e di riproporne il fascino all’interno di una meditazione sulla modernità che le vedrebbe altrimenti scomparire. Si pensi a come Federico García Lorca, nel famoso Poeta in Nueva York (1940), riprende motivi dalla cultura popolare gitana e ne fa la base di una visione luttuosa che corrisponde alla realtà caotica del moderno; o come Pavese, nella Luna e i falò (1950), si ricollega alle antiche usanze contadine piemontesi per trasfigurarle alla luce di un’idea del sacrificio che gli viene dalle letture dell’antropologo James George Frazer.
Possiamo individuare due fondamentali tendenze nel recupero di materiali mitologici da parte degli scrittori novecenteschi: la prima, di area anglosassone, con Pound ed Eliot, considera il mito come struttura simbolica che, applicata al mondo moderno, ne consente una lettura più limpida, la seconda, di area tedesca, con Thomas Mann ed Hermann Broch, vede nel mito un reale mezzo di congiunzione con forze primordiali che vanno evocate ma nello stesso tempo tenute sotto controllo per il loro potenziale distruttivo.
The Waste Land (La terra desolata, 1922) è un poemetto che concentra in sé elementi lirici ed elementi narrativi alla luce di un impianto mitico. Eliot dichiara a proposito di Joyce un principio che può valere anche per la sua opera: il ricorso al mito “è semplicemente un modo di controllare, ordinare, dare una forma e un significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea” (sulla rivista “The Dial”, nel novembre 1923). Da una parte Eliot vuole raccogliere nel suo poemetto tutto il materiale caotico che la cultura moderna gli mette a disposizione, dall’altra vuole organizzane questo materiale in una struttura che lo renda significativo a un secondo livello, in modo che ricompaia, pur tra mille oscurità, una forma di significato completo. Luogo simbolico di questo progetto è il tavolo di Madame Sosostris, una cartomante parigina, dove i destini di ognuno sono raffigurati attraverso i simboli dei tarocchi. Le voci che parlano nel poemetto trovano qui cenni al loro futuro, anche se noi lettori non riusciamo a rendere mai concrete queste voci. Cogliamo brandelli di conversazione, affiorano storie, ma non c’è una vera incarnazione. Troviamo per esempio un accenno alla morte per acqua, e in una sezione del racconto si parla del marinaio fenicio, Phlebas (un personaggio desunto, secondo quanto dice l’autore, da Sant’Agostino), il cui cadavere viene modificato dalle acque marine, in una specie di ritorno indietro nel tempo. Oppure percepiamo la figura del personaggio narrante mentre pesca nelle rive del Tamigi, e a lui si sovrappone la voce del mitico Tiresia, trasformato in donna perché spia un amplesso. Sono frammenti di storie, citazioni dalla tradizione dell’intera cultura occidentale che ora acquistano un nuovo significato completo. L’operazione di Eliot vuole mostrare il cumulo di macerie a cui si è ridotta la storia, ma nello stesso tempo fa intravedere un nuovo ordine – il mito – che sta dietro queste macerie. Madame Sosostris preannuncia così l’antico indovino Tiresia, “la figura più importante della poesia – spiega Eliot – quella che unisce tutte le altre”. Attraverso il pensiero mitico, gli individui possono perdere la loro individualità ed essere riassorbiti in un movimento generale, transtorico (secondo Franco Moretti sta qui il pericoloso punto di tangenza di Eliot con il pensiero totalitario degli anni Venti).
Lo stesso fluire di frammenti mitici e sottili citazioni si trova, enormemente ampliato, nei Cantos di Ezra Pound, l’opera alla quale l’autore lavorò dal 1919 fino alla fine della vita. L’assemblaggio di materiali mitici deve portare il lettore, secondo il progetto di Pound, a sentire tutta l’esperienza della cultura passata, “aprendo la via a ritmi e visioni che vorrebbero essere un fondamento di futuro”, come dice Furio Jesi. La lettura, complicatissima, dell’opera costituisce una specie di iniziazione a uno stato di estasi, nella quale è implicita l’idea di un ritorno delle forze primordiali del mito, che spiega anche l’adesione di Pound al fascismo, il suo credere fino in fondo a un processo di morte e rinascita che è alla base di una precisa ideologia connessa al mito. Questa stretta unione tra bellezza, sessualità e morte si trova sin dai primi canti, nelle immagini correlate di Elena e Dioniso, due figure legate alle acque del mare, al mondo infero, alla contemplazione di forze distruttive che preludono all’estasi e alla rinascita. “La grande arte” – afferma Pound nel 1932 – “serve a suscitare o a creare un’estasi. Più affinata la qualità di questa estasi, più affinata l’arte”.
Nella cultura tedesca la duplicità dell’atteggiamento di fronte al mito può essere riassunta con la formula del mitologo Karl Kerényi, che contrappone il mito “genuino”, proveniente dalle profondità dell’uomo, al mito “tecnicizzato”, cioè evocato e utilizzato per scopi ideologici. L’ambivalenza tra questi due aspetti si mostra in molte opere della letteratura tedesca, fin dall’inizio del secolo. L’altra parte (Die andere Seite, 1909), dell’austriaco Alfred Kubin racconta la storia di Claus Patera, misterioso e potente, che fonda in Asia un Regno del Sogno i cui abitanti vengono tenuti prigionieri da un incantesimo che sembra provenire dallo stesso Patera, in comunicazione con forze oscure di epoche lontane: il romanzo è stato letto come un’allegoria profetica del regime nazista. Una particolare tendenza mitizzante, pur all’interno di una scrittura apparentemente realistica, si individua nei due romanzi maggiori di Franz Kafka, nel Processo (Der Prozess, 1914-1915) e nel Castello (Das Schloss, 1922), costruiti sul patrimonio di memorie mitiche della cultura ebraica.
Le teorie del matriarcato di Jakob Bachofen sono alla base del complesso Romanzo della montagna di Hermann Broch (Bergroman, 1934-1935, uscito postumo nel 1953), in cui viene narrata la vicenda di un tentatore pazzo, Marius Ratti, che si impossessa di un villaggio austriaco utilizzando la suggestione del motivo mitico delle “madri”, proponendo un ritorno ai valori antichi contro l’industrializzazione moderna. Al centro del racconto stanno i complessi legami che Marius intrattiene con tre figure femminili, Madre Gissonh, Agathe e Irmgard, che rappresentano un rapporto con il mondo ormai perduto, “l’unico segno (mortifero) del divino che si è allontanato”, come afferma Giulio Schiavoni. Anche nel successivo La morte di Virgilio (Der Tod des Vergil, 1939), Broch vuole esprimere la crisi di un intellettuale che scopre i limiti della sua opera e si inoltra in un cammino fino ai confini del dicibile, quando la stessa poesia viene abbandonata grazie alla mediazione di una figura materna incarnata da Plozia, attraverso un lungo processo di discesa e regressione verso lo stato di nudità dell’infanzia.
È nell’opera di Thomas Mann che si concentra e si riassume interamente il problema. Nel romanzo Doctor Faustus (1947), il musicista Adrian Leverkühn stringe un patto con il diavolo per perseguire il suo desiderio di successo e cade nella follia dopo aver composto un’opera che stravolge la storia della musica (Mann si ispirò direttamente alle teorie di Theodor W. Adorno e alla musica dodecafonica di Schönberg). Il patto col diavolo indica in questo caso l’abbandono alle forze distruttive del mito, la perdita di ogni dimensione umana: come spiega Furio Jesi, “la funzione positiva dell’inconscio, come sorgente di miti genuini, diviene negativa e antiumana quando i miti sono alterati orridamente, in modo da farsi veicolo della distruzione dell’uomo attraverso l’annichilimento della coscienza”. Il progressivo assorbimento di Leverkühn nelle forze negative del mito è rappresentato lungo il corso del romanzo dal suo incontro con una figura femminile che si presenta prima, durante l’infanzia, sotto la forma di una farfalla, l’Haetera esmeralda, e poi in carne e ossa come la prostituta di un bordello alla quale il musicista si unisce, per trasportarla infine simbolicamente, come motivo musicale, all’interno della propria opera. La ricerca spasmodica di un contatto con gli istinti sessuali rappresentati dalla prostituta indica così la resa di fronte all’inconscio e l’entrata nel regno della malattia mentale (il modello è fornito dalle vicende biografiche del filosofo tedesco Nietzsche, non a caso assunto a riferimento anche dal pensiero nazista). Con quest’opera si conclude il percorso di avvicinamento al mito, che era iniziato per Mann con il racconto lungo La morte a Venezia (Der Tod in Venedig, 1912), in cui lo scrittore Gustav von Aschenbach viene a contatto con il mondo oscuro del mito in seguito alla passione amorosa per un ragazzino polacco, trasfigurazione di una figura mitica di “fanciullo divino” che alla fine del racconto indica al moribondo scrittore, infettato dal colera, un orizzonte al tramonto sulla spiaggia del Lido di Venezia, estrema prospettiva di pacificazione per le colpe di un artista borghese.
Motivi mitologici di origine tedesca e anglosassone confluiscono nell’opera di Cesare Pavese, lo scrittore italiano che rappresenta forse maggiormente una profonda attenzione teorica per il mito. Pavese è un lettore di Gianbattista Vico, ma anche di Proust e di Mann, è il traduttore di Herman Melville e di Joyce, ed è inoltre l’intellettuale impegnato nella storia della casa editrice Einaudi, per la quale fonda una collana di studi religiosi, antropologici e mitologici (la famosa “Collana Viola”), in un tormentato rapporto con l’antropologo marxista Ernesto de Martino. Anche per Pavese si può sostenere che il fascino del mito si mescoli profondamente alle vicende biografiche, tanto che l’ultima sua opera, quella più intensamente densa di elementi mitici, La luna e i falò, precede di poco la scelta del suicidio (1950). Per Pavese i miti sono immagini primordiali, apparizioni sprofondate nella memoria che lo scrittore deve riuscire a riportare alla luce attraverso un lungo e tormentato scavo interiore. In questa sua concezione l’idea dei cicli storici di Vico si unisce a Freud e alla concezione della memoria involontaria di Proust, senza dimenticare le idee sulla ripetizione mitica di Mann (ricavate soprattutto dal ciclo di romanzi di ispirazione biblica Giuseppe e i suoi fratelli, del 1933). “Il ritorno degli eventi in Thomas Mann – scrive Pavese nel suo diario, Il mestiere di vivere, in data 18 febbraio 1945 – è in sostanza una concezione evoluzionista. Gli eventi si provano ad accadere, e ogni volta accadono più soddisfacenti, più perfetti. Gli stampi mitici sono come le forme della specie”. Ma l’antropologia, in particolare la lettura di un grande testo come Il ramo d’oro dello studioso scozzese James George Frazer, acuisce in Pavese la convinzione che alla base dei miti ci siano rapporti ancestrali dell’uomo con i luoghi del suo passato, o di un passato senza memoria. In questi luoghi, che lo scrittore ritrova nelle natie Langhe, si sono verificate in passato apparizioni divine, sacrifici cruenti connessi alla sessualità che l’opera letteraria può raccontare solo allusivamente, per portarli alla coscienza e forse favorirne l’assimilazione: “Una piana in mezzo a colline, fatta di prati e alberi a quinte successive e attraversate da larghe radure, nella mattina di settembre quando un po’ di foschia la spicca da terra, t’interessa per l’evidente carattere di luogo sacro che dovette assumere in passato. Nelle radure feste, fiori, sacrifici, sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombra silvestri. Lì, sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare il dio”. Ma a differenza del suo modello Mann, che riusciva attraverso le strategie retoriche del racconto a rappresentare le forze mitiche tenendosene a distanza, Pavese viene intensamente coinvolto dalla sua ricerca. La luna e i falò è infatti il resoconto in prima persona di un’indagine sul proprio passato condotta da un orfano, Anguilla, che ritorna nei luoghi della sua infanzia per trovare le tracce della propria origine, e si imbatte invece in segnali cruenti legati alla cultura contadina e alle vicende della guerra partigiana. I falò del titolo rimandano proprio a questo doppio aspetto: sono i rituali con cui vengono risvegliate nei campi le forze benigne della natura, ma sono anche strumenti di distruzione e morte. Il racconto, infatti, si conclude quando Anguilla scopre che una delle ragazze da lui ammirata tanti anni prima, Santa, è stata bruciata dai partigiani per aver condotto un doppio gioco con i Tedeschi. Pavese si spinge a guardare molto da vicino il volto distruttivo e sacrificale del mito e non torna indietro da questa discesa infernale.
Lo scrittore italiano che riesce a sdoganare il mito nel secondo Novecento, purificandolo di tutti gli elementi negativi legati alle concezioni che abbiamo visto, è Italo Calvino, non a caso legato intellettualmente a Pavese. Calvino utilizza il mito in una prospettiva apparentemente giocosa, coniugandolo con la forma di pensiero che al mito sembra opporsi: il pensiero scientifico. Nei racconti che formano le Cosmicomiche, scritte a partire dagli anni Sessanta e protratte fino alla morte, con continui riassestamenti della raccolta, Calvino, sulla traccia di Ovidio, vuole raccontare le origini del mondo moderno attraverso un personaggio che non ha identità fissa ma assume di volta in volta aspetti diversi. Questo personaggio si chiama, con una formula astratta, QFWFQ e diventa, a seconda dei racconti, una cellula, un pesce, un rettile, un cammello, un uomo. A Calvino interessa mettere in scena momenti lontanissimi nel tempo (la formazione delle stelle, il distacco della luna dall’orbita terrestre, la nascita dei pianeti, il big bang) utilizzando però tonalità umane, quotidiane, come se scrivesse una cosmogonia giocosa alla portata di tutti. I motivi mitici che si susseguono nei racconti sono molti. Uno per tutti, il mito di Orfeo ed Euridice che viene riutilizzato nel racconto Il cielo di pietra (1968), dove viene messo in scena il passaggio della vita umana dalla chiusura nella materia terrestre all’aria aperta. In una conferenza del 1967, Cibernetica e fantasmi (poi nella raccolta Una pietra sopra), Calvino dà grande spazio alla componente mitica implicita nell’arte narrativa: “Il mito è la parte nascosta d’ogni storia, la parte sotterranea, la zona non ancora esplorata perché ancora mancano le parole per arrivare fin là. [...] La linea di forza della letteratura moderna è nella sua coscienza di dare la parola a tutto ciò che nell’inconscio sociale o individuale è rimasto non detto”. Di fronte alle implicazioni funebri con il sacro rivelate da Pavese, Calvino mantiene in vita l’interesse per il mito trasformandolo in un oggetto di meditazione e di pensiero da maneggiare con cautela, tenendolo sempre a distanza.
Un’interessante meditazione sul mito in letteratura è quella svolta da Michel Tournier, in particolare nei romanzi Venerdì, o i limbi del Pacifico (Vendredi ou les limbes du Pacifique, 1969) e Il re degli ontani (Le roi des aulnes, 1970). Venerdì è la riscrittura, attraverso Freud e Claude Lévi-Strauss, del romanzo settecentesco di Daniel Defoe, con la differenza che Tournier fa del suo eroe un personaggio che compie una profonda iniziazione spirituale nello spazio magico dell’isola, dove viene rappresentata una ripresa di legami cosmici tra l’individuo e il mondo. L’isola non è più un semplice spazio geografico, ma diventa una donna che Venerdì chiama Speranza e dentro la quale, come un feto dentro il corpo materno, egli riesce a rinascere. Per Tournier il mito è la forma di racconto primordiale che consente all’uomo di ritrovare un rapporto nuovo con il mondo, all’insegna di una divinità distruttrice e creatrice come Dioniso.
Alla fine degli anni Sessanta, quando la cultura europea sembra arrivata alla sua fase estrema, Pier Paolo Pasolini crea alcuni film direttamente ispirati al mondo classico e alle culture primitive. Si tratta di Edipo re (1967); Appunti per un’Orestiade africana (1968); Medea (1969), in cui il mito ha la funzione di rappresentare il passaggio ormai consumato tra culture primitive, agricole, di tipo contadino, e culture ormai tecnicizzate, moderne, dominate dalla ragione. Edipo, che si acceca di fronte alla realtà per non conoscere, la maga Medea, che punisce Giasone uccidendone i figli, Oreste, che viene salvato dalla dea Atena di fronte al tribunale democratico degli uomini per il matricidio che ha commesso, sono personaggi portatori di tutte le ambiguità del secolo, eroi di culture scomparse che si affacciano su realtà ormai definitivamente demitizzate. Solo l’attività artistica può continuare a tenere in vita le loro tragiche avventure, come dimostrano le riscritture che Christa Wolf dedica a Cassandra (1980) e a Medea (1996), in una prospettiva psicologica e politica che affronta il problema della violenza e della modernizzazione.