mentalizzazione
Abilità consistente nel considerare il comportamento altrui come frutto di stati mentali simili ai propri e come capacità di tenere a mente la mente propria e altrui, ossia di riconoscerne l’esistenza e regolare il proprio comportamento in base a ciò. Il concetto di m. è in gran parte sovrapponibile a quello di teoria della mente, ossia le rappresentazioni mentali esplicite o implicite che, a partire dall’infanzia, ogni individuo si costruisce riguardo alla vita psicologica di sé e degli altri. Grazie al contributo di autori come John Bowlby, Simon Baron-Cohen, John Allen e Peter Fonagy, psicologi e psicoanalisti hanno individuato nelle cure materne adeguate il primo e indispensabile contesto interpersonale per la nascita della funzione di m., senza la quale il bambino e l’adulto non potrebbero stabilire relazioni sociali soddisfacenti. Nella ricerca più attuale, la m. e la teoria della mente sono diventate costrutti-ponte tra etologia, psicologia cognitiva, psicoanalisi e neurofisiologia, e hanno profondamente influenzato la teoria e la pratica della psicoterapia. Un precursore del concetto di m. in psicoterapia è lo psicoanalista Wilfred R. Bion, che già tra gli anni Cinquanta e Sessanta del 20° sec. aveva definito la cosiddetta funzione alfa dell’apparato psichico: l’attività mentale che, partendo dalle impressioni sensoriali e dalle emozioni (definiti da Bion elementi beta, o realtà protomentale) giunge alla formazione del pensiero di sé e dell’altro dapprima come immagine mentale, poi come funzione cognitiva legata alla parola, ovvero come modo in cui la mente crea e manipola simboli per rappresentare gli stati emotivi. Deficit della facoltà di m., dovuti a relazioni materne o familiari disturbate durante l’infanzia, possono portare a gravi patologie psichiatriche come i disturbi della personalità (➔) in generale e al disturbo borderline (➔) di personalità in particolare.