Memoria
«Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre» (Eugenio Montale, Le occasioni)
Le diverse facce della memoria
di Alberto Oliverio
2 dicembre 2008
Muore Henry Gustav Molaison, 82 anni, affetto da amnesia anterograda dal 1953, quando fu sottoposto a lobotomia come terapia chirurgica dell’epilessia. Il suo caso è stato oggetto di test, esami e valutazioni neuropsicologiche che hanno costituito un supporto essenziale agli studi sull’apprendimento e la memoria.
Tipi di memoria
La memoria coincide con la nostra identità ed è scandita da una serie di esperienze, alcune delle quali possono risalire agli anni della prima infanzia. La memoria autobiografica si basa sulla collocazione temporale di una serie di episodi che ognuno di noi giudica fondamentali, essenziali per narrare lo svolgersi della propria esistenza. Ma il significato di questi episodi, come di ogni ricordo ed esperienza, varia nel tempo, cosicché alcuni possono essere posti in seconda linea, altri occupare un posto più saliente e altri ancora andare incontro all’oblio. Questo continuo processo di rimaneggiamento e ristrutturazione dei ricordi rimanda a una caratteristica di base della memoria: la sua instabilità, la sua mutevolezza, la sua problematica affidabilità; in altre parole, come indicano i più recenti studi in ambito psicobiologico, la memoria è tutt’altro che stabile e può andare incontro al cosiddetto ‘riconsolidamento’, vale a dire a una ristrutturazione che dipende da esperienze diverse rispetto a quelle fondatrici.
Prima di esaminare questo aspetto, alla radice della plasticità della memoria, bisogna considerare come esistano varie tipologie di questa funzione mentale. Infatti, oltre alla memoria di lavoro, o a breve termine, esistono memorie durature e codificate in modo stabile, le memorie a lungo termine. Un’altra differenza riguarda le memorie procedurali o implicite, legate appunto a procedure, apprese attraverso
la pratica e prevalentemente motorie (come annodarsi i lacci delle scarpe o andare in bicicletta), e le memorie di tipo dichiarativo o esplicite, memorie dei fatti appresi attraverso le esperienze e lo studio. Nel far emergere i ricordi della nostra vita si chiama invece in causa un particolare tipo di memoria dichiarativa, la memoria autobiografica o, nel caso di fatti specifici, la memoria episodica, che consentono di ricollegare una particolare informazione nel contesto del tempo, dello spazio e della presenza di chi ricorda: «quella volta che (il tempo) nel corridoio della scuola (lo spazio) si è verificato quel fatto (la presenza di chi ricorda)». La memoria episodica è in qualche modo intrecciata con quella semantica che implica una conoscenza di fatti, concetti, elementi linguistici i quali, a differenza della memoria episodica, non sono legati a un contesto. Per esempio, quando si afferma che Milano è a nord di Roma e Venezia a est di Torino vengono richiamate conoscenze che non sono contestualizzate, come invece può avvenire per un particolare episodio della vita personale. Gran parte della vita si basa su memorie di tipo dichiarativo, costruite nel tempo, mattone dopo mattone, per edificare un corpo di conoscenze in cui ci è ben difficile (se non impossibile) rintracciare le origini delle singole esperienze; così si verifica, per esempio, per la lingua che parliamo correntemente, frutto di complesse memorie linguistiche fatte di conoscenza di vocaboli, regole grammaticali e sintattiche.
Reti neurali
Fatte queste osservazioni, si può considerare quali siano le reti neurali da cui dipendono i diversi aspetti della memoria. È ormai assodato che le memorie procedurali hanno al centro un circuito che parte dalla corteccia motoria, va ai gangli della base e da questi, attraverso il talamo, ritorna alla corteccia motoria: questo circuito è alla base delle memorie che riguardano abitudini e abilità elementari e ricorrenti, come avviene per le azioni e i gesti ripetitivi. Un secondo circuito, che riceve informazioni dalla corteccia motoria primaria e dalle aree della corteccia associativa sensoriale, raggiunge invece il cervelletto, da qui viene convogliato al talamo e da questo nucleo torna alle aree motorie della corteccia frontale e parietale: tale circuito fa sì che le risposte motorie ad alcuni stimoli diventino quasi riflessi automatici, come può avvenire quando ci si blocca per un improvviso ostacolo. Le differenze tra i due tipi di memoria procedurale emergono chiaramente nel caso dell’esecuzione musicale: dal circuito dei gangli della base dipende la memoria dell’esecuzione delle note, dal circuito del cervelletto dipende la memoria dell’esecuzione di una musica.
Le conoscenze sui circuiti implicati nelle memorie di tipo dichiarativo partono dallo studio di un caso clinico molto noto, riguardante una persona colpita da una forma di amnesia retrograda (impossibilità di ricordare le memorie del passato) e anterograda (impossibilità di formare nuove memorie) e conosciuto con le sue iniziali (HM, Henry Molaison). L’analisi dettagliata di questo caso, iniziata prima ancora che fossero disponibili tecniche di brain imaging, ha individuato nelle lesioni dell’ippocampo e della corteccia temporale inferiore a esso connessa la causa del mancato accesso ai ricordi del passato e della mancata codificazione di quelli nuovi da parte di HM. L’esame di questo e di altri casi clinici, oltre che lo studio dei rapporti tra struttura e funzione nei primati non umani, ha indicato che le memorie di tipo dichiarativo si basano sia sul circuito ippocampo-corteccia temporale, sia su strutture che appartengono al diencefalo. In modo schematico la regione temporale è connessa con l’amigdala e l’ippocampo e quest’ultimo con il diencefalo tramite il fornice, in una sorta di circuito della memoria di cui, ovviamente, fa parte tutta la corteccia cerebrale, che è connessa con quella temporale e, in modo diretto, con gli stessi ippocampo e diencefalo. Tutte queste strutture nervose sono implicate nella cosiddetta memoria esplicita, che implica un riconoscimento cosciente delle esperienze che abbiamo avuto e che possono affiorare spontaneamente o essere richiamate alla mente. Sensazioni o esperienze, per essere trasformate in memorie esplicite, devono prima passare per le strutture del lobo temporale mediale – come la corteccia entorinale –, che sono una sorta di imbuto attraverso cui vengono filtrate tutte le sensazioni e percezioni, e quindi dall’area temporale mediale, attraverso ippocampo e amigdala che ne connotano specifiche caratteristiche (spaziali, emotive ecc.), devono raggiungere il diencefalo, dove vengono assemblate e registrate sotto forma di memorie stabili nei circuiti del cervello. Il circuito della memoria corteccia temporale-ippocampo-diencefalo consente di connettere tra loro le diverse componenti degli episodi della vita quotidiana (sensazioni, immagini mentali, emozioni, valutazioni della realtà) per trasformarle in memoria episodica, in eventi della nostra storia individuale. Riassumendo, i circuiti alla base della memoria procedurale e di quella dichiarativo-semantica sono diversi e fanno rispettivamente capo ai gangli della base e alla corteccia temporale-ippocampo-diencefalo. In genere, entrambi i circuiti vengono attivati simultaneamente e in parallelo; nel caso però di esperienze e apprendimenti in cui entrambi i sistemi di memoria possono fornire una soluzione adeguata, quello ippocampale si fa carico delle forme di apprendimento rapido che sono inizialmente utili per controllare un comportamento adeguato. Il sistema ippocampale cede invece il suo ruolo al sistema della memoria controllato dai gangli della base, e più specificamente dal caudato, quando si tratta di mediare forme di apprendimento meno veloci e ripetitive, basate su associazioni tra determinati stimoli e risposte specifiche, come avviene per diversi aspetti del condizionamento. In sostanza, questi due sistemi della memoria possono interagire in modo competitivo. Questa competizione può essere spiegata in termini evoluzionistici: se infatti un particolare circuito o sistema si rivela inadatto a fornire una soluzione adeguata a un nuovo tipo di informazione o compito, può gradualmente emergere per selezione naturale un altro circuito che agisce in parallelo o compete con quello preesistente. In generale, malgrado la competizione tra i due sistemi, si può verificare un avvicendamento nella presa in carico dell’informazione: in alcuni compiti, per esempio nella gestione di informazioni che si succedono su una base probabilistica, come può avvenire per quegli eventi che ricorrono nel tempo sulla base di sequenze complesse, entra inizialmente in funzione il sistema ippocampale, specializzato in memorie di tipo dichiarativo; successivamente subentra quello striatale che tiene conto con maggiore efficienza delle sequenze che caratterizzano il verificarsi di un evento, come per esempio può avvenire in una partita di carte in cui si tratta di memorizzare le carte uscite e di fare una stima probabilistica delle prossime ‘uscite’. Schematizzando in termini più generali il ruolo dei due sistemi, si può dire che quello ippocampo-corteccia temporale mediale entra in funzione quando si tratta di apprendere nuove esperienze, soprattutto basate su forme di memoria dichiarativa, e che si attiva quello striatale successivamente, quando l’evento diventa più noto e si ripete nel tempo.
Formazione della memoria
Come abbiamo visto, la memoria semantica si riferisce a significati, concetti, per i quali non è importante ricordare il momento e la situazione nei quali sono stati appresi: è una memoria che contiene le conoscenze sul mondo in forma organizzata. Similmente a quanto si verifica per la memoria procedurale, anche quella semantica non è unitaria ma suddivisa in diversi compartimenti e competenze. A prima vista si direbbe che la memoria semantica, la quale riguarda il modo in cui la nostra conoscenza della realtà e del mondo che ci circonda è rappresentata nel cervello, sia suddivisa in categorie e specializzazioni. Per esempio, in alcuni pazienti descritti dal neurologo Antonio Damasio, era evidente una chiara dissociazione tra la capacità di descrivere oggetti inanimati e quella relativa a oggetti animati: un asciugamano veniva definito un oggetto usato per asciugare le persone, una carriola un oggetto per trasportare le cose, un aeroplano un oggetto che trasporta la gente nel cielo, mentre la descrizione di oggetti animati, come un insetto, un uccello, un cane ecc., era totalmente errata e non appropriata. Altri pazienti conservavano invece una buona memoria semantica per gli oggetti animati, che venivano descritti in modo appropriato, mentre presentavano un’amnesia per gli oggetti inanimati che non erano in grado di identificare. Ciò significa che la nostra memoria – o la nostra mente – è una specie di cassettiera in cui vengono serbati ricordi di un tipo o dell’altro, assortiti in cassetti diversi a seconda di categorie stabilite dal cervello? La spiegazione è probabilmente diversa: la distinzione che facciamo tra animali e piante da un lato e oggetti d’uso dall’altro dipende dal fatto che noi osserviamo i primi mentre usiamo i secondi, utilizzandoli sulla base di azioni motorie (giriamo un cacciavite, alziamo e spingiamo una carriola, guidiamo una macchina, saliamo su un treno ecc.): ciò crea due diverse categorie nella nostra memoria, proprio perché impieghiamo diverse parti del cervello per riconoscere e ricordare animali oppure oggetti. Un importante aspetto della memoria, in cui si incrociano studi neurobiologici e testimonianze letterarie, riguarda la datazione dei primi ricordi. Sino a che punto è possibile procedere a ritroso negli anni per andare alla ricerca delle prime memorie, degli inizi della propria storia individuale? Questo tema ricorre negli scritti di numerosi letterati, da James Joyce in cui Dedalus, il protagonista di A portrait of the artist as a young man, ricorda eventi e sensazioni della prima infanzia, a Marguerite Yourcenar, che ha tentato di risalire all’inizio delle proprie memorie, seppure con qualche scetticismo: «A lungo ho creduto di avere pochi ricordi d’infanzia; intendo quelli anteriori al settimo anno. Ma mi sbagliavo: penso piuttosto di non aver dato l’occasione finora, ai ricordi, di risalire fino a me. Riesaminando i miei ultimi anni al Mont Noir, alcuni almeno ritornano poco a poco visibili, come fanno gli oggetti di una stanza dalle persiane chiuse nella quale non ci si avventura da molto tempo. Rivedo soprattutto piante e animali, su un piano secondario rivedo alcuni giocattoli, giochi e riti che avvenivano intorno a me, e più vagamente, come nello sfondo, alcune persone» (Quoi? L’éternité, 1988).
Scavando nel tempo, come fa Yourcenar, è quindi possibile risalire a ricordi che si ritenevano scomparsi e, sempre più all’indietro, ai ricordi della primissima infanzia, quelli di cui ci parla Dedalus? Tutto è iscritto nelle trame nervose e per rievocare l’interezza delle memorie perdute è sufficiente compiere uno sforzo, sapere o volere cercare? I neuroscienziati hanno cercato di dare una risposta più generale a questo interrogativo: intorno alla metà degli anni 1970 molti di loro ritenevano che in effetti ogni esperienza potesse lasciare una traccia, che tutto il nostro passato fosse registrato nei ridondanti circuiti cerebrali. Essi erano giunti a questa conclusione sulla base degli studi di un noto neurochirurgo, Wilder Penfield (1891-1976), che aveva tentato di sondare i meandri della memoria nei pazienti che doveva sottoporre a diversi tipi di chirurgia cerebrale. Penfield disponeva sulla superficie della corteccia cerebrale, in particolare del lobo temporale, alcuni elettrodi con cui poteva trasmettere una debole corrente elettrica: i pazienti, operati in anestesia locale, erano consci e la corrente elettrica non provocava loro alcun disturbo, in quanto la superficie cerebrale non è sensibile al dolore. In numerosi casi, riferisce il neurochirurgo, i pazienti riferivano antichi ricordi: uno di loro, per esempio, rivedeva la casa dell’infanzia, circondata da un prato verde e da alberi ad alto fusto, un altro sentiva la voce di una madre che chiama il suo piccolo, un altro ancora annunciò con voce entusiasta di rivedere i suoi amici del Sudafrica e due bambini che gli sembravano proprio i suoi cuginetti. Penfield tracciò una mappa della corteccia temporale dividendola in quadratini, o punti, e a seconda del punto stimolato riuscì a ottenere diversi ricordi da uno stesso paziente, il che lo portò a ritenere che esistessero engrammi, o tracce di ricordi, codificati stabilmente nei circuiti cerebrali, engrammi che con qualche accorgimento avrebbero potuto essere riattivati per rivelare un mare di ricordi, perduti solo in apparenza.
La situazione, tuttavia, non è così lineare come l’ha descritta Penfield. Anzitutto il numero di persone che riferiva di ricordare episodi lontani rappresentava decisamente la minoranza del suo campione sperimentale (40 su 520 pazienti stimolati con gli elettrodi), in secondo luogo ciò che i pazienti ritenevano ricordi avrebbero potuto essere fantasticherie o allucinazioni in risposta ad alcune percezioni o immagini visive indotte dalla stimolazione elettrica, come risulta da successivi esperimenti che riguardano soprattutto l’aumento dell’attività elettrica della corteccia temporale. Tuttavia, malgrado esistano oggi forti dubbi sulla concezione di Penfield, secondo cui il nostro cervello sarebbe impregnato di memorie che non sono in grado di manifestarsi, l’idea che il cervello registri ogni dettaglio, dato il suo enorme potenziale, non può essere scartata in assoluto, anche se essa appare alquanto improbabile, soprattutto se si tiene conto del fatto che numerosi esperimenti sulle basi neurobiologiche della memoria, effettuati su organismi ben più semplici dell’uomo, come gli invertebrati o i topolini, indicano che la traccia mnemonica è piuttosto fragile e che, dopo qualche tempo, si indebolisce fino a scomparire.
Dal punto di vista sperimentale è difficile suffragare l’una o l’altra ipotesi, mentre è più semplice e più affidabile concentrarsi sulle caratteristiche dell’oblio e degli stimoli che sono in grado di riattivare una particolare memoria. Oggi è noto che il numero degli stimoli in grado di attivare una memoria diminuisce con il passare degli anni cosicché il ricordo diventa sempre più sfocato: è quanto risulta dalle ricerche di una psicologa, Marigold Linton, che ha condotto su sé stessa uno degli studi più accurati in tema di autobiografie. Per quasi 15 anni ha messo per iscritto, giorno dopo giorno, la descrizione di almeno un paio di eventi di rilievo, o che almeno tali le parevano al momento: a distanze varie, mesi o anni, Linton è andata a rileggersi quegli scritti e ha visto che inizialmente i ricordi sono vivi e non sono necessari molti suggerimenti per rievocarli, mentre man mano che il tempo trascorre e i ricordi si affievoliscono, il numero di suggerimenti in grado di far ritornare alla mente quell’esperienza si assottiglia sempre più. C’è bisogno di uno stimolo che combaci in modo quasi perfetto con la memoria di un tempo perché un antico ricordo venga recuperato, come per esempio sa chi non ritorna più da tanto tempo in un luogo che una volta gli era familiare: inizialmente si può verificare un senso di spaesamento ma all’improvviso un qualche particolare in apparenza insignificante può ridestare il ricordo nella sua interezza. All’inizio, ogni chiave è buona per aprire la serratura del ricordo, ma con il tempo la chiave è sempre più specifica. Il ruolo degli stimoli-suggerimento è quindi molto diverso nelle memorie di lunga data o in quelle più fresche: man mano che le prime si affievoliscono diminuisce il numero di stimoli in grado di riscostruirle, mentre per recuperare le memorie recenti bastano pochi stimoli. D’altronde, il rapporto tra stimolo e ricordo non è statico ma varia nel tempo; così, tra i tanti stimoli che possono fare affiorare un ricordo, ne vengono selezionati alcuni o altri a seconda del modo in cui il ricordo viene ristrutturato nel tempo. Le modalità attraverso cui la nostra mente elabora le memorie rilevanti sono in effetti variabili. Due psicologi, M.A. Conway e D.C. Rubin, indicano che quando parliamo del nostro passato ci riferiamo generalmente a tre diversi tipi di ‘strutture’ autobiografiche: i periodi della nostra vita, che vengono misurati in anni o decenni, per esempio gli anni dell’infanzia in cui si andava in montagna e si stava in quella casa vicino al torrente; gli eventi a carattere generale, che vengono misurati in giorni, settimane o mesi, come per esempio quell’estate in montagna in cui, per la prima volta, facemmo un lungo giro dei rifugi; infine
i singoli episodi, che vengono anche definiti con il termine di ricordi personali, fatti specifici di breve durata associati a un fatto come ‘quella volta che in montagna mi slogai una caviglia e ritornai a valle con la jeep’. Queste diverse strutture autobiografiche possono essere richiamate da uno stesso stimolo e, a seconda delle situazioni, la parola ‘montagna’ può fare affiorare periodi della vita, eventi generali, episodi ma anche ricordi semantici (con montagna si indica un rilievo di altezza superiore alla collina) o immagini percettive generiche, per esempio l’immagine di un tramonto in montagna.
Memoria autobiografica
Come avviene che i diversi tipi di ricordi autobiografici lascino tracce diverse nella nostra mente? Perché ricordiamo di più alcuni eventi, in particolare gli eventi a carattere generale, piuttosto che altri? Se domandiamo a una persona di parlarci dei suoi ricordi, o se riflettiamo sul nostro passato, ci renderemo conto del fatto che questi grandi ‘contenitori’ scandiscono la nostra vita: in genere pensiamo a quando da ragazzi giocavamo a tennis, a quando eravamo all’università, a quando abbiamo iniziato a lavorare, piuttosto che a quell’incidente nella partita, a quell’esame di latino, a quell’errore sul lavoro ecc. La buona memoria per questi ricordi generali dipende in gran parte dal fatto che essi connotano aspetti importanti della nostra vita e vengono ripetuti: sono ricordi che parlano della nostra identità, degli anni in cui la nostra personalità ha preso corpo, come avviene per gli anni dell’adolescenza, della gioventù, della prima maturità. Anno dopo anno ci ripetiamo questi ricordi ed essi lasciano una traccia stabile che difficilmente viene intaccata dall’amnesia. I ricordi legati ai periodi della vita hanno invece un’altra funzione: servono per inquadrare in maniera più generica fasi del nostro passato, per poi passare al livello degli eventi generali. Per esempio, se qualcuno vi chiede di raccontargli la vostra vita, non inizierete certamente da singoli episodi che darebbero un’idea frammentaria del vostro passato, e probabilmente non iniziereste da ricordi troppo vasti, cioè dai periodi della vita, ma procedendo a ritroso, o dall’infanzia a oggi, riferireste che da bambini andavate in montagna (struttura generale) e che una volta avete fatto il giro dei rifugi. È su questi eventi generali che ci si sofferma per comunicare agli altri alcuni aspetti della nostra identità, mentre i ricordi specifici possono rappresentare un approfondimento successivo. Questa suddivisione rimanda a punti di vista diversi per rappresentare la memoria autobiografica – più vasti, intermedi o più focalizzati – il che suggerisce che ogni ricordo della nostra vita non dipenda da una singola traccia, o engramma che dir si voglia, in quanto le esperienze del passato dipendono da un complesso lavoro di rimpasto di frammenti relativi a diversi livelli autobiografici. Come i singoli ricordi dipendono dalla ricostruzione di un puzzle composto da diversi frammenti, per esempio percezioni visive, uditive, olfattive, criteri semantici ecc., così le memorie della nostra vita dipendono dal mettere insieme frammenti disparati. Questa concezione della memoria autobiografica deriva anche dall’osservazione dei pazienti colpiti da forme di amnesia retrograda che hanno portato alla scomparsa di frammenti del loro passato e che possono conservare il ricordo di anni lontani ma hanno perduto i ricordi di eventi specifici o degli anni più recenti: confrontandosi con le persone di famiglia e apprendendo, come se fosse la prima volta, fatti specifici relativi al loro passato ed eventi generali più recenti, i pazienti amnesici devono inserire tali fatti nella trama della propria memoria autobiografica per ricostruire il proprio passato. Questi elementi dell’autobiografia appresi dagli altri vengono vissuti con un senso di distacco e di estraniazione. Eppure essi contribuiscono al processo di ricostruzione della continuità autobiografica, del significato della propria esistenza. Infatti, la persona che ha perduto parte dei suoi ricordi incorpora le nuove informazioni e le utilizza per ‘raccontarsi storie’ sulla propria identità. Qualcosa di simile avviene in tutti noi: ci raccontiamo storie sul nostro passato e man mano ristrutturiamo il significato dei singoli ricordi, cosicché la realtà delle memorie diventa progressivamente meno importante rispetto alla sua ricostruzione ‘di parte’ che implica distorsioni, abbellimenti, omissioni, trasformazioni...
L’accuratezza delle nostre memorie è fuori discussione se ne consideriamo gli aspetti generali. Invece numerosi particolari e aspetti specifici possono essere più dubbi, modificarsi lentamente con il passare del tempo. Per esempio, sono stati condotti studi in cui alcuni volontari dovevano annotare su un diario eventi critici della loro vita quotidiana. A distanza di tempo uno psicologo rileggeva brani del diario che avevano scritto chiedendo loro se ricordavano gli avvenimenti descritti. In alcuni casi lo psicologo modificava ad arte il testo (dattiloscritto), anche in modo sostanziale: più lungo era l’intervallo di tempo trascorso, maggiore era la possibilità che gli studenti riconoscessero come propri ricordi gli eventi (falsi) descritti nel ‘loro’ diario. L’incapacità di cogliere la differenza tra i ricordi ‘veri’ e ‘falsi’ dipende in gran parte dall’oblio cui va incontro la memoria autobiografica. Gli studi della psicologa Marigold Linton, di cui abbiamo parlato in precedenza, testimoniano in modo molto chiaro l’entità di questo fenomeno: nel 1972 la psicologa cominciò ad annotare in modo conciso, e utilizzando uno stesso modulo di diario, di circa tre righe, diversi eventi quotidiani. Giorno per giorno, annotava gli avvenimenti, uniformandoli per lunghezza attraverso le usuali tre righe, per evitare di dare uno spazio diverso ai differenti ricordi e quindi di facilitare la registrazione di alcuni anziché di altri. Linton trascriveva almeno due eventi al giorno e, una volta al mese, estraeva a caso le schede relative a due fatti, le rileggeva, cercava di stabilirne la data e di rievocarli. Nel momento in cui gli eventi venivano annotati e in quello in cui venivano riletti essi venivano anche valutati in termini della loro rilevanza, delle emozioni coinvolte, dei significati ecc. Attraverso questa procedura un po’ ossessiva, in cui la psicologa era a un tempo soggetto e oggetto sperimentale, Linton arrivò a stabilire che i ricordi vanno incontro all’oblio al ritmo di circa il 5-6% l’anno, un ritmo che comporterebbe la scomparsa di circa la metà dei ricordi di specifici eventi se questi non venissero incamerati nell’ambito del più vasto sistema della memoria autobiografica relativa a fatti a carattere generale o ai periodi della nostra vita: i singoli mattoni di cui sono costruiti questi contenitori più vasti possono infatti disgregarsi, mentre permane la percezione del flusso delle memorie e del loro significato globale.
Malgrado queste evidenze, la memoria è spesso presentata come un archivio in cui vengono depositate le esperienze: un archivio duraturo che contiene le cosiddette memorie a lungo termine, consolidate e stabilizzate a partire dalla forma a breve termine, o di lavoro. Questa concezione a due livelli della memoria si è affermata in seguito alle teorie di Donald O. Hebb (1904-1985) che per primo ha sostenuto che le memorie a breve termine dipendessero da alterazioni elettriche delle sinapsi – i punti di contatto tra neurone e neurone – di un circuito nervoso e quelle a lungo termine da alterazioni strutturali. In linea con le teorie hebbiane, gli psicobiologi avevano dimostrato come la fase del consolidamento della memoria fosse fragile e come numerosi trattamenti fisici, per esempio un elettroshock effettuato immediatamente dopo un’esperienza o la somministrazione di antibiotici che bloccano la sintesi proteica, e quindi la produzione di nuove sinapsi, impedissero il passaggio dalla memoria a breve a quella a lungo termine: una volta però che il consolidamento era avvenuto, nulla avrebbe potuto turbare i ricordi stabili, salvo un lento e inesorabile processo di oblio, più evidente negli anni della vecchiaia.
Ristrutturazione dei ricordi
I ricordi, in realtà, non sono stabili ma vengono continuamente ristrutturati. La mutevolezza dei ricordi nel tempo appare da due ordini di ricerche, sperimentali e cliniche. Il primo approccio si basa su ricerche condotte dallo psicologo Larry R. Squire sugli effetti dell’elettroshock: questo trattamento, usato ancora dagli psichiatri in casi di grave depressione nervosa, ha un effetto negativo sulla memoria umana e animale. Se esso viene somministrato subito dopo un’esperienza, prima cioè che avvenga il consolidamento della memoria a breve termine nella forma a lungo termine, si verifica un’amnesia retrograda, viene cioè cancellato il ricordo di quell’esperienza in quanto l’elettroshock disturba i fenomeni elettrici che caratterizzano la memoria a breve termine e questa non si consolida. Squire ha però indicato come l’elettroshock non agisca soltanto sul processo di consolidamento della memoria, cioè sulla trasformazione da memoria breve a memoria lunga, ma anche sulle memorie già consolidate. Ciò contraddice in qualche misura un vecchio dogma sul consolidamento della traccia della memoria: infatti, gli psicobiologi ritenevano che, una volta consolidata, la memoria non potesse essere più turbata da quei trattamenti, come l’elettroshock, che provocano un dissesto dei fenomeni elettrici che sono alla base della memoria breve e da cui si passa alla memoria a lungo termine. L’immutabilità e la stabilità della memoria a lungo termine sarebbero quindi un mito e il processo di consolidamento non assicurerebbe una costanza delle esperienze codificate in forma stabile? È quanto indica una serie di studi recenti, in buona parte legati al lavoro di Karin Nader, Joseph LeDoux e Susanne Sara, che dimostrano che oltre al consolidamento esiste anche il riconsolidamento, caratterizzato da ristrutturazioni delle precedenti esperienze.
Nei classici esperimenti sul blocco del consolidamento della memoria da una fase labile a una stabile, gli animali ricevevano un’iniezione intracerebrale di un antibiotico al termine della seduta di apprendimento: quando l’inibitore della sintesi proteica veniva somministrato immediatamente dopo l’esperienza, questa non veniva consolidata, mentre la somministrazione dell’antibiotico era inefficace se avveniva alcune ore dopo, cioè quando aveva avuto già luogo il processo di consolidamento. Nader e LeDoux hanno invece dimostrato che se gli animali, dopo aver consolidato una particolare esperienza o stimolo, sono nuovamente sottoposti a una breve esperienza simile a quella precedente e subito dopo vengono trattati con l’antibiotico, il ricordo è in buona parte cancellato: in altre parole la loro memoria da stabile diventa instabile quando essi rivivono la prima esperienza. Il termine riconsolidamento sta a indicare che l’atto di ricordare qualcosa rende la traccia mnemonica flessibile, soggetta a rimanipolazioni e ristrutturazioni. La memoria, quindi, anziché essere stabile è dinamica, il che ha implicazioni terapeutiche: numerosi neuroscienziati, tra cui Erik Kandel, hanno infatti ipotizzato che le psicoterapie, ovvero la terapia della parola, potrebbero portare a una ristrutturazione delle esperienze rivissute o perlomeno mutarne il significato, così da renderle più accettabili nel caso di eventi traumatici o al centro di conflitti inconsci.
Le strutture della memoria
Nelle funzioni mnestiche sono coinvolte varie strutture cerebrali, che fanno capo in particolare alla corteccia temporale e al sistema limbico.
La corteccia cerebrale
La corteccia cerebrale è la sostanza grigia che ricopre la superficie degli emisferi cerebrali. Nell’uomo, come pure nei Mammiferi superiori (Ungulati, Carnivori, Pinnipedi, Cetacei, Primati), è percorsa da solchi, più o meno profondi e più o meno estesi, che ne permettono la suddivisione in cinque lobi (frontale, parietale, temporale, occipitale e limbico) e in circonvoluzioni e allo stesso tempo ne aumentano molto l’estensione e quindi le possibilità funzionali. L’importanza che essa ha nell’organizzazione del sistema nervoso è proporzionale all’evoluzione del cervello e del comportamento, come dimostra l’analisi comparativa delle percentuali del volume intracranico occupato dalla corteccia cerebrale in varie specie di Mammiferi.
Nell’uomo la superficie della corteccia cerebrale raggiunge i 2200 cm3, di cui un terzo corrisponde alla superficie esterna, libera, delle circonvoluzioni, e i restanti due terzi appartengono alle pareti dei solchi. All’enorme sviluppo della corteccia nel sistema nervoso umano è lecito collegare caratteristiche mentali e comportamentali peculiari della specie. Va tuttavia riconosciuto che nessuna funzione può essere localizzata unicamente nella corteccia, se si considera che questa può esplicare le sue attività solo interagendo continuamente con il resto del sistema nervoso. Qualsiasi aspetto dei processi mentali, del comportamento, delle regolazioni delle funzioni vegetative costituisce infatti il risultato finale dell’attività complessiva del sistema nervoso, nella quale i contributi della corteccia cerebrale si fondono e si integrano con quelli di molte altre strutture nervose extracorticali.
La maggior parte della corteccia cerebrale (circa il 95% nell’uomo) presenta una caratteristica organizzazione a sei strati sovrapposti di cellule, numerati a partire dalla superficie degli emisferi. Questa parte, sede primaria del processo evolutivo di espansione, costituisce la neocorteccia. Il resto della corteccia cerebrale, limitato a porzioni circoscritte delle facce inferiore e mediale degli emisferi, comprende la paleocorteccia e l’archicorteccia, nelle quali l’organizzazione cellulare differisce da quella della neocorteccia per un minor numero di strati, o per irregolarità o addirittura per mancanza di stratificazione. La paleocorteccia e l’archicorteccia vengono considerate porzioni evolutivamente antiche poiché, al contrario della neocorteccia, sono presenti anche nel cervello di Vertebrati non Mammiferi, dove sono al servizio del senso dell’olfatto e di importanti funzioni di controllo del comportamento da parte della memoria e dell’emotività. Queste funzioni integrative generali sono peraltro mantenute dalle parti più antiche della corteccia anche nei Mammiferi superiori. I neuroni neocorticali si formano in una matrice cellulare distante dalla superficie emisferica, in un periodo compreso tra il secondo e il quarto mese di vita intrauterina. Essi raggiungono la loro sede definitiva migrando lungo guide fornite da cellule della glia radiale, una componente temporanea del cervello destinata a sparire durante la maturazione. Si ritiene che la formazione della neocorteccia comporti una giustapposizione in senso parallelo alla superficie corticale di molteplici unità relativamente indipendenti, identiche o simili per struttura e funzionamento. Ciascuna di queste unità si estende dalla superficie emisferica alla sostanza bianca sottostante la corteccia ed è costituita da un aggregato verticale di neuroni migrati lungo una singola guida di glia radiale e uniti tra di loro da sinapsi chimiche.
Tra i neuroni corticali si distinguono i neuroni piramidali e polimorfi, che danno origine a fibre di proiezione verso centri lontani, e i neuroni stellati spinosi e non spinosi, che assicurano i collegamenti brevi intracorticali. I neuroni stellati non spinosi – circa il 20% del totale – hanno una funzione inibitoria nei confronti di altre cellule corticali, che esercitano tramite il neurotrasmettitore acido γ-amminobutirrico. I neuroni stellati spinosi – circa il 10% del totale –, i neuroni piramidali e i neuroni polimorfi – insieme il 70% del totale – esercitano azioni sinaptiche eccitatorie tramite i neurotrasmettitori glutammato e aspartato. I corpi dei neuroni piramidali si trovano nel secondo, nel terzo e nel quinto strato della neocorteccia, quelli dei neuroni polimorfi si trovano nel sesto strato e quelli dei neuroni stellati si trovano prevalentemente nel quarto strato. Il primo strato della corteccia non contiene corpi di neuroni ma solo fibre nervose o terminali dendritici o assonici. I neuroni piramidali del secondo e del terzo strato danno origine alle connessioni lunghe con altre aree corticali dello stesso emisfero (fibre d’associazione) e dell’emisfero opposto (fibre commessurali del corpo calloso e della commessura anteriore); i neuroni piramidali del quinto e i neuroni polimorfi del sesto strato proiettano a centri non corticali nel talamo, nei gangli della base, nella formazione ippocampale, nel tronco dell’encefalo e nel midollo spinale. I neuroni stellati spinosi e non spinosi forniscono le connessioni brevi intracorticali nell’ambito di una stessa area o di aree contigue. Le proiezioni che raggiungono la corteccia da centri sottocorticali provengono dal diencefalo, specialmente dal talamo, e dal tronco dell’encefalo. I neuroni corticali contengono anche peptidi che hanno presumibilmente una funzione neuromodulatrice.
I metodi più utilizzati per lo studio dell’attività globale della corteccia sono quelli elettrofisiologici. L’elettroencefalografia e l’elettrocorticografia hanno rivelato l’esistenza di oscillazioni continue di differenza di potenziale tra elettrodi applicati rispettivamente al cuoio capelluto e alla medesima superficie corticale. Queste oscillazioni sono presenti in stati fisiologici molto diversi come la veglia e il sonno, e anche in condizioni non fisiologiche come l’anestesia generale, o patologiche come l’epilessia. Il carattere incessante delle onde elettroencefalografiche e le modificazioni sistematiche di ampiezza e frequenza che esse esibiscono nelle varie condizioni indicano che la corteccia è sempre attiva, ma che la sua attività cambia qualitativamente a seconda dello stato del soggetto. A riprova di ciò, le registrazioni effettuate mediante l’uso di microelettrodi hanno dimostrato che singoli neuroni corticali tendono a emettere continuamente potenziali d’azione anche in assenza di stimoli esterni. Tuttavia, la distribuzione spaziale e temporale di questi potenziali d’azione varia in relazione al ciclo sonno-veglia, nonché a cambiamenti di reattività all’ambiente circostante legati all’attenzione e alla motivazione. La veglia e l’attenzione sono associate alla cosiddetta desincronizzazione corticale, mentre la diminuzione della reattività psichica e comportamentale, varie fasi del sonno fisiologico e l’anestesia generale si associano alla cosiddetta sincronizzazione corticale. Un’eccezione notevole alla corrispondenza tra il sonno fisiologico e la sincronizzazione corticale è costituita dalla fase di sonno con sogni, nella quale l’attività elettrica della corteccia è assai simile, se non identica, a quella della veglia. Una riduzione cospicua e generalizzata dell’attività corticale è incompatibile sia con la veglia e il mantenimento della coscienza, sia con il sonno fisiologico. L’assenza completa di ogni attività elettrica corticale, che si rileva in alcuni stati di coma, è sempre un segno di gravissima sofferenza del sistema nervoso. Il cosiddetto elettroencefalogramma piatto può servire, unitamente ad altri segni clinici, come criterio di accertamento della ‘morte cerebrale’.
La specializzazione funzionale delle aree corticali non dipende da una loro propria organizzazione intrinseca, ma dalle connessioni specifiche e differenziate che collegano ciascuna area con altri centri nervosi. La teoria della specializzazione funzionale delle aree corticali si fonda su tre elementi: in primo luogo, sulla specificità delle alterazioni conseguenti a lesioni di zone circoscritte della corteccia dell’uomo e degli animali; in secondo luogo, sulle caratteristiche differenziali delle attività di singoli neuroni di diverse aree corticali, registrate in esperimenti su animali e durante operazioni neurochirurgiche nell’uomo; infine, sulle attivazioni localizzate di aree corticali, rilevate con metodi elettrofisiologici o con analisi non invasive del flusso sanguigno o del metabolismo regionale in soggetti umani durante l’esecuzione di compiti sensomotori e mentali. Una distinzione semplicistica ma efficace divide le aree corticali in aree di moto, di senso, per il linguaggio e associative. Di regola, in ciascun emisfero le aree di moto controllano in prevalenza la muscolatura del lato opposto del corpo, e quelle di senso ricevono informazioni sensoriali provenienti in prevalenza dalla metà controlaterale del corpo e dello spazio extracorporeo. Se si prescinde dal rapporto funzionale con le metà opposte del corpo e dello spazio, le aree di moto e di senso dei due emisferi sono praticamente equivalenti dal punto di vista funzionale. Questa equivalenza tra i due lati non vale per le aree associative e per le aree per il linguaggio, poiché in questi casi il piano di organizzazione funzionale specifico della corteccia umana prevede che aree corrispondenti dei due emisferi abbiano compiti diversi.
Le aree corticali di moto si trovano prevalentemente nel lobo frontale, situato nella parte anteriore del cervello. Le aree premotorie sovrintendono alla programmazione dei movimenti in collaborazione con altre aree corticali, come l’area associativa prefrontale, e con i centri sottocorticali, come i gangli della base e il cervelletto, che agiscono sulla corteccia attraverso nuclei con funzione motoria situata nel talamo. Le aree motorie, soggette anch’esse a influenze da parte dei gangli della base e del cervelletto, sono invece deputate all’esecuzione dei movimenti, compito che assolvono tramite le loro connessioni dirette con i neuroni spinali e troncoencefalici che innervano i muscoli del corpo e della faccia.
Ogni modalità di senso è rappresentata in più aree corticali di ciascun emisfero. Il principio generale di organizzazione comporta la presenza di un’area primaria per ciascuna modalità di senso per ciascun emisfero. Le aree primarie di senso ricevono dai nuclei talamici specifici le informazioni trasmesse dagli organi sensoriali corrispondenti – occhio, orecchio, cute ecc. – e le trasmettono, sia in serie sia in parallelo, a numerose altre aree corticali il cui compito è quello di elaborare ulteriormente tali informazioni secondo la loro propria specializzazione funzionale. Le aree di senso sono distribuite in varie porzioni della corteccia: le aree della sensibilità somatica sono localizzate nella neocorteccia del lobo parietale, subito dietro il lobo frontale; le aree del senso della vista si trovano nella corteccia del lobo occipitale e anche nei lobi parietale e temporale; le aree del senso dell’udito sono situate nella neocorteccia del lobo temporale, al di sotto del lobo parietale; le aree olfattive e gustative si trovano nel rinencefalo, sulla faccia mediale degli emisferi cerebrali; le aree corticali per il linguaggio sono situate, nella stragrande maggioranza dei destrimani e nel 70% dei mancini, nel solo emisfero sinistro. Nei mancini che non rientrano nella percentuale indicata, la specializzazione funzionale di lato delle aree corticali per il linguaggio è per lo più invertita, con dominanza dell’emisfero destro; in una minoranza di casi la rappresentazione corticale del linguaggio è bilaterale.
Le varie aree corticali sono collegate tra loro da speciali aree associative che consentono il collegamento sensomotorio, l’integrazione tra le varie modalità sensoriali e la regolazione generale del comportamento da parte dell’emotività, della motivazione, della memoria e dell’ideazione. Semplificando, si possono individuare tre porzioni associative della corteccia, distinte per sede e funzione. Una grande area associativa prefrontale è importante per l’iniziativa e la programmazione motoria; essa sembra inoltre avere un ruolo essenziale nelle decisioni che dirigono e improntano la condotta generale dell’individuo. Una seconda area associativa, posta alla confluenza dei lobi parietale, temporale e occipitale sulla faccia laterale degli emisferi, svolge funzioni di integrazione multisensoriale e di raccordo tra percezione e linguaggio nell’emisfero di sinistra, e di orientamento nello spazio nell’emisfero di destra. Infine, un’area associativa limbica, che include componenti delle facce mediali e inferiori dei lobi frontale, parietale e temporale, partecipa alla regolazione motivazionale, emotiva e affettiva del comportamento e serve ai processi di apprendimento, di memorizzazione e di rievocazione.
In passato si riteneva che l’organizzazione topografica delle aree corticali fosse relativamente fissa, sia nel singolo individuo sia fra individui della stessa specie. Oggi, invece, si è appreso che cospicue variazioni possono essere osservate sia nel cervello immaturo sia in quello adulto, in conseguenza di esperienze specifiche, come l’uso prolungato di una parte del corpo a cui corrisponde un’espansione della rappresentazione corticale, o di alterazioni delle vie afferenti. L’alto numero di aree corticali dedicate a una particolare modalità di senso o al controllo motorio è uno dei criteri per giudicare il grado di complessità dell’organizzazione cerebrale.
Il sistema limbico
Il sistema limbico comprende tutte le formazioni del cosiddetto lobo limbico, nel quale sono incluse componenti che appartengono a distretti diversi, telencefalici e diencefalici, reciprocamente integrati. Principali componenti del sistema limbico sono il giro cingolato, la formazione ippocampale, i nuclei settali (posti medialmente e inferiormente ai gangli della base), l’amigdala, i nuclei mammillari (alla base degli emisferi) e il nucleo anteriore del talamo. Tutte queste componenti encefaliche sono connesse tra loro mediante un complicato intreccio di vie nervose. Fino a non molto tempo addietro, si riteneva che le connessioni tra sistema limbico e corteccia cerebrale fossero estremamente scarse; più recentemente, invece, sono state identificate numerose connessioni limbicocerebrali che svolgono un ruolo essenziale in molte funzioni superiori, quali per es. l’apprendimento e la memoria.
Dei costituenti del sistema limbico, il giro cingolato, sulla superficie mediale dell’emisfero cerebrale, produce, se opportunamente stimolato, varie combinazioni di effetti vegetativi e somatici. Gli effetti vegetativi includono, per es., alterazioni respiratorie e circolatorie (riduzione della frequenza respiratoria e cardiaca, e della pressione arteriosa), o gastrointestinali e pupillari (alterata peristalsi e midriasi); quelli somatici consistono soprattutto in modificazioni del tono muscolare e della motilità volontaria (più spesso nel senso dell’inibizione; talvolta compaiono reazioni aggressive). La parte anteriore del giro cingolato appare implicata nell’attenzione esecutiva, che interviene in compiti quali la selezione e/o il monitoraggio delle risposte (specie se contrastanti), o la gestione di stimoli nuovi, e nell’acquisizione di risposte condizionate. La rimozione bilaterale del giro cingolato provoca nella scimmia docilità, indifferenza e deficit dell’apprendimento condizionato.
L’amigdala, situata al di sotto dell’uncus temporale, consta di due gruppi nucleari: corticomediale, in connessione principalmente con il bulbo olfattorio, l’ipotalamo e i nuclei vegetativi del tronco encefalico; basolaterale, soprattutto connesso con il talamo, lo striato ventrale e la corteccia prefrontale. La stimolazione dei nuclei corticomediali provoca un insieme di reazioni somatiche e vegetative, quali movimenti masticatori e salivazione, o riempimento di retto e vescica con inibizione dei movimenti volontari. La stimolazione dei nuclei basolaterali produce reazione di risveglio e incremento dell’attenzione, o, se particolarmente intensa, paura o rabbia. Nell’uomo, la stimolazione dell’amigdala provoca un ampio spettro di reazioni emotive e vegetative, ma soprattutto una sensazione d’ansia. Effetti simili, paura e vari tipi di allucinazioni, sono stati osservati in corso di stimolazione dell’ippocampo e della corteccia temporale anterosuperiore. La distruzione bilaterale dell’amigdala determina perdita dell’aggressività e delle reazioni di difesa, assenza di paura, isolamento sociale, ipersessualità e difficoltà nell’apprendere l’associazione tra uno stimolo e il suo significato, specie se in termini di ricompensa o punizione.
La formazione ippocampale, a livello della porzione mediale del lobo temporale, comprende l’ippocampo, il giro dentato (strutture più profonde), il subiculum e la corteccia entorinale (più superficiali). Essa ha connessioni molto strette con le aree associative corticali e con le altre strutture limbiche, e gioca un ruolo cruciale nell’apprendimento e nella memoria. Lesioni bilaterali della formazione ippocampale determinano un grave deficit della memoria episodica, che implica l’esplicito richiamo di particolari eventi personali. Il deficit è soprattutto anterogrado, ma anche retrogrado, interessando i fatti accaduti anche svariati mesi prima della lesione. La memoria a breve termine e la memoria semantica sono caratteristicamente conservate. Le lesioni limitate unicamente all’ippocampo sembrano compromettere soltanto la memoria spaziale episodica (per es., il ricordo di dove è stato posto un oggetto ecc.).
I gangli della base comprendono lo striato (neostriato: caudato e putamen) e il globo pallido, situati profondamente negli emisferi cerebrali, il nucleo subtalamico e la substantia nigra (pars compacta e reticulata), posti a livello troncoencefalico alto. Lo striato riceve afferenze eccitatorie da quasi tutta la corteccia cerebrale e invia fibre inibitorie al globo pallido e alla substantia nigra. Da questi ultimi, fibre inibitorie raggiungono le strutture motorie del tronco encefalico e il talamo (nuclei ventrali anteriore e laterale, e nucleo centromediano). Il talamo, a sua volta, si ricollega con la corteccia cerebrale, soprattutto con le aree motorie, mediante fibre eccitatorie. In sostanza, impulsi eccitatori diretti dalla corteccia allo striato tenderebbero a produrre inibizione dell’attività pallidale e, quindi, disinibizione dei neuroni talamocorticali. Il nucleo subtalamico riceve impulsi dalle aree motorie corticali e manda efferenze eccitatorie al globo pallido e alla substantia nigra (pars reticulata).
I disturbi della memoria
I disturbi della memoria possono essere di tipo qualitativo e quantitativo. Quelli del primo tipo sono le cosiddette paramnesie, che comprendono illusioni (allomnesie) e allucinazioni (pseudomnesie). Le illusioni della memoria sono ricordi incompleti, inadeguati o falsati; sono frequenti nel pensiero affettivo (per es., negli stati depressivi di colpa o di autoaccusa) e nei deliroidi secondari ad avvenimenti intensamente vissuti; tali deformazioni dei ricordi possono essere però presenti, sia pure in grado più lieve, anche nell’evoluzione normale della memoria. Le allucinazioni mostrano tutti i gradi di passaggio del gruppo precedente. Ci può essere errore di distinzione tra presente e passato (falsi riconoscimenti) o tra realtà e fantasia (confabulazioni). Si può fare confusione tra un presente realmente percepito e un ricordo falsamente creato; si può avere la sensazione del ‘già visto’ o del ‘mai visto’, frequente nelle sindromi di depersonalizzazione. Comunque, si devono sempre distinguere i falsi riconoscimenti della memoria dei fatti da quelli delle persone (per es., ‘illusione di sosia’). I falsi ricordi costituiscono un gruppo molto importante per la psicopatologia, soprattutto melancolica e delirante. Non di rado essi sono creati da un’attività fantastica (confabulazioni) indipendente dal tono affettivo o da un tema delirante: si parla anche di presbiofrenia (tipica negli stati demenziali senili e presenili) e di sindrome di Korsakow (tipica degli alcolisti, dei traumatizzati cranici, delle encefalopatie metaboliche tossiche, arteriosclerotiche, da paralisi progressiva).
I disturbi di tipo quantitativo vengono indicati con il termine dismnesia e si distinguono a loro volta in ipermnesie e ipomnesie. Le ipermnesie, che hanno scarso interesse per la clinica, possono essere permanenti oppure transitorie, per cui si possono ricordare improvvisamente e con eccezionale chiarezza anche i minimi particolari di un evento passato; si osservano talora in soggetti maniaci, durante alcuni stati tossici da stupefacenti e durante stati psichici abnormi da insonnia. Le ipomnesie si riferiscono invece alla perdita generica della capacità di rievocare. Le amnesie consistono nella mancanza o nella perdita della memoria, soprattutto come incapacità a rievocare ricordi circoscritti nel tempo.
In neuropsicologia si distinguono un’amnesia ‘anterograda’ e una ‘retrograda’ o ‘retroattiva’. Si parla di amnesia anterograda quando la perdita dei ricordi è relativa a eventi che si sono verificati dopo un trauma cranico o dopo una malattia, il che implica l’incapacità di memorizzare nuove esperienze. L’amnesia retrograda si riferisce invece a eventi precedenti il trauma o la malattia, i quali hanno provocato la perdita dei ricordi, un vero e proprio ‘buco’ nella memoria. In un’accezione più ampia, le amnesie fanno parte dei processi di oblio, che contribuiscono a far sì che alcune memorie decadano, siano meno vive o vengano riaggiornate. In questo senso, le amnesie rappresentano fatti comuni nell’ambito dei processi cognitivi, legati sia a una momentanea difficoltà di accesso alla memoria, sia a un blocco, spesso emotivo o indotto da dinamiche inconsce.
Lo studio sperimentale delle amnesie risale all’inizio del Novecento, quando Georg Elias Müller e Alfons Pilzecker sottoposero alcuni volontari a un esperimento durante il quale essi dovevano apprendere del materiale verbale composto di sillabe o numeri. Se veniva loro richiesto di imparare dell’altro materiale subito dopo il primo apprendimento, essi dimenticavano il materiale appreso nella prima seduta, mentre l’oblio era meno rilevante se intercorreva un certo lasso di tempo tra le due sedute. I due psicologi tedeschi giunsero alla conclusione che la seconda seduta di apprendimento esercitava un effetto negativo sulla memorizzazione, in quanto interferiva con il consolidamento del primo apprendimento e produceva una perdita della memoria, la cosiddetta amnesia retrograda. Il concetto di ‘interferenza retroattiva’, alla base dell’amnesia retrograda, venne ripreso intorno alla fine degli anni 1940 dagli psicologi sperimentali che, oltre a ispirarsi agli studi di Müller e Pilzecker, erano stati suggestionati dai dati clinici ottenuti da Ugo Cerletti e Lucio Bini, gli psichiatri italiani cui si deve l’introduzione dell’elettroshock nella terapia delle psicosi. Questa pratica terapeutica comporta una disorganizzazione di varie funzioni nervose, tra cui un effetto amnestico che colpisce la memoria degli avvenimenti verificatisi prima del trattamento elettroconvulsivo. Un effetto analogo si verifica a seguito di traumi cranici, per es. quelli da incidenti automobilistici, dove la persona presenta un’amnesia selettiva per gli eventi immediatamente precedenti l’incidente, mentre i ricordi più antichi non subiscono alterazioni. Questo tipo di amnesia retrograda si riscontra anche negli animali sottoposti a un trattamento con elettroshock subito dopo il test di apprendimento e costituisce un modello sperimentale in uso per studiare i tempi e i modi del processo di consolidamento, sin da quando Carl Porter Duncan (1949) stabilì che l’effetto amnestico dell’elettroshock è tanto più evidente quanto più il trattamento è vicino alla fine dell’esperienza di apprendimento. Nel suo esperimento, divenuto ormai un classico negli studi sperimentali sulla memoria, Duncan utilizzò diversi gruppi di ratti che dovevano imparare a evitare una blanda punizione e notò che si verificava un’amnesia retrograda soltanto nel caso in cui l’elettroshock venisse somministrato entro un’ora dalla fine dalla prova, mentre l’apprendimento non veniva alterato se l’elettroshock era più tardivo. Secondo l’interpretazione data da Duncan di questi risultati, se entro breve tempo dalla fine di un’esperienza si perturba l’attività elettrica dei neuroni attraverso l’azione dell’elettroshock si interferisce con il consolidamento della memoria, mentre trattamenti più tardivi sono inefficaci in quanto si sono formate delle stabili modifiche a livello delle sinapsi. L’elettroshock modifica quindi il consolidamento della memoria attraverso un’amnesia retrograda che impedisce il passaggio della memoria dalla forma a breve termine (ancora fragile, in quanto legata a perturbazioni elettriche dei neuroni e delle loro sinapsi) a quella a lungo termine, legata a modifiche ormai stabili della funzione e della struttura delle sinapsi nervose.
Nell’uomo il fenomeno dell’amnesia è ancora più complesso perché, oltre alla memoria a breve termine e a quella a lungo termine, noi possediamo anche una memoria ‘procedurale’ e una ‘dichiarativa’ o ‘proposizionale’. La memoria di tipo procedurale, legata cioè ad abilità, viene espressa essenzialmente attraverso prestazioni di tipo motorio, non è accessibile alla coscienza, è estremamente antica dal punto di vista filogenetico e compare precocemente nel corso dello sviluppo postnatale. Al contrario, la memoria di tipo dichiarativo, che acquisisce informazioni su fatti ed episodi, è accessibile alla coscienza e rappresenta una tappa abbastanza tardiva sia in termini evoluzionistici, in quanto può essere considerata tipica dei Vertebrati, sia in termini di sviluppo postnatale umano. Una differenza sostanziale tra i due tipi di memoria consiste nel fatto che le memorie di tipo procedurale vanno difficilmente incontro all’amnesia e non sono colpite da trattamenti inibitori come l’elettroshock. Inoltre, strutture nervose come l’ippocampo e la regione temporale media, responsabili dell’integrità delle memorie di tipo dichiarativo – che vanno incontro a una grave disorganizzazione nel caso di lesioni localizzate nell’ippocampo e nella regione temporale media –, non sono invece responsabili delle memorie di tipo procedurale.
Un particolare tipo di amnesia è quella cosiddetta ‘infantile’, che si riferisce cioè all’impossibilità di ricordare gli eventi relativi ai primi anni della nostra vita: si tratta di una forma di amnesia che riguarda un periodo dell’esistenza durante il quale l’individuo apprende di continuo e per di più la quantità e l’estensione degli apprendimenti sono notevoli. Tra le diverse teorie che spiegano l’amnesia infantile, una delle più accreditate sottolinea le differenze che esistono tra l’elaborazione dell’informazione nell’età infantile e in età più tardive. Per un bambino molto piccolo, non ancora in grado di parlare, un libro, per es., è solo un oggetto che appartiene all’ambiente circostante. In seguito, con lo sviluppo del linguaggio, questo oggetto acquisterà un nome e verrà definito come un libro: il bambino sarà capace di leggerne il titolo, comprenderne il contenuto e apprezzarlo rispetto a quello di altri libri. Con il tempo crescono, dunque, i punti di riferimento e di conseguenza la possibilità di formare categorie e di generalizzare, cioè di prescindere dai puri e semplici aspetti sensoriali di un messaggio. Secondo gli studiosi del sistema nervoso, le cause dell’amnesia infantile vanno ricondotte al processo di mielinizzazione: le fibre nervose che si distaccano dal neurone sono formate da una sostanza, la mielina, che le isola dalle fibre circostanti, migliorando e rendendo più selettiva la conduzione nervosa tra i neuroni; la deposizione dell’involucro di mielina intorno alla fibra nervosa avviene lentamente nel corso dello sviluppo postnatale e soltanto intorno ai 5-6 anni di vita tale processo è fortemente avanzato. Un incompleto rivestimento delle fibre nervose non consentirebbe ai vari nuclei del cervello di interagire in maniera coerente per formare quella mappa complessa che costituisce la memoria di specifici eventi, che per questa ragione andrebbero incontro all’amnesia infantile o, più in generale, all’oblio. Bisogna inoltre considerare che la fase infantile rappresenta un periodo in cui i ricordi vengono man mano ristrutturati e aggiornati nelle loro valenze cognitive e che il massiccio apprendimento che caratterizza l’infanzia implica un forte ruolo dei processi di interferenza proattiva e retroattiva, il che comporta un progressivo oblio.
riferimenti bibliografici
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