Memoriali bolognesi
bolognesi. Catalano de' Malavolti e Loderingo degli Andalò - i due frati godenti bolognesi che in If XXIII D. fa lentamente sfilare, gravati delle cappe rance (v. 100), nel collegio / de l'ipocriti tristi (vv. 91-92) - durante il primo anno della loro podesteria a Bologna, il 26 aprile 1265, pubblicarono un provvedimento di notevole portata e saggezza, che non aveva precedenti e fu di lì a poco imitato in altre città del Nord (Modena, Parma, Venezia, Ferrara): la trascrizione obbligatoria in appositi registri, i Libri Memorialium o Memorialia communis, di tutti gli atti pubblici e i contratti privati (testamenti, lasciti, donazioni, pagamenti, ecc.) onde garantirne l'autenticità e impedirne qualsivoglia alterazione e falsificazione. All'ufficio dei M. (Camera actorum) erano eletti per sei mesi, ma con possibilità di rielezione, notai bolognesi, dapprima quattro, in seguito più numerosi fino a un massimo di venti, che trascrivevano per intero o in compendio i contratti entro e non oltre due giorni dalla loro presentazione da parte dei contraenti. Al termine del semestre, cioè al momento di lasciare il loro ufficio, i notai producevano copie dei loro registri destinate alla sacrestia dei frati predicatori e a quella dei frati minori, gli originali restando negli armadi del comune.
L'Archivio di Stato di Bologna conserva una serie di M., parte originali e parte copie, raccolti in 322 volumi, a numerazione progressiva e quasi senza interruzione dal 1265 al 1436 (l'Ufficio dei M. fu abolito nel 1452): una miniera per lo studioso di storia civile, economica e sociale, ma anche, almeno dall'ultimo ventennio del secolo XIII ai primi cinque lustri del successivo, per lo studioso di storia della lingua e della letteratura. Infatti, diversamente da quelli che si compilarono nelle altre città, i M. bolognesi ci offrono, intercalate agli atti specie fra Due e Trecento, numerose poesie (circa novanta, fra il 1279 e il 1325), soprattutto sonetti e ballate, per la maggior parte anonime ma qualche volta a noi note e da noi facilmente attribuibili, e di poeti locali, dal Guinizzelli a Fabruzzo e a Onesto, come di siciliani e di stilnovisti o giocosi toscani, da Iacopo da Lentini al Cavalcanti, da Cecco Angiolieri a Cino da Pistoia: a tal punto da costituire - pur con predominio di temi erotici e di gusto popolaresco e regionale, e nella conformità " a quell'uso letterario che prevalse a Bologna tra il Due e il Trecento, uso che ha per base il toscano dei rimatori, ma molto turbato da inflessioni locali " (Debenedetti, p. 4) - un vivace sommario delle tendenze e degli aspetti della nostra lirica volgare duecentesca.
Tale trascrizione di componimenti poetici allora di larga circolazione (il componimento più lontano per data pare una canzone di Iacopo da Lentini, mentre gli altri sono in gran parte del tempo dei notai: ed è inutile sottolineare l'importanza della loro datazione in sede di M.) fu intesa dal Carducci come passatempo di uomini di discreta cultura nelle pause del loro arido lavoro; in seguito è stata e viene ora sicuramente spiegata, sul fondamento della disposizione delle scritture, con la norma di riempire in qualche modo (altri modi consueti, e in parte usati negli stessi M., erano righe diagonali od ondulate, disegni, inserzioni di sentenze e proverbi latini e volgari o di testi liturgici) gli spazi rimasti liberi dalla registrazione degli atti a scanso di arbitrarie aggiunte successive (e si tenga anche conto che, come ha dimostrato con argomenti assai persuasivi il Debenedetti, essa doveva generalmente avvenire per copia diretta da manoscritti).
Non ultima ragione del valore delle carte bolognesi, la presenza in esse di versi danteschi (in gran parte di D., in piccola a lui attribuiti), e precisamente: il sonetto No me poriano zamay far emenda (n. 69, c. 203v, del 1287, redatto dal notaio Enrichetto delle Querce); diversi frammenti della canzone Donne ch'aviti intelletto d'amore (n. 82, c. 24, del 1293, redattore Pietro di Allegranza); la ripresa e la prima stanza della ballata Donne, io non so de ch'i' mi prieghi amore (n. 120, c. 179r, del 1310, redattore Bonfigliolo Zambeccari); i primi otto versi della canzone Così nel mio parlar voi' esere aspro (n. 132, c. 310r, del 1316, redattore Filippo de' Panzoni); una terzina della Commedia: If III 94-96 (registri della Curia del Podestà, Accusationes, del 1317, redattore ser Pieri degli Useppi da San Gimignano). Le datazioni, tra l'altro, rendono il sonetto della Garisenda la più antica scrittura conosciuta di rime dantesche, la terzina il più antico frammento a noi pervenuto della Commedia. E il Carducci (Opere, XVIII 134) così commentava la data della canzone della Vita Nuova: " Piace di avere una prova che la canzone di Dante fosse così presto e bene conosciuta in Bologna ". A proposito sempre del sonetto, converrà aggiungere all'esaltazione del Livi (D., suoi primi cultori, p. 5) il preciso rilievo del Contini (Rime 50): il sonetto della Garisenda, " la miglior prova interna del soggiorno giovanile di Dante a Bologna ", ricava un sicuro terminus ad quem dal M. in cui lo trascrisse il notaio Enrichetto.
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