mercanti e lingua
La coincidenza fra la decisa affermazione dei volgari italiani e l’espansione delle attività mercantili nel corso del Duecento non è casuale: numerose sono infatti le testimonianze letterarie di una precoce necessità professionale dell’uso della scrittura nell’ambiente dei mercanti, dai versi dell’Anonimo genovese (XIII sec.), che raccomanda al mercante di mettere sempre il nero sul bianco:
ma senpre arregordar te vòi
de scrive ben li faiti toi;
perzò che no te esan de mente,
tu li scrivi incontenente
alle ammonizioni di Giovanni di Pagolo Morelli nei Ricordi (XIV-XV sec.), fino al passo dei Libri della famiglia in cui ➔ Leon Battista Alberti afferma «essere officio del mercatante» avere sempre «la penna in mano» e «le mani tinte d’inchiostro». Del resto, anche nell’iconografia «il mercatante si faceva in generale rappresentare nell’atto di scrivere quei suoi libri o quei suoi documenti commerciali» (Branca 1986: XVII).
Nel medioevo per il mercante (la parola va intesa in senso ampio, a comprendere non solo mercanti veri e propri ma anche artigiani, bottegai, banchieri, proprietari terrieri, ecc.) saper leggere e scrivere il volgare era essenziale per poter amministrare il proprio patrimonio. Già nel primo Trecento «l’insegnamento limitato al solo volgare non era cosa infrequente» (Palermo 1999: 484). Soprattutto in Toscana – dove era notevole sia il volume delle attività finanziarie e commerciali delle aziende sia la quantità delle persone che vi erano coinvolte – si avvertì molto presto l’esigenza di una professionalizzazione del mestiere. Il mercante doveva innanzitutto imparare a leggere e scrivere le licterae (cioè le lettere commerciali; ➔ lettere e epistolografia) e poi acquisire conoscenze di base del latino per poter interpretare gli instrumenta (cioè gli atti notarili). La scrittura appresa, quella con la quale si vergavano in volgare libri, lettere e documenti contabili, era la mercantesca, un tipo di scrittura corsiva professionale nata proprio nell’ambiente mercantile. Si studiava a casa, sotto la guida di un maestro privato e talvolta con un ripetitore (che aveva il compito di ripetere ai giovani discenti le nozioni impartite dal maestro), o nelle scuole di commercio, una sorta di corsi professionali che si tenevano nelle botteghe e attraverso i quali si apprendevano i primi elementi del leggere, dello scrivere, dell’abbaco e dell’algorismo (cioè della matematica e dell’algebra).
Anche le donne dei mercanti medievali – mogli, madri, sorelle – avevano spesso la necessità di imparare a leggere e scrivere per gestire gli affari in assenza dei loro uomini, che potevano trascorrere anche diversi anni lontano da casa. Una testimonianza molto precoce in questo campo si ha all’inizio del XIII secolo a Venezia, dove Guglielma de Niola, coniugata Venier, durante le assenze del marito si prende cura dell’archivio patrimoniale di famiglia vergando di proprio pugno, in un veneziano che tradisce qua e là la madrelingua provenzale, molti degli attergati-etichetta di pergamene contenenti la documentazione relativa alle attività mercantili. Nel secolo successivo si potrebbe ricordare la novella decameroniana sul mercante genovese Bernabò Lomellini, che loda la moglie Zinevra di saper meglio «leggere e scrivere e fare una ragione [«fare un conto»] che se un mercatante fosse» (Boccaccio, Dec. II, 9). Noto è pure il caso di Margherita Bandini, moglie dal 1376 del grande mercante pratese Francesco Datini, di cui restano circa 250 lettere al marito, in piccola parte autografe.
Proprio dall’ambiente mercantile provengono alcuni dei reperti più antichi dei volgari italiani: si pensi, per es., al Conto navale pisano, della fine dell’XI o dei primi decenni del XII secolo, e alla Recordacione semivolgare veneziana di Piero Corner, scritta tra XII e XIII secolo.
Il Conto, che è il primo esempio di registrazione contabile giunto fino a noi, è un elenco di spese navali sostenute per allestire una o più galee; la Recordacione è un promemoria che, sotto una patina latineggiante, registra la spedizione da parte di Piero di alcune merci al padre Filippo che sta a Venezia. La più antica testimonianza di libro di conti mercantile pervenuta sono i Frammenti di un libro di conti di banchieri fiorentini del 1211, che lasciano intravedere già un notevole livello di professionalizzazione delle scritture commerciali in Toscana. I Frammenti rispecchiano il tipo embrionale di scrittura contabile, quello del libro del dare e dell’avere, in cui erano segnati i debiti e i crediti del mercante. Sempre a Firenze, a partire dalla fine del Duecento, si rintracciano nei libri mastri («libri contabili generali») le prime attestazioni della partita doppia, metodo contabile fondato sul principio che ogni registrazione deve apparire a debito in un conto e a credito in un altro. Poiché l’universo mercantile operava a stretto contatto – per ovvie ragioni – con quello dei notai, era naturale che tutte queste scritture contabili risentissero fortemente, dal punto di vista testuale e linguistico, di alcune peculiarità tipiche del linguaggio notarile (➔ notai e lingua): la formularità delle strutture, la ripetitività sintattica dei periodi, il ricorso ai tecnicismi.
Dai libri di conto – fonte preziosissima per la conoscenza dei volgari antichi – discende direttamente un altro tipo di scrittura elaborato in ambito mercantile, il libro di ricordanze o di famiglia, nel quale il mercante annotava non solo le principali attività commerciali (acquisti, vendite, affitti, operazioni tributarie, ecc.), ma anche tutte le notizie fondamentali relative alla vita familiare (nascite, morti, matrimoni, cariche pubbliche rivestite, ecc.). I libri di ricordanze, che il capofamiglia custodiva gelosamente in casa, ebbero una diffusione straordinaria – soprattutto in Toscana – fra Tre e Quattrocento, e ben presto si aprirono anche a forme di narrazione spontanea, talvolta con inserzione di discorsi diretti, di natura autobiografica o familiare. È in un simile contesto che vanno a collocarsi gli esemplari di libro di famiglia più evoluti e distesi di quei «mercanti scrittori» toscani – secondo la celebre formula di Christian Bec (1983) – che vissero fra Tre e Quattrocento e che talvolta riuscirono a mettere insieme biblioteche personali di notevoli dimensioni; esemplari che presentano, in modo spiccato, ora una piega moralistica e gnomica (come nel caso del Libro di buoni costumi di Paolo da Certaldo e del Libro del Biadaiolo di Domenico Lenzi), ora un’inclinazione autobiografica e cronachistica (si pensi, per es., ai Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli e alla Cronica di Bonaccorso Pitti). Ma se si mettono da parte tali esemplari, i libri di ricordanze si caratterizzano per la loro natura occasionale, e dunque anche intrinsecamente compendiaria e poco progettata, di testi scritti currenti calamo e messi insieme, con finalità pratiche e documentarie, da scriventi interessati a un semplice uso funzionale della scrittura.
Si tratta quindi di «una tipologia testuale che – sebbene affondi le proprie radici nel terreno di una duplice solida tradizione di scrittura: quella del notariato in latino e quella della contabilità in volgare – si rivela sovente orientata verso ‘l’esterno’ e la dimensione dell’oralità» (Ricci 2005: 249). Ciò vuol dire che mentre la semplice registrazione, in un libro di ricordanze, di un matrimonio o di un’operazione commerciale quasi mai lascia trasparire la padronanza linguistica dello scrivente, che è forte di un formulario di riferimento che ben conosce, nel caso in cui la medesima registrazione sia complicata dalla necessità di riferire accadimenti e imprevisti non contemplati dal quel formulario, allora il livello sociolinguistico dell’autore s’imprime chiaramente nella scrittura. Insomma: a mano a mano che aumenta il grado di narratività della singola ricordanza, aumenta anche la possibilità d’incontrare quelle peculiarità morfo-sintattiche e testuali che sono tipiche della lingua dei semicolti.
Qualcosa di simile avviene anche per la forma di scrittura più intrinsecamente mercantesca, la lettera (➔ lettere e epistolografia).
Le lettere dei mercanti, infatti, strumento imprescindibile per gestire i traffici (anche internazionali) a distanza, rivelano piuttosto precocemente la loro duplice natura. Da un lato si tratta di testi privi di ornato verbale – come notava già il retore Boncompagno da Signa alla fine del XII secolo – e dalla spiccata tendenza alla formularità e alla ripetitività, perché improntati a esigenze di chiarezza e di univocità informativa; dall’altro lato, riflettendo la concreta esperienza avventurosa di uomini spesso costretti a commerciare lontano dalle proprie terre in ambienti difficili e talvolta ostili, esse contengono non di rado informazioni non strettamente funzionali: narrazioni di eventi politici locali o internazionali e resoconti di vicende personali rischiose e finanche drammatiche. Così, per es., il pellicciaio veneziano Nicoleto Gata, fatto prigioniero a Caffa nel 1348, scrive al suo corrispondente per cercare di racimolare i soldi per essere riscattato (Stussi 2000: 279): «io te priego de quanto che mia muier à del mio intro le man, s’el fose solamente i groxo, tuoilo e mandamelo per le galie» («ti prego di prendere il denaro che mia moglie ha disponibile, fosse anche solo un grosso, e di mandarmelo con le galee»); chiede quindi disperato «ch’el sia vendù ogna cholsa» («che sia venduta ogni cosa»), e conclude amaramente: «I’ ò plù imparà in tre ani çò ce val el dener, ch’ie n’è fato in l’avanco de la vita mi’» («ho imparato ciò che vale il denaro più in questi tre anni che nel resto della mia vita»).
È interessante notare come alcune espressioni vivaci delle lettere dei mercanti, che riflettevano modi di dire correnti del parlato, si ritrovino in abbondanza nella letteratura toscana antica. È il caso, per es., delle lettere del primo Quattrocento, caratterizzate da una forte coloritura meridionale, che alcuni famigli inviano a Lorenzo Acciaioli. Uno di questi, Angelo da Bari, si sfoga così in una sua missiva a Lorenzo: «me mandati in nave senza biscoctu» («mi mandate in mare senza biscotto», cioè «mi fate intraprendere un’impresa senza adeguata preparazione»), con un’espressione idiomatica toscana attestata già nel Decameron («quando tu ci avesti messo in galea senza biscotto»: VIII, 6) e poi nelle quattrocentesche Istorie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti («non era da entrare in mare senza biscotto»).
In un’altra lettera, Astore Acciaioli si lamenta con Lorenzo per aver ricevuto minor merce rispetto a quanto gli è stato scritto e se la prende con chi afferma il contrario: «chy lu dicy […] menti per la gola» («chi lo dice […] mente per la gola», cioè «dice bugie madornali»): l’espressione mentire per la gola è abbondantemente attestata nella letteratura toscana fra Due e Trecento.
Tipica poi della lingua delle lettere mercantili è una forte tendenza all’ibridismo, che è la fisiologica conseguenza dell’abituale mobilità dei mercanti, che li portava a contatto con differenti realtà linguistiche. Così, per fare solo due esempi d’area toscana, abbiamo le lettere di Andrea de’ Tolomei, scritte tra il 1262 e il 1269 da Troyes o da Bar-sur-Aube ai compagni della sede senese, infarcite di gallicismi (non solo termini tecnici ma anche prestiti del parlare comune: Castellani 2000: 100-101), e quelle primotrecentesche della compagnia senese Gallerani-Fini, attiva a Parigi, Londra, Cambrai e nelle Fiandre, che offrono un notevole campionario di prestiti dal francese, dall’inglese e dal fiammingo (Cella 2009). D’altra parte, tenendo conto che la Toscana occupava un posto di rilievo tra XIII e XIV secolo dal punto di vista sia politico-economico sia linguistico-culturale, nelle lettere mercantili di scriventi non toscani è molto accentuato il fenomeno del toscaneggiamento: stante la tendenza spontanea del mittente ad adattarsi alle abitudini linguistiche del destinatario, i mercanti del resto d’Italia iniziarono per tempo a fare ricorso a parole e forme tipiche del fiorentino e degli altri volgari toscani: già nelle lettere della prima metà del Trecento che alcuni mercanti veneziani scrivono da Creta al pisano Pignol Zucchello si legge un volgare inequivocabilmente toscaneggiato.
Come ha ricordato a più riprese Stussi (1977: 71; 2000: 278), le lettere mercantili sono di fondamentale importanza come fonte per la conoscenza della storia linguistica italiana antica per quanto riguarda moltissimi centri (Pisa, Lucca, Siena, San Gimignano, Macerata, Fabriano, Norcia, Camerino, Bari, Lecce, Palermo, Venezia, Mantova, Zara, ecc.) e talvolta ci offrono anche la possibilità di retrodatare parole ed espressioni, soprattutto di ambito commerciale. Si può segnalare, per es., nelle lettere che la compagnia lucchese dei Ricciardi invia, tra il 1295 e il 1303, ai compagni operanti in Inghilterra, la prima attestazione italiana (databile al 1296) dell’aggettivo netto come opposto a lordo (oltreché una delle prime attestazioni della locuzione in solido «in rapporto obbligatorio di solidarietà», 1300: Castellani & Del Punta 2005: 160 e 165).
Almeno un cenno bisognerà fare anche ad altre due forme di scrittura tipicamente mercantesche, le pratiche di mercatura e i portolani.
Le prime (che a Venezia venivano chiamate, con un termine d’origine araba, tariffe) sono quaderni miscellanei nei quali i mercanti annotavano informazioni utili per le loro attività e provenienti dalle fonti più disparate: problemi matematici e frammenti letterari, notizie astronomiche e dati commerciali relativi a pesi, misure e cambi in vigore nei principali porti del Mediterraneo. Secondo una suggestiva ricostruzione di Borlandi (1962), proprio una pratica di mercatura in volgare, scritta da Marco Polo durante i suoi viaggi in Oriente, avrebbe avuto sotto gli occhi Rustichello da Pisa nel trascrivere la narrazione poliana.
I portolani – fonti preziose per il lessico marinaresco antico (➔ marineria, lingua della) – sono libri di rotte marittime che descrivono i fondali, le coste, i porti e le distanze tra i vari punti di ormeggio del Mediterraneo. Il portolano più antico della tradizione italiana è l’anonimo Compasso de navegare, contenuto in un manoscritto del 1296.
Pratiche di mercatura e portolani, che conobbero una grande diffusione (anche a stampa) soprattutto in area toscana e veneta, sono pervenuti in pochissimi esemplari: si trattava infatti di libri di dimensioni spesso cospicue esposti alle vicissitudini della navigazione e quasi sempre destinati a essere conservati solo fino a quando servivano.
Fin qui si è parlato essenzialmente di lingua scritta. Ma se è impossibile, per ovvie ragioni, recuperare una qualche eco delle voci dei mercanti medievali, si può pur sempre rintracciare nelle numerose testimonianze scritte pervenute qualche lacerto di simulazione di parlato: non solo nelle lettere e nei libri di ricordanze, che lasciano spesso trapelare, specie nelle narrazioni improvvise e impreviste di eventi personali o storici, fenomeni sintattici e testuali che sono tipici del parlato; ma soprattutto in altre tipologie di scrittura peculiarmente mercantili, come i manuali di conversazione bilingui e i documenti di bordo.
Per quanto riguarda i primi, veri e propri vocabolari di conversazione pratica che dovevano servire ad abbattere la barriera di lingue diverse, si può ricordare un interessante manuale veneto-tedesco del 1424 compilato da un certo «maistro Zorzi de Nurmbergo», verosimilmente insegnante di lingue in una scuola veneziana. Ecco un frammento di un vivacissimo scambio di battute tra un pannaiolo di Rialto e un compratore tedesco, che cerca del buon valescio (tessuto di cotone liscio) e boccaccino (tela di lino e cotone):
– Astu bon valessio e bon bochasin?
– No ve l’ò io dito? e’ ho el mior che sia in questa terra.
– Adù zà! lassalo vedere! Tu sa’ ben loldar la to roba.
– E’ la loldo chola veritade.
– Questo sa ben Dio.
– El sa anche so mare. Vardé! Ve piase questa roba?
È stata notata (Cortelazzo 1976: 689-690; Palermo 1999: 491-492) l’aderenza al parlato – quasi da commedia dialettale del Cinquecento – di simili modelli di dialogo mercantesco, rintracciabile anche in minime spie pragmatiche, come l’opposizione dei pronomi allocutivi (➔ allocutivi, pronomi): il venditore si rivolge sempre con il voi all’acquirente, che a sua volta ricambia con il tu.
Sinopie di lingua parlata si hanno anche, per rimanere in ambito veneto ma risalendo molto indietro nel tempo, in due estratti di libri di bordo veneto-ragusei studiati da Folena (1968-1970). Nel primo (del 1284) lo scrivano Andrea Blanchi offre la vivace descrizione dialogata di una lite scoppiata a bordo di una nave tra il veneziano Nicolò Faletro e il raguseo Marco di Viglierico circa l’opportunità, all’indomani della battaglia della Meloria, di proseguire la rotta per Pisa. Il secondo (1323) riporta le battute di un patto sindacale (relativo al pagamento degli stipendi) fra il paron della nave e i suoi marinai. Entrambi i documenti non solo forniscono una suggestiva registrazione verbale del parlato dei mercanti, ma sono anche una testimonianza preziosa del cosiddetto veneziano coloniale (o de là da mar), vale a dire un tipo particolare di veneziano – nato dal contatto e dall’interferenza della parlata dei mercanti di Venezia con quelle dei loro interlocutori commerciali d’oltremare – mischiato con tratti veneti non di laguna, tratti dei volgari italiani meridionali ed elementi slavi, arabi, bizantini, francesi (➔ Mediterraneo e lingua italiana).
A tale riguardo, occorrerà ricordare quanto sia importante il contributo che le scritture dei mercanti offrono all’arricchimento del serbatoio lessicale dell’italiano: soprattutto, com’è ovvio, per quanto riguarda le parole della marineria e del commercio.
I rapporti economici che, fin dal IX secolo, i mercanti delle repubbliche marinare (Venezia in primo luogo, ma anche Pisa, Genova, Amalfi) intrattengono con il Levante e l’Africa fanno sì che molte parole d’oltremare circolino – a partire dal Duecento – in quantità via via sempre maggiore nei volgari italiani (i mercanti veneziani, per es., furono i principali artefici dell’irradiazione di bizantinismi in area italiana).
La ricchezza della terminologia mercantile, d’altra parte, filtra anche frequentemente nella scrittura letteraria, soprattutto in quel genere testuale borghese e mercantile per eccellenza che è la novella. Nella novella X del Novellino, per es., in un generale contesto espressivo di apertura alla lingua della realtà quotidiana e di rappresentazione di diversi settori terminologici, il lessico mercantile viene riprodotto con tipiche formule contrattuali come «con queste condizioni e patti», «a certo termine», «al termine ordinato» (intendendo con termine la «scadenza»), formule che si ritrovano costantemente nei libri di conto e di ricordanze. Per non parlare della famosa novella decameroniana di madama Iancofiore e del «mercatante» fiorentino Salabaetto (Boccaccio, Dec. VIII, 10), tutta intessuta di parole, perlopiù d’oltremare, di ambito commerciale: fondaco, dogana, doganieri, sensali, magazzino, materasso di bambagia, bucherame, cipriana, derrate, ecc.
Né bisogna dimenticare, a conferma di come i mercanti medievali manifestino spesso curiosità e interessi in largo senso letterari, che quello straordinario libro-registro che è il codice Vaticano latino 3793 – il più importante canzoniere della poesia italiana antica – sembra sia stato allestito (come ha mostrato Antonelli 1992) da mercanti-copisti non professionisti della penna vicini all’ambiente delle botteghe e dei commerci.
Antonelli, Roberto (1992), Canzoniere Vaticano latino 3793, in Letteratura italiana. Le Opere, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 4 voll., vol. 1º (Dalle origini al Cinquecento), pp. 27-44.
Bec, Christian (1983), I mercanti scrittori, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, vol. 2° (Produzione e consumo), pp. 269-297.
Borlandi, Franco (1962), Alle origini del libro di Marco Polo, in Studi in onore di Amintore Fanfani, Milano, Giuffrè, 6 voll., vol. 1º (Antichità e alto Medioevo), pp. 105-147.
Branca, Vittore (a cura di) (1986), Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, Milano, Rusconi.
Castellani, Arrigo (2000), Grammatica storica della lingua italiana, Bologna, il Mulino, vol. 1° (Introduzione).
Castellani, Arrigo & Del Punta, Ignazio (a cura di) (2005), Lettere dei Ricciardi di Lucca ai loro compagni in Inghilterra (1295-1303), Roma, Salerno Editrice.
Cella, Roberta (2009), La documentazione Gallerani-Fini nell’Archivio di Stato di Gent (1304-1309), Tavarnuzze, Impruneta, SISMEL.
Cortelazzo, Manlio (1976), La cultura mercantile e marinaresca, in Storia della cultura veneta, Vicenza, Neri Pozza, 1976-1987, 10 voll., vol. 1º (Dalle origini al Trecento), pp. 671-691.
Folena, Gianfranco (1968-1970), Introduzione al veneziano “de là da mar”, «Bollettino dell’Atlante linguistico mediterraneo» 10-12, pp. 332-376 (poi in Id., Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova, Editoriale Programma, 1990, pp. 227-267).
Palermo, Massimo (1999), La lingua dei mercanti, in Storia generale della letteratura italiana, diretta da N. Borsellino & W. Pedullà, Milano, Motta, 16 voll., vol. 1º (Il Medioevo. Le origini e il Duecento), pp. 482-511.
Ricci, Alessio (2005), Mercanti scriventi. Sintassi e testualità di alcuni libri di famiglia fiorentini fra Tre e Quattrocento, Roma, Aracne.
Stussi, Alfredo (1977), Il mercante medievale e la storia della lingua italiana, in Venezia centro di mediazione tra oriente e occidente: secoli XV-XVI. Aspetti e problemi. Atti del II convegno internazionale di storia della civiltà veneziana (Venezia, 3-6 ottobre 1973), a cura di H.G. Beck, M.I. Manoussakas & A. Pertusi, Firenze, Olschki, 2 voll., vol. 2º, pp. 545-548 (poi in Id., Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, il Mulino, 1982, pp. 69-72).
Stussi, Alfredo (2000), Filologia mercantile, in Studi di filologia e letteratura italiana in onore di Gianvito Resta, a cura di V. Masiello, Roma, Salerno Editrice, 2 voll., vol. 1º, pp. 269-284.