Memorialisti dell'Ottocento. Tomo II
Nessuno dei secoli precedenti vide così vasta fioritura di « memorie» quanto l'Ottocento. Lo straordinario rilievo assegnato dal romanticismo all'individuo, al personalissimo mondo dei suoi sentimenti, spronava a iscrivere, più che fosse possibile, nel tempo e nella memoria dei posteri il proprio nome e le proprie azioni. L'intensa partecipazione agli eventi risorgimentali, se in parte scaturiva da questa ansia di perennità, incitava, a sua volta, alla propaganda e alla difesa dei propri ideali, delle imprese compiute: testimonianze, a tacer d'altro, di un dilatarsi della vita individuale nella più vasta sfera della società nazionale. Intanto, uomini ed eventi si sollevavano, per l'ardore delle passioni, in un'atmosfera leggendaria, sì che era un caro orgoglio essere stati vicini a quegli eroi, aver vissuto quei giorni di riscatto, poterli narrare. Del resto, lo stesso balzare, sulla scena della storia, di strati sociali che a lungo ne erano stati assenti, spiega anch'esso, per un gioco di proporzioni, tanto infittirsi di pagine di memorie.
Chi scriveva le proprie memorie restava assai spesso, anche per l'impegno civile da cui era animato, a mezza strada fra il documento e l'arte, tra l'ansia di fissare la verità degli avvenimenti e l'impulso a riviverli liberamente in una trasposizione fantastica. Un atteggiamento, questo, che alternamente accentua della sua duplice istanza le pagine dei memorialisti, e sul quale torneremo in vari profili, ma che, anzitutto, giovava a sottrarre gli autori dal timore riverenziale che sempre incute l'opera decisamente e deliberatamente artistica; a renderli, perciò, più franchi, meno controllati stilisticamente; ad avvicinarli, infine, anche attraverso questa via, alle suggestioni «popolari» della poetica romantica. D'altra parte, il carattere documentario delle memorie, continuamente fuso con i sentimenti, le convinzioni, gl'ideali dello scrittore, questo incessante oscillare fra la letteratura e la cronaca, tra il fatto e la sua rievocazione appassionata, creava una forma narrativa che è un tramite, assai più che non si pensi, verso il contemporaneo romanzo storico e, più ancora, verso la produzione successiva del verismo. Proprio per questi motivi, ci sembra che i memorialisti del nostro Ottocento premano sugli orientamenti della nostra letteratura, sul gusto e le preferenze del secolo, non meno di quanto abbiano fatto gli artisti maggiori: dei quali, comunque, divulgano, su un piano più umile, temi e ideali, concezioni e sentimenti.
Esiste, dunque, nella produzione memorialistica una evidente «nutazione» dal piano documentario, cronachistico o embrionalmente storico, a quello letterario e artistico. Entro questo ideale spazio, a volte l'autore pone in pieno rilievo gli eventi di cui è stato testimone, lasciando nell'ombra la sua persona, la cui presenza è soltanto implicita nella scelta e, ancor più, nelle idee, nel colore, nel sentimento che più o meno circolano tra le pagine dell'opera: una inclinazione, perciò, prevalentemente storiografica. A volte, invece, il centro dell'interesse è autobiografico, sì che gli avvenimenti storici si ritirano nello sfondo e sono richiamati solo in quanto si intrecciano all'esistenza dell'autore, ne chiariscono le opere e i giorni. Più raro è, invece, che si incontri un impegno di rielaborazione fantastica, su un piano disgiunto da ogni intento storiografico. La volontà di non tradire l'esattezza, mentre evita ogni falsificazione, frena però anche la fantasia, ne limita la libertà. Ne deriva un timbro letterario, non artistico: o tale raramente, in momenti di felice equilibrio, come a volte succede in Ferdinando Martini.
Ma accanto a quegli scrittori che più comunemente si sogliono chiamare memorialisti, e che traggono dagli avvenimenti nazionali lo stimolo a scrivere, ve ne sono altri in cui la storia politica è assente, mentre è vivo e operoso il ricordo delle esperienze e battaglie morali, delle correnti artistiche, letterarie, filosofiche, del graduale e pur amaro spegnersi di antichi usi e costumi di fronte al trionfare dei nuovi. Ne sorgono opere perplesse fra un itinerarium mentis e un itinerarium cordis: storiche anch'esse, certamente, perché testimoniano e rievocano la vita di un tempo : ma soprattutto letterarie ed artistiche, perché assai spesso testimonianze e rievocazioni si accompagnano, con maggiore o minore intensità, alla commossa nostalgia e al rimpianto di luoghi e di tempi e di cose e di uomini irrevocabilmente scomparsi : o, anche, ritraggono situazioni immediatamente presenti, ma con l'ansia e l'attesa di vederle mutare e farsi vicine a un più alto ideale.
L'Ottocento ha avuto una ricchissima abbondanza di memorie: non solo di quelle intimamente legate al nostro risorgere a nazione, ma di quelle altre cui ora accennavamo: memorie di patriotti, fra le quali gli esempi più vivi sono dati dagli scrittori garibaldini, e memorie di ambienti, come quelle del D'Azeglio errabondo pittore lungo la campagna romana; di usi e costumi, come è nella Calabria ritratta dal Padula; di spensierate esistenze e di pugnaci battaglie artistiche, quali le rievoca Telemaco Signorini; di un laborioso salire verso l'arte, nella narrazione del Dupré; di un cristiano, eroico apostolato, nelle fervide pagine del Massaja. Gli esempi potrebbero essere numerosissimi, se fossero necessari. Ma più importa aggiungere che anche dalle memorie meno legate agli eventi risorgimentali si delinea spesso vivissima, dinanzi al lettore, l'atmosfera del secolo, il respiro e le vibrazioni del tempo, di una vecchia Italia che risorge in un suo alone favoloso. E proprio questo che rende care le tante memorie dell'Ottocento: questa ricerca di un tempo perduto. Una ricerca che era già nello scrittore e che si rinnova nel lettore: non già rivolta, come sarà nel Novecento, alle proprie personalissime e quasi incomunicabili esperienze di vita, ma a quelle di un più vasto mondo, nel quale è caro sentirsi cittadini ed attori e in cui si iscrivono, sentendo che ne è il naturale sfondo, le proprie ansie e le proprie lotte.
Nella scelta di scritti per il presente volume, è stata nostra intenzione dare la preferenza a memorie legate alla storia politica dell'Ottocento. Il volume successivo, che è in programma, accoglierà invece, in prevalenza, memorie meno apertamente ancorate alle vicende del Risorgimento, ma pur sempre, come abbiamo detto, testimonianze della vita del secolo. Certo, il confine tra le une e le altre resta assai incerto, come è sempre di ciò che è vivo, e non tollera, perciò, schemi e classificazioni. Il lettore infatti non troverà, già nel presente volume, una effettiva coincidenza tra gli scrittori raccolti e il nostro intento: pure, l'intenzione vi è stata.
Il Mediterraneo del Pananti, corso dai pirati barbareschi, ci è sembrato un antecedente significativo dei risorgimenti nazionali europei, tutti animati da un sentimento di libertà e di esaltazione dei diritti dell'uomo. Di fronte, l'Inghilterra vista e descritta dal Pecchio sembra contrapporre un esempio ideale di vivere civile, cui tante volte si rivolsero gli sguardi degli Italiani, e non di essi soli. Su questo sfondo si svolgono con maggior rilievo le memorie di Leonetto Cipriani, così animoso e irruente, così inconsapevolmente garibaldino pur nella sua infatuazione monarchica: dalla presa di Algeri agli invisi contatti con i mazziniani, dalla rievocazione avventurosa del '48 all'insurrezione popolare di Livorno, dalle esperienze d'America alla sdegnosa solitudine dinanzi a un'Italia che egli più non comprendeva: una serie di quadri attraverso i quali tornano tanti aspetti del Risorgimento, affettuosamente o polemicamente rivissuti.
La vita di Milano prima delle Cinque giornate riappare estrosamente e bizzarramente descritta nelle pagine, pur assai posteriori, del Ghislanzoni: e ci sembra possano dar rilievo, anche nella loro anacronistica collocazione, alla Milano patriottica ed eroica di Giovanni Visconti Venosta, piano e commosso narratore degli eroismi e della resistenza tenace della sua città. Firenze granducale, la sua liberazione, la fierezza e i disagi del suo divenir capitale, i primi tempi di Roma italiana, l'impacciato avviarsi della vita del giovane regno si specchiano nelle pagine di Ugo Pesci, così cronachisticamente minute, ma proprio per questo efficacissime nel ritrarre ambienti e situazioni. Certo, l'angolo visuale da cui è guardato il Risorgimento, tanto nel Pesci come negli altri autori, è unilaterale: un Risorgimento totalmente incarnato nella monarchia piemontese, in cui le correnti mazziniane sembrano soltanto un impedimento e un danno, e i problemi sociali, che pure già si imponevano, sono assenti. Soprattutto per questo, a tacere di particolari deformazioni, gli storici hanno trovato molto a ridire su queste rievocazioni del nostro Ottocento politico. Ma, comunque, esse corrispondono al panorama che del Risorgimento tracciò una non piccola parte della letteratura: e perciò questa rievocazione andrà integrata con altre voci, ma non respinta: voci che sono già in programma per altri volumi di questa stessa collezione. Pure, a correggere in parte il quadro dell'Italia ufficiale e monarchica, concorrono, anche nel presente volume, gli stessi insistenti spunti polemici del Cipriani e del Pesci, e soprattutto le pagine di Ettore Socci, garibaldino dei Vosgi e fiero repubblicano. Gli ultimi due scrittori, Barboni e Martini, rappresentano già un ripensamento a distanza dell'età risorgimentale: il primo con un suo timbro retorico da celebrazioni ufficiali, esempio di infinite opere scritte nella stessa chiave; il secondo, nella sua scaltrita e aristocratica compostezza, con una felice mescolanza di sorridente ironizzazione e di commosso rimpianto.
Stanno, infine, a parte, anche se inseriti tra le memorie risorgimentali, il Massaja e il Casati, che testimoniano, sotto due diversi aspetti, l'opera svolta dall'Italia in Africa: e trovano un loro completamento nella scelta che abbiamo dato dal libro Nell'Affrica italiana del Martini. Il Massaja, fra l'altro, pone in rilievo quello spirito di apostolato cattolico che si diffuse dall'Italia anche nell'Ottocento, e sottolinea, così, un aspetto non secondario della nostra civiltà, che, pur nell'insistente anticlericalismo del Risorgimento, indispensabile a raggiungere l'unità politica, conservò sempre la sua tradizionale fede religiosa e se ne fece propagatrice. Il Casati, invece, ricorda quale intensa partecipazione diedero gl'Italiani alle esplorazioni geografiche dell'Africa, alla creazione di contatti ed accordi con i suoi popoli: e con quante sofferenze e vittime pagarono questa opera.
Rivisti a distanza, questi autori, pur nei loro diversi atteggiamenti, hanno tutti, se si eccettuino, per evidenti ragioni, il Pananti e il Massaja, un'aria di famiglia: vivono di ideali comuni, la patria, la libertà, l'attesa di un mondo migliore, il culto dell'eroismo, delle glorie passate, l'entusiastica offerta della propria vita per questi ideali. L'atmosfera di un mondo che a volte può sembrare ingenuo e troppo giovanilmente fiducioso e convinto, ma che è fondamentalmente onesto e inconsapevolmente eroico.
Questi nostri memorialisti non hanno tale rilievo da apparire veramente significativi nello svolgimento della nostra letteratura. Unica eccezione, Ferdinando Martini, le cui pagine hanno un taglio inconfondibile. Ma gli altri, più o meno, si muovono tutti in una sfera modesta: restano lontani da ogni diretto influsso letterario, non curano né sorvegliano le loro espressioni, adoperano la lingua comune al secolo, senza imprimervi un suggello veramente personale. Più che dai libri di altri scrittori, sembra che abbiano attinto le loro forme dal dialogo con i contemporanei, dai modi della lingua parlata, assai più che scritta. Se si pensi alla prosa di un Mazzini, di un Gioberti, di un Nievo, di un Tommaseo, dello stesso Manzoni, a quel loro scrivere così ricco di influssi, scaltrito e lavorato anche quando mira alla semplicità, subito i nostri memorialisti si isolano in una sfera di elementarità stilistica. Il Pananti, ad esempio, richiama certo ad una tradizione classicheggiante toscana, ma con innesti di certa agilità di origine largamente illuministica, su cui hanno indubbiamente influito esempi francesi ed inglesi; e il Pecchio risente di esperienze lombarde, dal «Caffè» al «Conciliatore», di moduli barettiani e, più ancora, di una certa scioltezza e incuria letteraria venutagli dalle letture di economisti. Ma, specie per il Pecchio, si ha l'impressione che gli influssi letterari siano giunti indirettamente, attraverso il timbro della lingua comunemente parlata. Un'osservazione che diviene ancor più indubbia, e decisamente esemplare, quando si ripensi alle pagine del Cipriani, che scrive senza alcuna istituzione letteraria, senza altra cultura se non quella venutagli dal vivere stesso e dal parlare e sentir parlare, in giro per il mondo, da toscani, da francesi, da italiani d'America, da gente d'ogni livello, in un confluire di mille rivoli imprecisabili. Certo, nessuno vorrebbe negare che il Visconti Venosta abbia subito l'influsso del Manzoni e che di tale influsso sia traccia nelle pagine del Pesci, e ancora ne risentano il Barboni e il Martini, sebbene nel primo appaiano più forti, se mai, le suggestioni carducciane, e nel secondo lo stile raggiunga un suo timbro complesso e vigoroso. Ma questi influssi manzoniani, in sostanza, a che si riducono, nel Visconti e nel Pesci, se non a uno scrivere piano e semplice, cioè, in conclusione, a quei modi stilisticamente più popolari, meno letterariamente filtrati, che la poetica romantica aveva caldeggiato e diffuso? Né il Massaja né il Casati, così evidentemente lontani da ogni istituzione letteraria, tendono, nelle loro memorie, ad altra forma espressiva che gli autori or ora ricordati. E perciò il manzonismo di cui dicevamo, si dissolve, ad un'attenta osservazione, in un orientamento comune al secolo e in parte anteriore all'epoca del Manzoni. Lo stesso Socci, che pur accoglie, nella sua prosa, intonazioni stilisticamente romantiche accanto a modi già simpaticamente veristici, si serve, in effetti, di una prosa che è essenzialmente modellata su una forma media di lingua parlata.
Ma questo restar lontani da ogni suggestione letteraria, scrivere senza preoccupazioni né di lingua né di stile, ha, anzitutto, un interesse storico non trascurabile. Vogliamo dire che questi nostri memorialisti rispecchiano più immediatamente, che non gli scrittori letterati e gli artisti, il linguaggio del loro tempo, e realizzano, in tal modo, un piano linguistico, stilistico, di origine meno dotta, ma tale da raccogliere, in una espressione più unitaria e più facilmente attingibile, gli uomini di media cultura dell'intera penisola. Una delle tante vie, perciò, attraverso cui si accelerava l'unificazione nazionale e si ponevano le basi perché una sempre più ampia collaborazione giovasse al diffondersi di convinzioni e ideali comuni. A questo pregio storico si aggiunge, per noi, anche l'affettuoso interesse con cui ci è caro sentir narrare dalla loro voce gli avvenimenti di cui furono testimoni ed attori, rileggere fra quante lotte, speranze, delusioni, gioie e amarezze essi trasformarono in realtà il loro lungo sogno di libertà e indipendenza: ripercorrere, cioè, attraverso le loro pagine, il duro lavoro del Risorgimento, di cui, anche se a volte immemori, siamo i fortunati eredi.
Ma al di là di questi motivi storici e nazionali, e delle meditazioni e degli ammonimenti che ne derivano, i nostri memorialisti hanno un loro fascino poetico. Contenuto, lingua, stile appaiono a volte elementi esteriori, tali da fermare l'attenzione solo in una ricerca anatomica delle loro pagine: il lettore, invece, trascura spesso questi elementi, trascinato dalla vita che circola nei loro ricordi, dall'affetto e dalla nostalgia e dal rimpianto che li anima; specie quando lo scrittore dimentica se stesso e le sue intenzioni patriottiche e politiche e si abbandona a un caro, disinteressato rimembrare. L'efficacia è tanto maggiore in quanto non è cercata né voluta, nasce dall'intimo: allora lingua e stile, pur semplici e comuni, acquistano una loro nobiltà, che sempre, sebbene per breve durata, sale verso la sfera della poesia. Come avviene, ad esempio, in alcune pagine del Cipriani sui volontari del '48, sulla sua missione a Livorno, sulle faticose carovane che egli guida in America; nelle Cinque giornate descritte dal Visconti Venosta; nei ricordi della vecchia Firenze di Ugo Pesci; nella tentata fuga del Socci dal porto di Livorno. Un fascino che diventa evidente, quando si tratti del Martini, nelle nitide stampe che egli disegna della Firenze granducale, nel suo commosso, e pur composto, ricordo della morte del Mazzini. In verità, la poesia mostra il suo caro viso, senza che lo scrittore lo sappia e lo voglia, tutte le volte che la vita spirituale si fa fervida e nobilmente disinteressata.
Di quasi nessuno degli scrittori che figurano nella presente scelta era stato mai eseguito un commento. Nell'annotare il testo abbiamo perciò dovuto, in molti luoghi, chiarire accenni e dar notizia di uomini ed avvenimenti che appartengono alla cronaca, assai più che alla storia del Risorgimento. Ciò valga a scusare eventuali sviste e lacune che il lettore possa trovare nelle nostre note. Per alcuni autori, inoltre, è stato particolarmente difficile rintracciare notizie biografiche e materiale bibliografico che veramente giovassero a stenderne un profilo non poggiato unicamente sulla loro produzione. Anche questo valga a giustificare l'insoddisfazione che potrà destare qualche parte del nostro lavoro.
Perché il volume non divenisse troppo ampio, abbiamo limitato il commento al minimo indispensabile, e in genere abbiamo evitato di ripetere nel corso dell'opera le note già poste a brani precedenti: ma si sono eseguiti i necessari rinvii fin dove si è potuto. Le notizie bibliografiche sono poste in fondo ad ogni Profilo biografico.
Dei testi adoperati dà notizia la nota posta in fondo al volume. Nel riprodurli abbiamo conservato, più che fosse possibile, la grafia in essi usata. Qualche discreto intervento si è invece talvolta compiuto sull'interpunzione.
Aggiungiamo infine che ci è sembrato opportuno accogliere in questo secondo tomo una scelta delle memorie di Ettore Socci, sebbene degli scrittori garibaldini abbia già dato una felice antologia Gaetano Trombatore nel primo tomo dei Memorialisti dell'Ottocento. Le pagine degli scrittori garibaldini più noti si presentano, in genere, al lettore, come rievocazioni e commemorazioni di un'età gloriosa ormai tramontata, mentre il volume del Socci nasce da una immediata contemporaneità con l'impresa dei Vosgi ed è dominato da una decisa polemica contro gli orientamenti monarchici e conservatori della nuova Italia. Sottolinea, perciò, il perdurare del garibaldinismo oltre l'occupazione di Roma, la sua attiva presenza nella vita italiana, le istanze internazionali del suo credo democratico: lieviti evidenti della successiva storia d'Italia. Né, d'altra parte, le pagine del Socci mancano, anche letterariamente, di qualità positive.
Non dispiacerà, quindi, al lettore la presenza, in questo secondo tomo, di un ultimo scrittore garibaldino.