Memorialisti dell'Ottocento. Tomo I
La storia di questi memorialisti, nelle cui pagine rivivono in parte le passioni e i conflitti e le tenaci speranze in cui s'accesero e divamparono le lotte del nostro risorgimento nazionale, si risolve spontaneamente nella generale storia politica e letteraria di quell'età. La illumina e se ne illumina. Dallo studio di questi scrittori, dei quali molti furono al tempo stesso uomini di lettere e uomini di azione politica, e apertamente scrissero e militarono chi coi liberali chi coi democratici, esce confermata quell'impostazione storica che il De Sanctis ebbe a delineare nelle sue lezioni sulla letteratura italiana del secolo XIX, e che egli lasciò purtroppo in uno stato di provvisorio abbozzo e di incompiutezza.1 Appunto perché non ebbe modo di rimeditare e di rielaborare quelle sue lezioni, il De Sanctis riuscì poco persuasivo soprattutto nella descrizione generale delle due scuole da lui fatta in base a princìpi discriminativi troppo rigidi e insieme troppo generici; cosicché mentre le due scuole vi appaiono come affatto separate da un invalicabile spartiacque, al tempo stesso la loro distinzione non risulta abbastanza perspicua ed esauriente. Si spiegano così le sue indecisioni nell'assegnare certi scrittori all'uno o all'altro schieramento; e ne derivarono anche il suo correre a cercare qualche punto di contatto fra i due campi avversi, e il suo illudersi di averlo trovato, ora in Massimo D'Azeglio, ora in Garibaldi e Cavour. In verità, né il reale o l'ideale, né lo stile analitico o il sintetico, riescono in questo caso caratteri di sicura discriminazione; né tra i fatti politici e i letterari, fra i quali possono correre, come corsero, somiglianze e parallelismi e influenze diverse, si possono stabilire più stretti legami di dipendenza o di derivazione.2 Conveniva invece tener distinte le due serie di fatti, e caratterizzare gli indirizzi politici in base ai concreti programmi e ai mezzi per conseguirli, e gli orientamenti letterari in base a criteri schiettamente letterari.
Quanto alla distinzione politica, basterà qui ricordare sommariamente che i democratici erano per l'unità repubblicana, la quale stimavano di poter realizzare solo con l'iniziativa dal basso e cioè con moti insurrezionali del popolo che dovevan metter capo alla costituente nazionale; mentre i moderati, che stavano per la confederazione monarchica, miravano piuttosto a instaurare, mediante l'iniziativa dall'alto, e cioè mediante sagge e opportune riforme, regimi liberali di tipo oligarchico. Le due posizioni erano lontanissime l'una dall'altra, e questo spiega l'asprezza del conflitto tra le due parti; ma non era una lotta per la vita tra due classi nemiche; era invece un contrasto di interessi, una lotta per la conquista del potere nel seno di una stessa classe: la borghesia fondiaria e la borghesia industriale e mercantile. E giacché i democratici miravano solo a un rivolgimento politico e dovevano necessariamente studiarsi di evitare o di soffocare le complicazioni sociali che potevano nascere dall'iniziativa popolare, il loro conflitto coi moderati era predestinato a comporsi mediante una serie di transazioni e di compromessi, e le due parti non dovevano tardare a incontrarsi sul terreno dell'unità monarchica. Di tutta questa situazione ci sono molti ed eloquenti riflessi nelle pagine dei nostri memorialisti, e particolarmente significativi appaiono gli attriti e gli scontri fra il Farini e il Mazzini, fra il Giusti e il Guerrazzi.
Caratteri molto affini a quelli dei due schieramenti politici si riscontrano nelle due correnti letterarie che vi corrisposero; ma le loro vicende furono diverse da quelli, e soprattutto, attesa la sostanziale differenza che corre tra i fatti letterari e la prassi politica, non si addivenne tra loro né si poteva addivenire ad alcuna soluzione di compromesso. Sia l'una che l'altra corrente ebbero la loro origine in quel pullulare di idee romantiche a cui gli scrittori del «Conciliatore» avevano dato una provvisoria ma organica e programmatica impostazione. Quell'animosa e battagliera pattuglia derivava sì dal movimento illuministico lombardo, che l'aveva preceduta ; ma accoglieva anche voci diverse e più nuove e più ricche. Intanto è sintomatico che tra i loro idoli del recente passato accanto al Parini essi mantenessero ancora l'Alfieri; ma ancor più significativa era la loro solidarietà col Foscolo e soprattutto la loro aperta simpatia per Byron e per Schiller, e in genere per tutte le voci nuove e per le nuove scoperte, fra cui anche le letterature orientali. Con la loro lotta per l'abolizione della retorica tradizionale, per l'instaurazione di una letteratura viva e rituffata nel circolo di tutte le attività sociali, per lo svecchiamento delle lettere italiane mediante lo studio delle moderne letterature europee, i conciliatoristi tendevano soprattutto alla fondazione di una letteratura non pure civile, ma decisamente e apertamente nazionale. Nulla appariva tanto chiaro alla loro coscienza quanto l'identità che essi postulavano tra romanticismo, liberalismo e italianità. In quel primo moto romantico la nota della religiosità cristiana non era ancora dominante. Ma i fermenti e le premesse varie, di cui quel moto era ricco, non poterono avere il loro naturale sviluppo, giacché la pattuglia dei conciliatoristi andò presto dispersa ed essi finirono tutti in brevissimo tempo, chi allo Spielberg, chi in esilio. A continuare la lotta rimase allora in Milano, praticamente, il solo Manzoni, il quale tuttavia non era riuscito ad affermarsi in pieno, né con gli Inni sacri, né più tardi con le tragedie. Le cose cambiarono nel 1827 con la pubblicazione dei Promessi sposi. Allora la religiosità cristiana divenne improvvisamente l'elemento predominante e caratteristico del romanticismo lombardo; allora nacque la scuola manzoniana. Cinque anni dopo, all'apparire delle Mie prigioni. questo nuovo indirizzo riceveva una nuova e valida conferma.
Silvio Pellico non era un manzoniano. Anche se egli al ritorno dallo Spielberg poté conoscere il romanzo del Manzoni, è evidente che quella lettura necessariamente frettolosa e sommaria non poté influire sulla nascita delle Mie prigioni. In fatto di idee e di indirizzi letterari egli rimaneva sostanzialmente quale era stato al tempo del « Conciliatore ». Le mie prigioni vanno collocate in prospettiva su questo sfondo. A lungo si è ripetuto che esse sono essenzialmente la storia di un'anima; che vi è ingenuamente narrato il faticoso ritorno dell'autore alla fede religiosa; e che pertanto esse debbano considerarsi come una sorta di itinerarium mentis in Deum. Tutto questo certamente c'è; e in una valutazione strettamente letteraria è giusto che a questo elemento si dia il massimo rilievo. Ma non bisogna trascurare il significato etico-politico, che è meno appariscente, non però meno essenziale. Se nel solo elemento religioso consistesse tutto il merito di quel libretto, esso non avrebbe avuto né il significato, né la fortuna che ebbe, né avrebbe così dirittamente parlato al cuore dei suoi primi innumerevoli lettori, diversi di clima, di lingua e perfino di religione. A rileggerlo oggi con animo confidente e sereno, a saper leggere quel linguaggio che pare così immediato e spontaneo ed è invece, almeno in certe occasioni, così misurato e guardingo, se ne può riportare la certezza che anche in fatto di sentimenti politici il Pellico uscì dallo Spielberg con la stessa semplice e modesta fermezza con cui vi era entrato e che nulla era valso ad avvilire: né i terrori del processo, né la prigionia angosciosa ed estenuante, né la riacquistata fede religiosa. Anzi la sua conversione in tanto vi ha un valore positivo in quanto egli ne attinse la forza di cui aveva bisogno per non smarrirsi e per non cadere. Silvio Pellico non fu né un debole né un rinunciatario. O almeno non lo era finché scriveva Le mie prigioni; le quali non contengono una sola parola di pentimento o di ritrattazione,3 e si risolvono invece sempre in un implacabile e irresistibile atto di accusa. Il mordente del libro è tutto qui, è in una irresistibile correlazione, che il lettore anche suo malgrado è indotto a stabilire continuamente, fra l'inerme pietà del prigioniero e il massiccio ingranaggio dal quale egli rischia di venir travolto. E in questo rapporto il suo « delitto » svanisce e si annulla. Posta da lui la questione non in termini giuridici, ma in termini di umanità, il Pellico non può rivolgere a se stesso nessuna accusa; su questo terreno egli non poteva riconoscersi colpevole; toccando l'ultimo fondo della sua coscienza egli si ritrovava innocente. E perciò dal suo libretto si leva una sorda protesta contro i sistemi, sia pure giuridicamente corretti, del governo austriaco ; ma tanto umanamente odiosi e crudeli.
È certo tuttavia che con le Mie prigioni. sia pur protestando, il Pellico si accomiatava dalla politica attiva. Del resto, nessuno degli altri sopravvissuti allo Spielberg si sentì di riprender la lotta. C'era in essi l'intimo convincimento di aver fatto, come meglio avevano potuto, tutta la loro parte. Inoltre le vicende spirituali del Pellico avevano avuto una certa affinità con quelle del Manzoni; anche in lui si era rovesciato sulle originarie convinzioni illuministiche lo sconvolgimento della conversione religiosa. Pertanto il risultato letterario delle Mie prigioni riuscì in qualche guisa parallelo a quello dei Promessi sposi, e senza notevole alterazione della verità, anzi con sostanziale rispetto di essa, il Pellico poté essere annoverato tra i manzoniani.
L'innovazione operata dal Manzoni non fu priva di notevoli conseguenze. Anzitutto il romanticismo lombardo veniva ad acquistare in senso riformistico tutto quello che esso perdeva del suo spirito rivoluzionario. Inoltre la preponderanza attribuita all'elemento cristiano-cattolico lo induceva ad eliminare dalla tradizione letteraria non solo il vicino Foscolo, ma tutto ciò che non si confacesse con tale spirito, da Alfieri in su fino a Dante, del quale non si potevano condividere gli atteggiamenti eroici e titanici, quelli più tipicamente danteschi. Infine, sempre in omaggio alle esigenze fideistiche, esso si appartava dalle manifestazioni non cristiane di gran parte del romanticismo europeo, e delle letterature classiche accoglieva solo quel tanto che si potesse ridurre sotto il comune denominatore della mitezza virgiliana. Per tal guisa si depauperava l'originaria complessità e larghezza del moto, restava compromessa la fondazione di una letteratura nazionale di largo orizzonte europeo, e se il genio poetico e l'elevatezza morale e religiosa potevano permettere al Manzoni di evadere e di salvarsi nell'universale, agli altri si offriva solo il rifugio di una letteratura semplice, casalinga e provinciale, oppure un difficile tuffo nelle oscure profondità della coscienza individuale. Non già che il capolavoro del Manzoni escludesse perentoriamente ogni possibilità di sviluppi positivi. Ma tali sviluppi potevano effettuarsi nell'unico senso di una rottura dell'equilibrio manzoniano puntando sulla opposizione tra cattolicismo e cristianesimo, e sulla necessità di una riforma religiosa. E certo, tentativi in questo senso ce ne furono; ma svigoriti e rimasti esiliati nell'ambito della problematica religiosa. La letteratura poetica e narrativa della scuola manzoniana se ne tenne alla larga, ed essa si affrettò pertanto a quel suo rapido disfacimento, che il De Sanctis descrisse da par suo. Ma mentre essa agonizzava, un nuovo alito di vita le venne dal Piemonte nella persona di Massimo D'Azeglio.
L'Azeglio non era un borghese. Egli veniva da una terra, dove, sulla base della proprietà fondiaria, sopravviveva ancora la vecchia feudalità; e di questa classe, di cui aveva ripudiati i pregiudizi e i privilegi, egli ritraeva tuttora il meglio, lo spirito cavalleresco e nobilmente pugnace, l'integerrima fedeltà a certi inviolabili princìpi morali. Datosi alla politica, egli non poteva essere se non il cavaliere del Re di Sardegna; ma la sua fedele milizia aveva per condizione il rinnovamento costituzionale della dinastia. Fattosi scrittore, egli fu naturalmente e volle essere tutto del Manzoni e dei suoi amici e discepoli; ma nella scuola introdusse qualche cosa di nuovo, una decisa accentuazione del sentimento patriottico, una maggior libertà e un certo grado di spregiudicatezza nel trattare gli altri sentimenti, specie quello amoroso, un desiderio di evasione nell'immaginoso e nel fantastico. Furono proprio gli elementi che rinsanguando la scuola diedero popolarità ai suoi due romanzi. Ma erano novità di superficie, non di sostanza: scenari di cartapesta che simulavano e non erano la natura. Perciò la sua fortuna letteraria è rimasta affidata piuttosto, pur così monchi e lacunosi come li lasciò, ai Miei ricordi, che sono l'opera sua più veramente manzoniana, perché egli vi parla di sé con naturalezza e semplicità, senza ricorrere a nessun travestimento arbitrario e romanzesco. E infatti nel D'Azeglio, che non ebbe un grande e originale patrimonio di idee, né altre qualità straordinarie, quel che interessa veramente è la sua vicenda umana di paggio feudale che accetta i princìpi dell' '89 e si fa borghese e italiano; vicenda simile a quella dell'Alfieri, ma vòlta a risultati diametralmente opposti, perché mentre l'astigiano si spiemontizzò per librarsi nella rarefatta atmosfera della superumanità, l'Azeglio uscì dalla sua casta e dal Piemonte per tuffarsi nell'aria grassa e polverosa e bruciata dei Castelli romani e studiarsi di viverci col proprio lavoro. Quel che più piace in lui è la sua inesauribile e semplicissima capacità e simpatia di convivenza umana con esseri di ogni ceto e condizione, anche coi più umili e primitivi. E quel che più si ammira in lui come scrittore è la schiettezza nitida con cui seppe fermare l'immagine di questa parte della sua vita. Quei capitoli dei Miei ricordi sono come una prima inchiesta condotta da un uomo del nord sulle inesplorate plaghe dell'Italia centromeridionale. Ma fortunatamente lo scrittore non si lasciò prender la mano dagli intenti sociali che qua e là affiorano. E magari non avesse dato libero corso tante volte alla sua morosa senectus, e si fosse sempre accontentato di descrivere e di narrare. D'altra parte, siccome egli non era mosso da esigenze più profonde, anche nelle pagine migliori non poté uscire dai limiti di una rappresentazione casalinga e provinciale. Inoltre: anche i Miei ricordi soffrono della ben nota tendenza del loro autore a far tutto en amateur. Alle varie forme della sua attività egli si dedicò sempre con scrupolo, con serietà e con innegabile spirito di sacrificio; ma tuttavia non nutrì nessuna passione dominante ed esclusiva. Perciò malgrado i risultati effettivi che di volta in volta egli raggiunse come pittore, romanziere, pubblicista e uomo di governo, in certo senso, e certamente nel senso più nobile e più alto, egli rimase sempre un grande dilettante. Appunto in codesto suo superiore dilettantismo è la fonte delle simpatie, e anche delle antipatie, che egli ha sempre suscitato nei suoi studiosi e lettori. E per la medesima ragione non si può ravvisare in lui il legame tra la scuola liberale e la democratica. Senza spender molte parole, quanto alle sue convinzioni politiche basterà ricordare anche solamente il suo pertinace antiunitarismo, per cui egli rimase addietro perfino agli stessi moderati; e in letteratura sono tipici e discriminanti la sua indefettibile fedeltà al Manzoni e la sua irridente antipatia per tutti gli idoli degli scrittori democratici, quali gli atteggiamenti plutarchiani, l'antitirannide all'Alfieri e il mito dell'antica Roma.
Massimo D'Azeglio servì invece da collegamento tra il moderatismo lombardo-piemontese e il moderatismo toscano e romagnolo. In virtù di molte e spontanee affinità, l'intesa fra questi gruppi, tramite l'Azeglio, fu affatto sincera e cordiale; e sostanzialmente concorde fu poi la loro condotta nei fatti del '48 e del '49 e poi anche nel '59. Ne rimangono testimonianza nel nostro volume la Cronaca del Giusti e lo Stato romano di Carlo Luigi Farini.
La figura più simpaticamente popolare del gruppo toscano era il Giusti, il quale aveva esordito con velleità sovversive e giacobineggianti; ma poi aveva mitigato i suoi non roventi ardori e aveva unito in un solo e devoto culto Gino Capponi e Alessandro Manzoni. Da questa sponda tranquilla ci si può bene immaginare con che occhi sbarrati egli dovesse guardare il Guerrazzi (il Guerrazzi!) e le scalmane livornesi. L'interesse documentario della sua Cronaca è notevolissimo; buttata giù subito dopo i fatti del '49, essa registra con la più grande fedeltà e immediatezza i sentimenti, le convinzioni e i giudizi di tutta la parte moderata toscana di fronte a quello scompiglio; nulla serve quanto essa a farci rivivere in quegli anni, tra quegli uomini, quegli odii e quei contrasti e quei vari aspetti della vita, nella Firenze granducale e rivoluzionaria. È distinta in due zone in netto e immediato contrasto. C'è prima un'epoca di idillico benessere e di letizia paciosa, che al principio del '48 vibra anche di un commovente entusiasmo; poi, su tanta felicità, su così lieto viver di cittadini, cala improvvisa la tregenda del Guerrazzi; di qui, subito, imprecazioni astiose e rabbia e vituperii. Per il Giusti tutto il bene, tutto il vero, tutto il bello stavano in casa Gino Capponi e in chi la praticava; e tutto il mostruoso stava dalla parte del Guerrazzi, il quale, per appagare la sua smaniosa voglia del potere, aveva distrutto quel capolavoro di saggezza che era la costituzione oligarchica. E che sospiro di sollievo alla caduta del Dittatore, quando la folla va a prendere finalmente Gino Capponi a bandiere spiegate e lo porta in trionfo a palazzo.
La parzialità del Giusti, per dirla con altre parole sue, è tutta scoperta e sempre in convulsione; né egli fa alcun tentativo per nasconderla. Addirittura non se ne accorge. Tuttavia questo non è il difetto della Cronaca: questa è la sua caratteristica. Anzi, dalla sua unilateralità, dal suo risoluto parteggiare provengono i pregi migliori dell'operetta, la mordente vivacità della narrazione, la rapidità icastica e pittoresca del linguaggio. Quel che meno piace è piuttosto l'indulgere del Giusti a qualcuna delle sue qualità meno simpatiche, il suo non sapersi distrigare dai fatti e dai risentimenti personali, dalle cose spicciole che sanno di pettegolezzo, e anche una certa angustia mentale. Troppo toccato sul suo, egli, l'autore degli «scherzi», non seppe vedere le cose meno apocalitticamente, con almeno un pizzico di indulgenza e di spregiudicatezza. Coglieva certo nel segno il Guerrazzi, quando, non conoscendo la Cronaca, ma conoscendone bene l'autore, ebbe a dire che il Giusti, dopo avere scossa a tutta forza la casa, s'impaurì dei calcinacci. Tutta la Cronaca nacque appunto da codesta paura dei calcinacci; e tuttavia l'indignazione del Giusti, pur dove egli fa la voce più grossa, è così candida e ingenua, da disarmare anche la critica più severa.
Anche lo Stato romano, che sostanzialmente è un libello politico con un forte substrato autobiografico, nacque sulla linea politica dell'Azeglio e in seguito al rovescio del '49. Ma il carattere e le vicende dell'autore, e soprattutto la profonda differenza della situazione obiettiva che egli si trovò ad affrontare, fecero di questa del Farini un'opera assai diversa da quella del Giusti; la quale, in fondo, si risolve in infondate contumelie e in un arcadico idoleggiamento del passato regime granducale. Il giovanile rivoluzionarismo del Farini, per quanto istintivo, non era stato di parole, ma di cose; esso aveva al suo attivo l'esperienza del moto insurrezionale del '31, e si era formato e nutrito nella Romagna papalina con l'odio contro le angherie della polizia pontificia e contro il sanguinario banditismo politico dei sanfedisti. Questi precedenti non furono distrutti dal suo passaggio al moderatismo, e pertanto egli allora si poneva sì in una posizione di centro, ma di un centro veramente combattivo, per cui il nemico di sinistra, la rivoluzione mazziniana, non era meno temibile e odioso di quello di destra, la reazione sanfedista. Ed è questa l'impostazione che egli diede allo Stato romano. Nel quale c'è un centro ideale, che è il breve regime costituzionale di Pio IX; c'è una sinistra, che è la repubblica mazziniana; e c'è una destra, che è il soffocante sanfedismo di prima e di dopo la rivoluzione. La critica a cui il Farini sottopone la repubblica mazziniana è certamente violentissima, e la sua asprezza verbale non è forse inferiore a quella che il Giusti usò contro il Guerrazzi. Ma c'è una differenza sostanziale. A Roma il Farini si trovò di fronte uomini come Mazzini e Garibaldi, che percorsero fino in fondo la strada che si erano tracciata. Mai egli avrebbe potuto dire che il Mazzini era il Potta di Roma. L'onestà, anche finanziaria, la rettitudine e anche l'abilità del governo e inoltre gli eroismi della difesa, avevano un linguaggio aperto e chiaro, e obbligarono il Farini a un giudizio per quanto gli fosse possibile ragionato e obiettivo. E benché nel suo perdurante furore antimazziniano, per cecità e malanimo, egli sottraesse all'individuo Mazzini la sua parte di gloria, tuttavia non poté non registrare il grande valore positivo di quell'esperimento e della difesa di Roma. Ma c'è anche un altro motivo per cui, malgrado l'intemperanza verbale, la sua critica della Repubblica romana pare in fondo telum imbelle sine ictu. Essa non era esercitata in base a un astratto principio di costituzionalismo, ma in base all'esperienza concreta che egli ne aveva avuto sotto Pio IX, e che non era stata delle più felici; egli non si dissimulava che l'enciclica del 29 aprile era stata una grossa provocazione e un chiaro indizio che un regime di libertà non si poteva conciliare col potere temporale del papa. Abbattuta la repubblica e risorto l'odiato sanfedismo egli poteva rimpiangere solo la perdita di un regime, la cui vita, però, era stata resa difficile e precaria, non pure dalle intemperanze della piazza, ma per la sua buona parte anche dall'ostinata resistenza dell'elemento reazionario della Curia; e infatti esso non era stato restaurato dal papa, benché la Francia fosse intervenuta proprio a tale scopo. Persisteva dunque sì in lui l'avversione contro le violenze rivoluzionarie che avevano cooperato a distruggere quel breve e fragile regime; ma anche si riaccendeva, e forse con più esasperata violenza di passione, tutta la sua animosità contro il malgoverno dei preti. La critica dello stato pontificio, con il suo disordine amministrativo, con la sua giustizia arbitraria, con i suoi indegni favoritismi, con la sua avversione contro ogni lume del pensiero laico, col suo pertinace confondere e mescolare il temporale con lo spirituale e quindi col suo continuo manomettere la coscienza dei sudditi, è impressionante come l'esame clinico di un gran corpo in disfacimento. E di tanto essa riesce più persuasiva, di quanto l'autore qui, diversamente che col Mazzini, si studia di usare un linguaggio più temperato e controllato. Nuoce allo Stato romano il difetto di un'impostazione più chiara ed esplicita. Le legittime conclusioni a cui sarebbe dovuto giungere, e che se gli fossero state chiare avrebbero dato a tutta l'opera una diversa configurazione, cominciavano invece solo allora ad oscuramente agitarsi nel pensiero del Farini. E tuttavia esse vi permangono in qualche modo implicite. Par che emerga da un'attenta lettura la constatazione che il governo repubblicano fosse stato migliore del papalino; e vi è soprattutto internamente postulata la conclusione che per uno stato come il pontificio non c'era più speranza, e che i sudditi avrebbero potuto ottenere la loro libertà non da un suo impossibile rinnovamento, ma solo dal suo dissolversi nell'unità italiana.
Con Luigi Carlo Farini si chiude la serie dei nostri memorialisti di parte moderata. E se ora si affiancheranno ad essi, almeno idealmente, gli altri scrittori, poeti, narratori, storici, politici, e filosofi, quali Tommaso Grossi, Giulio Carcano, il Tommaseo, Cesare Cantù, Gino Capponi, Cesare Balbo, il Gioberti, il Rosmini, il Lambruschini, si vedrà come tutta la corrente si avvantaggiasse di una grande omogeneità, di una coerenza rara, le quali risultavano dalla comunanza delle idee e degli interessi sociali e politici, e in sede strettamente letteraria eran determinate dal fatto che tutti questi scrittori in vari modi riconoscevano che il loro centro spirituale, la loro patria ideale risiedeva immediatamente o mediatamente nel mondo morale e poetico di Alessandro Manzoni. Il che non avvenne certo della corrente democratica, perché nessuno scrittore di essa riuscì a generare dal suo mondo poetico o a far gravitare intorno a quello una scuola letteraria. Suo primo organizzatore fu inoltre un uomo appassionato certo di letteratura e d'arte, ma tutto anelante e tutto proteso all'azione politica, Giuseppe Mazzini. E se si pensa che il Mazzini non riuscì a mantenersi fedeli tutti i suoi seguaci neanche nell'azione strettamente politica, si vedrà facilmente come anche e soprattutto le manifestazioni letterarie della sua corrente dovessero riuscire slegate e agitate da impulsi divergenti, benché non fino al punto che tutti gli scrittori democratici non concordassero in alcuni princìpi e orientamenti fondamentali. È per questo che si può parlare dell'esistenza di una scuola democratica. E il suo primo germe si era schiuso a Genova negli anni del giovanile noviziato letterario del Mazzini e dei suoi amici.
Accogliendo gli spunti più originali e più combattivi dei conciliatoristi, mantenendo la loro simpatia, tra gli stranieri, al Byron e allo Schiller, fra gli antichi idolatrando Plutarco, essi ripercorsero la via della tradizione nazionale e prendendo le mosse dal Foscolo, attraverso Alfieri e Machiavelli risalirono a Dante, al Dante, ben s'intende, tetragono e ghibellino. Prese forma allora un diverso modo di essere romantici, diverso dal modo lombardo, e diverso non nelle premesse, ma nei fini; giacché mentre il Manzoni, dopo aver rivelato il disordine e il guasto della vita sociale, rinunziava, o pareva che rinunziasse, alla lotta, confidando nelle vie della divina provvidenza; il Mazzini, convinto che la storia europea fosse giunta a una crisi risolutiva e che fosse prossimo l'avvento di una nuova epoca umana, tendeva alla rigenerazione dell'umanità mediante la stessa umanità : il primo passo doveva essere il riscatto dei popoli, a cominciare dal popolo italiano. Nasceva così un romanticismo di tipo eroico e messianico, in cui le idee di unità, indipendenza e libertà acquistavano un dinamismo insolito e il cui cielo, né ateo né cattolico, era abitato, per dirla col Guerrazzi, «da un Dio che rugge terribile intorno all'anima dei traditori della patria». Questo romanticismo potrebbe sembrare fortemente inquinato di classicismo, ove non si considerasse che mentre per i classicisti la tradizione umanistica, cosa tutta del passato, fungeva da mero repertorio letterario; questi romantici le restituivano tutto il suo contenuto passionale ed eroico, e la volgevano risolutamente al raggiungimento dei nuovi fini. Di là da ogni vario atteggiarsi del temperamento personale e dello stile letterario, gli scrittori democratici si riconoscono facilmente ai comuni idoli letterari di tipo plutarchiano e byroniano, o al loro spirito tendenzialmente rivoluzionario e repubblicano, o al loro anti- cattolicismo, oppure infine alla loro solidarietà morale col Mazzini.
Questa nuova corrente romantica, che cominciò a manifestarsi con la collaborazione del Mazzini e dei suoi amici all'« Indicatore Genovese» e che ebbe una sua immediata diramazione toscana nell'«Indicatore Livornese» e nell'«Antologia» del Vieusseux, si definì e prese corpo in quel suo primo e forse unico capolavoro, che fu la creazione della «Giovine Italia». La quale fu fondata a Marsiglia; ma patria vera le fu Genova, dove essa ebbe la sua sanguinosa consacrazione. E da allora, lungo tutto l'Ottocento, la cultura genovese rimase fedele al suo nume tutelare, il Mazzini. Uscì da essa il poeta del '48, Goffredo Mameli, che con giovanile e commovente entusiasmo metteva in versi fin le formule politiche del maestro; e a Genova sono indissolubilmente legate le opere migliori di Giovanni Ruffini.
Quando scrisse il Lorenzo Benoni il Ruffini si era già allontanato dal Mazzini; ma se ne era allontanato quietamente, per le sue nuove vedute politiche, non col cuore; e infatti, a differenza di tanti altri, non poté rinnegarlo. La sua fibra morale non aveva resistito ai tragici rovesci. Ma nel suo animo rimase sempre qualche cosa come una desolata e inerte e inconfessata nostalgia di un bene perduto, di una fervida e favolosa stagione, nella quale egli una volta volle tornare a vivere almeno coi modi della memoria e della fantasia. Nacquero così le pagine in cui rievocò gli studi universitari, il primo amore, la cospirazione carbonara, la « Giovine Italia» e la pericolosa fuga a Marsiglia, dov'era Fantasio, e cioè il Mazzini, che rimane sempre il centro vitale di queste vicende; pagine di grande interesse documentario, perché non c'è altro scrittore nostro che dia così sicuro e immediato il senso di quella prima e totale esperienza di vita romantica intorno al 1830, quando amore e poesia e cospirazione patriottica furono le note di una passione unica, che avvolta nel fascino del mistero e dell'avventura aveva nome gioventù. Ma c'è anche un senso più sottile: ed è la taciuta confessione che solo allora la vita del Ruffini ebbe un senso e un valore, quando, in quegli anni ormai lontani come un illusorio miraggio, egli amò e cospirò e sognò accanto al cuore grande e generoso del Mazzini.
C'è nell'esperienza del Ruffini un chiaro indizio del male che internamente minò tutta la vitalità della letteratura di questa corrente. Dal contrasto fra il vagheggiato eroismo e la modestia o addirittura l'inferiorità dell'umanità contemporanea nasceva un senso di sfiducia, di scetticismo e perfino di pessimismo, che, ove non facesse impallidire quegli ideali stessi, li collocava a un'altezza troppo difficilmente raggiungibile. La liberazione da questo circolo vizioso poteva avvenire mediante uno sciogliersi dal contingente e un rifugiarsi nell'assoluto, riconoscendo, non pure l'attuale decadenza, ma addirittura l'universale e congenita infermità della natura umana, capace solo di giovanili illusioni destinate tutte a cadere miseramente all'apparir del vero. Oppure la liberazione poteva ottenersi per la via di un umorismo generato dalla constatazione dell'inguaribile petulanza e infantilità umana. Questa vicenda si era già prodotta nel Foscolo, e più compiutamente nel Leopardi, che possono considerarsi come i due grandi iniziatori della corrente democratica, e che hanno con essa vari tratti comuni, specialmente il culto dell'antichità eroica e l'aperta laicità del loro credo morale e religioso. Non vi soggiacque il Mazzini, perché la sua ideologia non era nata nel mondo astratto della cultura e dell'immaginazione, non era vagheggiamento poetico, ma era il risultato di un ragionato esame della situazione storica e politica del suo tempo. Per questo egli uscì vittorioso dalla guerra del dubbio.
E infatti i ricordi autobiografici del Mazzini sono tra le pagine più alte e più preziose di tutta la nostra letteratura risorgimentale. La loro stesura fu occasionale e discontinua, senza un piano preordinato, e perfino senza che l'autore, nella sua schiva modestia, si proponesse di narrare compiutamente la propria vita; eppure, così com'è, lacunosa e talvolta pletorica e troppo presto interrotta, quest'opera fa pensare a un abbozzo michelangiolesco. Vi si delinea l'agitata e tempestosa vicenda di un uomo perpetuamente in lotta contro un destino avverso e maligno, ma che al destino non soggiace mai, perché nessuna sconfitta riesce a diminuire la sua potente vocazione all'apostolato politico, la sua grandezza morale, la sua aspra e granitica fedeltà ai princìpi approvati dalla ragione e dalla coscienza.4
Ma chi non possedeva né la solida impostazione del Mazzini, né la capacità di sublimarsi nell'universale, doveva rimanere a mezza strada tra il fare e il non fare, che come è situazione adatta all'umorismo, così è anche quella da cui meglio si può precipitare negli insuccessi e nei disastri. L'instabilità della corrente letteraria democratica deriva appunto da questa sua sempre risorgente crisi di sfiducia e di scetticismo, come apparve più chiaramente nella sua diramazione livornese, nel Bini e nel Guerrazzi. Un impotente grido di rivolta contro ogni ingiustizia sociale, il compiacimento per le vendette della storia, la constatazione della decadenza attuale non disgiunta dalla fede nella virtù e nella grandezza dell'animo umano, nella gloria di Catone e di Bruto, sono tra le note più vitali e più risentite del Manoscritto di un prigioniero: opera ricca di fremiti nuovi, nascente da una aspra indignazione, percorsa tutta da uno spirito intimamente eversore e rivoluzionario, ma anche inesorabilmente fiaccato dallo scetticismo. Appunto per il suo scetticismo, lo scrittore abbandona i temi più vicini e più urgenti, e preferisce volgersi ad argomenti e a speranze di interesse più vasto e più generale, e quindi di più lontana e più problematica realizzazione. E dallo scetticismo nacque anche l'espressione indiretta. Esiliatosi dall'azione e seguendo le orme del suo diletto Foscolo, Carlo Bini cercò un illusorio rifugio nell'umorismo alla Sterne. Non nuocerebbe tuttavia al Manoscritto il variare di toni da un estremo all'altro, se quel trascorrere per vari gradi dal sarcasmo alla commozione rispondesse veramente alla legge di una segreta armonia e non fosse invece la manifestazione immediata di una volubilità estemporanea e incontrollata. E infatti il Manoscritto è piuttosto uno sfogo di sentimenti vivi e brucianti, che una espressione di cose sofferte, ma a lungo e amorosamente, anche se amaramente, meditate. Esso accusa inoltre il difetto di un'ulteriore elaborazione, perché il Bini, nella sua crisi di fiducia, ritenne perfino di non dover dar peso ai suoi scritti come a cose vane che essi fossero, e rinunziò alla fama di scrittore. Il suo riscatto pieno egli non lo ebbe dunque dalla letteratura; e forse non lo avrebbe trovato neanche nell'azione, anche se si può essere certi che ove si fosse messo per quella strada egli l'avrebbe percorsa fino in fondo, fino ad andare col suo cuore incredulo incontro al sacrificio.
Assai diversa e più istruttiva fu la parabola del Guerrazzi, a cui la sorte offrì invano l'occasione di tradurre nella viva e concreta realtà dell'azione politica le lotte e le speranze di cui rumoreggiavano i suoi romanzi. Arrestato all'aprirsi del '48, liberato dopo la pubblicazione dello Statuto, tenuto in sospetto e in quarantena dall'oligarchia ridolfi-capponiana al potere, il Guerrazzi, tuonando e fulminando contro la politica moderata, percorse in un baleno i gradi di una carriera incredibile: portato a spalla dal popolo, nel volger di pochi mesi fu deputato, ministro, triumviro, dittatore. Ma come si servì del potere? Se ne servì contro il popolo che glielo aveva dato. Egli né dichiarò decaduta la dinastia granducale, né proclamò la repubblica, né effettuò l'unione con Roma; al contrario attese a comprimere e a spegnere le agitazioni popolari e cercò l'alleanza con i moderati. O Assedio di Firenze. O implacate ombre di Francesco Ferrucci, di Dante da Castiglione. O ricordo di tutto un popolo in armi per la libertà. Eppure, se il Guerrazzi peccò di scetticismo, ancora più miopi di lui furono i moderati, i quali respinsero la sua mano e attesero a vendicarsi della paura provata, e a precipitarlo. Ma la caduta del Guerrazzi si trasse seco la definitiva ruina della libertà toscana. La conclusione di queste poco gloriose vicende fu l'incontrastata invasione austriaca; e poi venne il famoso processo di lesa maestà.
Di tutta questa situazione è documento sostanzialmente fedele la celebrata Apologia. La quale riuscì un'opera di notevole abilità ed energia dialettica irrobustita anche da molti tratti di dottrina storico-giuridica e di eloquenza; ma non poteva riuscire un'opera grande, perché, in conseguenza della linea politica che il Guerrazzi credette di dover seguire, nessuna grandezza ci fu negli avvenimenti e nella sua stessa condotta personale. L'accusa della magistratura granducale faceva onore al Guerrazzi, e lo innalzava; la sua difesa, che fu quale doveva necessariamente essere, non diremo che lo immeschinisse, giacché il Guerrazzi non fu mai meschino, ma rivelò quale stoffa umana, non certo straordinaria e gigantesca ed energicamente volitiva ed eroica, ci fosse dietro il Serissimo e titanico rampognatore ed educatore.
Dal processo di lesa maestà egli non uscì solo liquidato come uomo politico : il naufragio politico coinvolgeva seco anche il naufragio letterario. Il quale allora non era chiarissimamente avvertito, ma non era perciò meno reale. Il Guerrazzi affermava volentieri di aver sacrificato nei suoi romanzi le esigenze dell'arte ai fini morali e politici. In realtà non c'è in essi alcuna traccia di tale dualismo, e dalla loro lettura si esce con la convinzione che il Guerrazzi abbia sempre detto tutto quello che voleva dire e nei modi che gli erano più propri e personali. E se ne esce anche con la persuasione che il Guerrazzi non era nato all'arte, intesa come contemplazione, ma se mai all'oratoria; e che perciò il fallimento dei suoi romanzi non va attribuito a un loro difetto d'arte, ma, per quanto questo possa sembrare paradossale, a un loro difetto di oratoria. C'è in essi uno scompenso tra l'effettiva modestia e l'ostentata grandezza del contenuto etico-politico. Il quale, non essendo illuminato dalla riflessione critica, né fecondato dalla passione, riceve alimento solo dall'immaginazione; e questa non può se non tramutarlo in parvenze effimere di una grandiosità non sostenuta da altro che da accenti illusoriamente iperbolici e impressionanti. C'è dunque all'origine un difetto di passione, di fede, cagionato da difettosa e vacua ideologia. Anche il Guerrazzi, con tutto il suo piglio travolgente, soffrì dello scetticismo comune a tanti democratici. Nella letteratura, come nella politica, il suo rivoluzionarismo era più verbale che reale. E anche egli cercò la sua evasione nell'umorismo. E non poté raggiungere neanche questa. E tuttavia, con tutti i suoi limiti e i suoi difetti, l'oratoria del Guerrazzi esercitò al suo tempo una funzione positiva. Non sul piano dell'arte; ma sul piano della cultura, del costume letterario e dello stile, il Guerrazzi sostenne con autorità e prestigio grandissimi la sua parte di antagonista del Manzoni. E inoltre la sua opera non si esaurì in se stessa. Se non gli riuscì di dare al contenuto democratico la sua compiuta espressione letteraria e se pertanto egli non creò una «scuola», le esigenze da lui rappresentate erano però vive e reali, e il Guerrazzi fu dunque l'iniziatore di un « gusto », che solo più tardi giunse al suo maturo sviluppo. Anche a un confronto superficiale appare evidentissimo quanta parte del suo contenuto etico-politico, quanta della sua prosa energicamente artificiata, il Carducci abbia mutuato dal Guerrazzi. E l'esasperato contenuto guerrazziano di violenza barbarica e di sangue andò invece a inserirsi nell'orchestrato repertorio del D'Annunzio, nel cui decadentismo, brulicante di numeri e di meraviglie, anche i lontani esordi dell'estetismo e della prosa d'arte del Guerrazzi conobbero, con la suprema fattura, anche la loro ultima dissoluzione.
Indirizzo assai diverso dai romanticismi settentrionali ebbe il romanticismo meridionale, da cui uscì il Settembrini. Mentre quelli si svilupparono su un piano prevalentemente letterario, il meridionale, ubbidendo a una diversa tradizione locale, si sviluppò, in ritardo, soprattutto sul piano del pensiero filosofico e critico, e produsse il suo tardivo capolavoro con la Storia della letteratura italiana del De Sanctis. Appunto per questo, anche per essere stato un prodotto quasi esclusivamente di importazione, il romanticismo letterario non ebbe nell'Italia meridionale notevole rilievo e importanza; tuttavia nei suoi tratti più rilevati, e per la tradizione giurisdizionalistica napoletana, e per l'intransigenza antiborbonica in cui dovette necessariamente trincerarsi, esso fu animato da impulsi sostanzialmente democratici e rivoluzionari. E tale fu anche il Settembrini, democratico piuttosto per istinto e per forza di cose, che per ragionata convinzione; ma pur sempre democratico, giacché anche quel suo stile così sciolto e bonario non derivava dal Manzoni e tanto meno dai manzoniani, ma si era fatto sui trecentisti alla scuola del Puoti. Nelle sue pagine non c'è traccia di byronismo o di plutarchismo, e non c'è neanche una conoscenza, sia pur superficiale e limitata, ma esatta, del pensiero del Mazzini.5 Ma non era un manzoniano; del Manzoni egli ammirava l'arte a denti stretti e ne detestava gli insegnamenti morali. Invece era fortemente radicato in lui il culto dei martiri del '99, e nutriva una irreducibile avversione per il dogmatismo cattolico e per la tirannide papale e borbonica. Quando nell'esame degli scritti e del carattere del Settembrini si giunge a questo, che era il suo inviolabile santuario, è incredibile come quest'uomo mite e soave divenga risoluto, tenace, inflessibile. La sua forza era in questa salda convinzione, in questo nucleo vitale della sua coscienza di uomo, di cittadino e di scrittore. Convinzione, occorre aggiungere, non aduggiata da alcuna ombra di fanatismo; ma che invece permeava di sé tutto un mondo di sensibile e bonaria affettuosità e tenerezza e gentilezza. L'umana e semplice grandezza delle Ricordanze nasce dalla interna dirittura di quella coscienza, che fece del Settembrini un implacabile cospiratore e gli conferì l'incontaminata e serena dignità con cui andò incontro alla condanna a morte e superò le gravezze dell'ergastolo.
L'interna disunione della corrente democratica, quale è già emersa da questa breve rassegna di memorialisti, e quale meglio apparirà se, oltre gli scrittori già menzionati, ricorderemo anche altri della medesima parte, come Gabriele Rossetti, Pietro Colletta, il Berchet, il Niccolini, il Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Carlo Pisacane, Ippolito Nievo, non compromise tuttavia l'esistenza della corrente stessa, che mantenne la sua intima omogeneità, la sua peculiare configurazione. La quale è indirettamente confermata anche da quella nuova e particolare manifestazione letteraria a cui essa diede luogo più tardi, e cioè dalla letteratura garibaldina, che fu tutta o quasi tutta animata da sicuri e schietti sentimenti democratici. Quando nella letteratura garibaldina si fanno rientrare tutte le opere che hanno per argomento Garibaldi e le sue imprese, quel termine adempie semplicemente all'ufficio di una classificazione del tutto insignificante, come una rubrica amministrativa sotto la quale si possono elencare i più svariati prodotti. Invece quella denominazione acquista subito un valore intimo e sostanziale se la si riferisce solo a quelle poche opere nelle quali i loro autori, rievocando la loro partecipazione alle gesta di Garibaldi, raggiunsero un certo grado di dignità letteraria e artistica. Un filo ideale lega insieme queste opere, nessuna delle quali gode di assoluta autonomia e ognuna delle quali guadagna qualche cosa a contatto con le altre. È quel respiro di gioventù, timida ed eroica, semplice e spavalda, tutta serietà e tutta soldatesca allegria; di una gioventù che vive, con assoluta spontaneità e quasi ignara, la sua avventura unica e incredibile. Ed è poi la figura di Garibaldi, anzi del Generale, che non è qui come nel Carducci o nel D'Annunzio tolta a oggetto o a pretesto di celebrazione letteraria; ma è invece un moto affettuoso del cuore, intimo e favoloso. Il Generale non vi è mai idealizzato, anzi può avvenire che la sua persona sia colta in atti perfin troppo realistici; eppure essa non risulta mai esaurientemente concreta e determinata; pare che questi uomini non lo guardino con gli occhi ma col cuore, che non lo vedano ma lo sentano. E il loro sentimento, per quanto si possa di volta in volta riconoscerlo o come affetto e riverenza filiale, o come schietta simpatia e confidenza, o come trepida e devota ammirazione e idolatria, rimane sempre indefinibile nel suo complesso, come qualche cosa di mistico e di ineffabile. Garibaldi fu la comune sorgente della loro ispirazione. Come per lui essi furono soldati, così essi furono scrittori per lui. Erano scrittori di modestissima statura; e di tutti i loro libri, caduti nell'oblio, quello si è salvato in cui solo parlando di lui essi riuscirono a parlare di se stessi. A tal punto la loro sorte di scrittori fu legata alle imprese garibaldine, che i più eccellenti risultarono quelli che furono e scrissero della più gloriosa gesta di Garibaldi, l'epopea dei Mille.
Gli scrittori garibaldini erano tutti, o quasi tutti, giovani di spirito rivoluzionario e democratico, e al culto della patria li aveva svegliati la parola del Mazzini. Eppure con una istintiva certezza che così essi non rinnegavano il loro maestro, ma ne interpretavano meglio la parola, alla ortodossia mazziniana essi abdicarono nelle mani di Garibaldi; e nei ranghi garibaldini, pur così chiassosi e tumultuosi, il loro rivoluzionarismo si disciplinò e si moderò. Appunto per questo si potrebbe pensare, non senza una parte di verità, che la conciliazione fra le due scuole letterarie, che il De Sanctis cercava ora nell'uno ora nell'altro dei loro esponenti, avvenisse qui, nell'ambito della letteratura garibaldina. Ma la letteratura garibaldina è cosa troppo fragile e modesta per poter sopportare tanto peso. E inoltre queste opere, scritte quasi tutte assai tardi e apparse a molta distanza da quegli avvenimenti, furono come un muto rimprovero ed ebbero piuttosto l'ufficio di ricordare ai tralignati eredi, ai nuovi mestatori e profittatori della politica, l'onestà, il disinteresse, l'abnegazione, l'umile e semplice eroismo che avevano fatto l'Italia. Piuttosto che come una sintesi delle due correnti letterarie, la letteratura garibaldina va considerata come il tardivo epilogo di tutta la letteratura risorgimentale.
D'altronde la sintesi era implicita nella stessa essenza dei due movimenti letterari, stava alla loro radice. A chi ripercorra la loro storia, reimmergendosi nel corso degli avvenimenti, può avvenire di sposare le loro discordie e i loro conflitti, di parteggiare con essi. Ma chi si ritragga dalla mischia e consideri quel passato col debito distacco, non tarda a scorgere, di là dai contrasti, la loro sostanziale unità; giacché essi non furono, come si è già mostrato, se non due diverse ma collaboranti interpretazioni del moto romantico. Meta comune era per loro la fondazione di una letteratura concretamente e schiettamente nazionale; e comune era anche l'ostacolo che dovevano superare: le forze dell'antiromanticismo, il retoricume classicheggiante inerte e reazionario, le sopravvivenze arcadiche, gli ozi umanistici ed edonistici. Allo stesso modo si compongono in unità le contrastanti passioni politiche di cui risuonano le pagine dei memorialisti, giacché i due partiti non erano se non due diverse ma cooperanti interpretazioni del risorgimento; e unico era in fondo il loro fine: l'indipendenza e la libertà e poi anche l'unità d'Italia; e unico era il loro vero nemico: le forze antirisorgimentali costituite dalle sopravvivenze della Santa Alleanza, l'assolutismo, l'illiberalismo, il sanfedismo. Ed è appunto per questo che oggi, sopitisi o radicalmente mutatisi i motivi di quei contrasti, quell'epoca appare come conclusa in un circolo ideale; e a quelle opere che narrano una storia di congiure, di esigli, di ergastoli, allietata alfine dalle battaglie aperte e solatie dell'epopea garibaldina, si risale come alle memorie di un'età favolosa, agli incontaminati e commoventi incunaboli della nostra libertà.6
1 L'impostazione del De Sanctis aveva i suoi addentellati nel pensiero critico del tempo; per i quali si veda ora l'introduzione al volume: Francesco De Sanctis, Mazzini e la scuola democratica, a cura di Carlo Muscetta e Giorgio Candeloro, Torino, Einaudi, 1951.
2 Benché mitigato, vi è nelle Lezioni un evidente residuo di quel principio che il De Sanctis ebbe a formulare nella sua polemica col Gervinus, quando affermò che non la politica nasce dalla letteratura, ma al contrario la letteratura nasce dalla politica. Con questo principio (dal quale appare anche quanto difficilmente egli avrebbe adottato il concetto dell'autonomia dell'arte) il De Sanctis evitò il dirizzone di far derivare i fatti concreti dalle idee astratte, e potè difendere dalle accuse del Gervinus la poesia di Alfieri e di Foscolo. Ma nel medesimo scritto egli dovette constatare che le più celebrate tragedie dell'Alfieri sono quelle che non hanno alcuno scopo politico. Appare da questa implicita contraddizione quanto fosse inesatto quel principio; e invero le affinità e le interferenze tra letteratura e arte non possono spiegarsi se non facendo risalire le due serie di fatti a una medesima origine.
3 Discorrendo una volta delle Mie prigioni (quello scritto è ora nei miei Saggi critici, Firenze, La Nuova Italia, 1950), èbbi a segnalare la gravità della frase: «Io amo appassionatamente la mia patria, ma non odio alcun'altra nazione»; e andavo in cerca di attenuanti. Oggi sono convinto che in quelle sue parole il Pellico poneva una tacita distinzione fra i popoli e i loro governi.
4 Mazzini è il grande assente di questo volume. I suoi ricordi autobiografici, coi quali va integrata la lettura di questi nostri memorialisti, si trovano nel volume che raccoglie gli scritti suoi e quelli del Cavour.
5 Il Mazzini «ebbe un concetto monco, la libertà e l'indipendenza, e non si curò dell'unità, che per noi italiani è idea madre di tutte le altre ». Non par vero; eppure scrisse proprio questo il Settembrini nel capitolo vili delle Ricordanze.
6 Degli scrittori di questo volume, tre rimangono fuori della storia ideale che si è tracciata. Isabella Teotochi Albrizzi, benché non fosse del tutto insensibile ai richiami del primo romanticismo, rimase tuttavia legata alla letteratura neoclassica. Di nuovo c'è in lei l'interesse per la stoffa umana, e significativo era il suo volgersi a scrutare caratteri romantici come quello del Byron. Ma il suo interesse si esauriva tutto nei limiti troppo angusti di un'ovvia indagine psicologica, e si congelò in forme marmoree, in forme canoviane. - Antonio Bresciani, che impersonava l'antirisorgimento e l'antiromanticismo, fu nella letteratura l'esponente più combattivo del sanfedismo. Le sue opere andrebbero studiate con stretto riferimento al terreno reazionario su cui nacquero. Tutto sommato, si può dire che egli è un duro a morire. La sua presenza non va dimenticata. - Le pagine di Vincenzo Padula sono invece alla soglia della nuova storia, e appartengono a quel momento in cui parve e si sperò che lo sbocco legittimo e doveroso del moto risorgimentale fosse, nel nuovo regno, una politica interna volta a sanare, con sagge riforme, i guasti sociali di cui specialmente soffrivano le regioni meridionali e insulari. Ma come si sa, la storia andò per altre vie. E perfino nella letteratura dominante, ai pastori del Padula con la loro miseria e i loro pidocchi si sostituirono altri pastori, migranti di settembre dalla terra d'Abruzzi al tremolar della marina.
Non dispiacerà, quindi, al lettore, in questo secondo tomo, di un ultimo scrittore garibaldino.