Mercantilismo
Il mercantilismo è il pensiero economico dominante, con alcune eccezioni, dai primi decenni del 16° sec. ai primi decenni del 18°. Si tratta di un periodo molto lungo, nel quale l’economia politica si presenta per la prima volta come riflessione separata dalla filosofia morale e politica e comincia a forgiare i suoi propri strumenti di analisi. Soprattutto all’inizio, il mercantilismo non ha molto di teorico. I suoi esponenti sono per lo più uomini operativi, dediti al commercio o alla gestione pubblica. Anche quando si tratta di intellettuali di professione (filosofi, letterati o teologi), essi vedono i problemi economici come un insieme di esigenze pratiche, al di fuori delle loro visioni teoriche generali. Infatti, i mercantilisti danno soprattutto suggerimenti al governo per ottenere o evitare alcuni provvedimenti e, spesso, per rappresentare gli interessi di alcune categorie.
Vi è un equivoco di fondo da chiarire sul mercantilismo. Questo tipo di approccio è considerato tuttora ingenuo e sbagliato, perché vedrebbe nel denaro la vera ricchezza (crisoedonismo). Così almeno la maggior parte degli economisti successivi ha interpretato il desiderio dei mercantilisti di avere una bilancia commerciale costantemente attiva, che facesse entrare nello Stato più denaro di quanto ne usciva. Bernard de Mandeville (1670-1733) fu il primo a criticare tale teoria agli inizi del 18° secolo. Se negli scambi tra due Paesi ve n’è uno, egli scrisse, che si avvantaggia costantemente nello scambio più dell’altro, quest’ultimo sarà svantaggiato; e dopo un certo tempo si rifiuterà di continuare a scambiare.
Questa critica, ripetuta anche oggi, non coglie nel segno. I mercantilisti sapevano che lo scambio fra nazioni non avviene per decisione degli Stati, ma attraverso gli scambi dei singoli operatori. Una certa struttura della bilancia commerciale tra due Paesi, dunque, si può perpetuare avvantaggiando alcuni singoli mercanti, anche se danneggia il Paese. In realtà, la teoria della bilancia commerciale attiva esprime – sia pure in modo ingenuo – una giusta preoccupazione dei mercantilisti: allargare la produzione, aumentando le esportazioni e sostituendo l’importazione di beni di uso quotidiano. Per questo, infatti, essi chiedevano che lo Stato scoraggiasse, attraverso i dazi, le importazioni che potevano nuocere al Paese (per es., i beni di lusso, che non giovano alla produzione, né come beni-salario né come mezzi di produzione). Ma lo Stato doveva anche scoraggiare l’esportazione di materie prime, perché ciò nuoceva all’allargamento della produzione interna.
La critica più celebre alla teoria della bilancia commerciale attiva fu formulata da David Hume (1711-1776) negli anni Quaranta del Settecento. Un eccesso costante di esportazioni sulle importazioni, egli scrisse, crea un costante afflusso di denaro. Ma l’aumento dell’offerta di denaro all’interno non farà altro che alzare i prezzi delle merci, provocando l’inflazione. Allora aumenteranno anche i prezzi dei beni esportati e ciò farà calare le esportazioni, fino a raggiungere di nuovo l’equilibrio della bilancia commerciale, annullando l’afflusso di denaro in più.
Neanche la critica di Hume è appropriata. Al suo tempo i mercantilisti ripetevano da almeno un secolo che ciò che conta non è la quantità di denaro in sé, bensì come lo si usa. Proprio loro, a partire da Thomas Mun (1571-1641), avevano indicato l’esempio negativo della Spagna. Questa era ricchissima di oro e di argento, ma povera di produzione agricola e manifatturiera. Perciò, dicevano i mercantilisti, l’oro spagnolo va a finire negli altri Paesi, invece di essere investito in patria. Al contrario Olanda, Inghilterra, Francia, Genova sono capaci di attirare l’oro spagnolo perché lo investono nelle manifatture e nelle flotte.
In definitiva, è vero che i mercantilisti davano molta importanza al denaro, ma perché lo vedevano come capitale finanziario, come strumento indispensabile per allargare gli investimenti. Le critiche ai mercantilisti tuttavia prevalsero. Victor de Riqueti, marchese di Mirabeau (1715-1789), e François Quesnay (1694-1774) li attaccarono, perché i mercantilisti privilegiavano la manifattura e il commercio invece dell’agricoltura. Più tardi Adam Smith (1723-1790) lamentò, con qualche ragione, che i mercantilisti anteponevano l’interesse delle grandi compagnie commerciali monopolistiche a quello dei consumatori (da ciò l’espressione, da lui coniata, di scuola mercantile). Ma Smith lasciò intendere anche che i mercantilisti confondevano la ricchezza con il denaro.
In seguito l’enorme autorità di Smith spinse gli economisti, con l’eccezione di alcuni brillanti storici del pensiero, a ripetere meccanicamente questo pregiudizio. Alcuni autori del 19° sec., tra cui John Stuart Mill (1806-1873), ricordavano il mito di re Mida per dimostrare l’ingenuità dell’errore mercantilista. Mida aveva ottenuto dagli dei il dono di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Così, a causa della sua ingordigia, morì di fame. Questi economisti dell’Ottocento forse non sapevano che Aristotele era stato il primo a richiamare il mito di Mida proprio per criticare l’idea che il denaro fosse ricchezza. Ma certamente non sapevano che umanisti e aristotelici del 16° sec., e tra questi alcuni di ispirazione mercantilista – come il veneziano Paolo Paruta (1540-1598) –, avevano ripreso quel mito da Aristotele con lo stesso intento (per una documentazione dettagliata sui problemi e gli autori di questo paragrafo, v. Perrotta 2004, capp. 8 e 10).
In realtà i mercantilisti rimproveravano ai bullionisti proprio le idee erronee che poi sarebbero state attribuite loro. Un secolo fa Edwin Cannan (1861-1935) fece una distinzione, oggi trascurata, tra bullionisti (da bullion, lingotto) e mercantilisti. I primi, che prevalevano nel 15° sec., volevano che si impedisse l’uscita del denaro dal regno in quanto pensavano che ciò avrebbe impoverito lo Stato.
Un esempio tardo di bullionismo è dato da Scipione Ammirato (1531-1601). Nel 1598 egli si rallegrava dell’enorme afflusso di oro dall’America, quando già gli scolastici spagnoli, Jean Bodin (1530-1596) e Bernardo Davanzati avevano mostrato i gravi danni inflazionistici che esso procurava. D’altra parte, come i mercantilisti, Ammirato elogiava l’industriosità, e voleva l’aumento della popolazione, l’esportazione dei manufatti e l’importazione delle materie prime.
Dunque i mercantilisti nacquero contro l’idea bullionista di proteggere il tesoro. Essi spiegavano che, per rendere il Paese più prospero, bisogna incrementare il commercio con l’estero, la cui crescita a sua volta stimola l’aumento della produzione. Bisogna quindi consentire al denaro di uscire dal regno, per pagare i beni importati. Non sarà una perdita, perché l’aumento del commercio e della produzione farà affluire ancor più denaro di quanto ne esce.
L’unico elemento veritiero che è presente nell’immagine distorta dei mercantilisti, tuttora dominante, è il loro spirito nazionale. Essi sostenevano una politica di potenza dello Stato e di sviluppo economico in forte concorrenza con gli altri Paesi. In quel periodo si abbandonò l’utopia universalistica medievale e si formarono gli Stati nazionali.
Nello Stato nazionale, la disponibilità di denaro per il sovrano era essenziale. Gli autori del 16° sec., come, per es., il ligure Lorenzo Capelloni (1510 ca.-1590 ca.), il dalmata Niccolò Vito de Gozze (1549-1610), il ferrarese Giovan Battista Pigna (1530-1575), affermano che il denaro è il «nerbo della guerra» o «dello Stato». Grazie al denaro, il sovrano può organizzare un proprio esercito e una propria burocrazia, senza dipendere dai feudatari anarcoidi. Egli ottiene denaro in prestito dai mercanti, ma soprattutto lo ottiene dalle imposte, dai dazi e dai diritti che i mercanti gli pagano.
È su questa base che si forma l’alleanza sociale su cui poggia lo Stato moderno. Il sovrano e i ceti produttivi – mercanti, artigiani, professionisti, funzionari pubblici – sono uniti dal comune interesse di emarginare la feudalità e la sua prepotenza. I mercantilisti sono appunto l’espressione dell’economia moderna, dei suoi valori e dei suoi interessi. Essi vogliono la ricchezza della nazione e allo stesso tempo quella di mercanti e produttori.
Con i mercantilisti si rompe la comunità universale degli intellettuali, propria del Medioevo. Essi hanno un’ottica nazionale; e non comunicano quasi mai con i loro colleghi stranieri. Nonostante questo, elaborano idee e proposte praticamente identiche. Il motivo è che tutti loro attingono all’esperienza reale. Nella fase del decollo, gli interessi e i bisogni fondamentali dei diversi Stati sono gli stessi.
I sovrani di uno Stato che intraprendeva il decollo economico dovevano proteggere i propri mercanti all’estero; regolare le attività dei mercanti stranieri all’interno e obbligarli a investire in loco parte dei loro profitti; diffondere le manifatture e incentivare gli investimenti; creare le grandi infrastrutture (strade, porti, canali, acquedotti); armare grandi flotte, sia commerciali sia militari; vietare o limitare l’esportazione di materie prime (voluta dai grandi proprietari terrieri), e far lavorare queste risorse all’interno; dare lavoro ai poveri; attrarre gli artigiani stranieri per accrescere la produttività; aumentare le esportazioni di manufatti e le importazioni di materie prime, e scoraggiare i flussi opposti; promuovere la sostituzione delle importazioni.
Le politiche per il decollo erano difficilmente attuabili in entità politiche piccole come quelle italiane che avevano un mercato interno ristretto. A questo si aggiunga il radicale cambiamento delle grandi rotte commerciali. Tra la fine del 15° sec. e gli inizi del 16°, si aprirono le vie di navigazione oceaniche. Le antiche vie della seta, che arrivavano fino ai porti del Mediterraneo orientale, vennero sostituite con le rotte portoghesi e olandesi della circumnavigazione dell’Africa. Nello stesso tempo si aprirono le vie commerciali verso il Nuovo Mondo.
Tutto questo fu un colpo mortale per il commercio delle città italiane. Esse vennero sostituite dagli Stati europei che si affacciano sull’Atlantico. Tuttavia i fattori oggettivi (emarginazione del Mediterraneo, dimensioni troppo piccole) non erano di per sé un impedimento decisivo. Le città italiane avevano accumulato durante i secoli del basso Medioevo un enorme patrimonio di ricchezza, ma anche di conoscenze, di esperienze professionali, di reti connettive. Esso era tale che avrebbe potuto permettere l’adattamento alla nuova situazione e il rilancio dell’economia. Ma l’ostacolo insuperabile era la mancanza di un progetto di sviluppo nazionale, senza il quale il decollo era impossibile.
Si noti, per es., che il declino di Firenze ebbe inizio proprio quando i sovrani inglesi del 15° sec. cominciarono a restringere, fino a proibirla, l’esportazione della lana pregiata inglese in forma grezza. Essa era venduta a Firenze e nelle Fiandre. Fino allora Firenze aveva lavorato la lana inglese, per rivenderla, in forma di panni pettinati, colorati e disegnati in tutta Europa, compresa la stessa Inghilterra.
L’ostacolo decisivo al decollo italiano era insieme oggettivo e soggettivo. Nasceva dalla mancata unificazione dell’Italia e dalla conseguente debolezza economica dei piccoli Stati. Ma la mancata unificazione generò anche disillusione, la caduta degli ideali di autonomia, la fine dell’impegno civile che aveva caratterizzato la fase dei Comuni e del primo Umanesimo.
La nascita delle Signorie aveva mortificato e poi spento quegli ideali, senza sostituirli con un nuovo senso di appartenenza. I capi delle Signorie italiane, anche se spesso provenivano da famiglie di mercanti, non avevano un progetto di sviluppo: mancava loro lo spirito che animava i sovrani degli Stati nazionali. Nelle Signorie italiane non si realizzò quell’alleanza fra sovrano e mercanti che sta alla base dello Stato nazionale e del decollo del capitalismo. L’individualismo economico e politico, la mancanza di un progetto collettivo di sviluppo impedì all’Italia, nonostante il suo primato economico e culturale, di accedere allo sviluppo nel momento del decollo.
In queste condizioni, in Italia non poteva nascere una cultura economica mercantilista. Non esiste infatti un mercantilismo italiano, perché in quella fase in Italia non c’era nazione né sviluppo. I pensatori italiani dell’epoca ripetono quasi tutti Aristotele, anche per i temi economici, in modo pedissequo e pedante, con tesi astratte e senza tempo. Essi non sospettano nemmeno l’impetuoso sviluppo che avveniva in Europa. I loro scritti sono la prova della decadenza economica e culturale dell’Italia in quell’epoca.
Ci sono – è vero – pensatori italiani che hanno una cultura mercantilista; e alcuni, come Giovanni Botero e Antonio Serra, sono grandi autori. Ma essi rappresentano eccezioni individuali; riescono a captare le nuove esigenze economiche, nonostante l’estraneità a esse della cultura italiana.
Prima di Botero e di Serra, in Italia, per un lungo periodo appaiono ogni tanto alcuni autori originali, il cui pensiero crea le premesse generali per una visione mercantilista.
A metà del 15° sec., il francescano san Bernardino da Siena utilizza gli scritti del suo grande confratello, il provenzale Pietro di Giovanni Olivi. Vissuto nella seconda metà del 13° sec., Olivi aveva difeso l’interesse sui prestiti in denaro, con l’argomento che il denaro impiegato per l’investimento (cioè il capitale) ha una natura diversa dal denaro usato per il semplice acquisto. Come le sementi, esso contiene in sé, diceva Olivi, le potenzialità di crescita. S. Bernardino riprende questa tesi, sebbene con maggior prudenza. Egli è seguito subito dal suo contemporaneo sant’Antonino, vescovo di Firenze; e più tardi, tra 15° e 16° sec., da Tommaso De Vio (detto il Cardinal Gaetano, 1469 ca.-1534). Questi italiani pongono le premesse per liberarsi della condanna dell’interesse, che era stata espressa da Aristotele e poi dalla Chiesa.
La Riforma protestante svolge una forte difesa dell’interesse sui prestiti in denaro. L’ugonotto Charles Dumoulin, nel 1546, stronca per sempre il postulato aristotelico. Aristotele aveva scritto che l’interesse è immorale perché vuole ricavare ricchezza dal denaro; il quale è sterile di per sé, e non è ricchezza. Dumoulin – come Olivi – spiega che il denaro usato come capitale non è affatto sterile e produce ricchezza.
Negli anni Ottanta del 16° sec., Bernardo Davanzati, mercante e letterato fiorentino, chiude definitivamente questo dibattito. Egli spiega che il commercio a grandi distanze e all’ingrosso non può avvenire senza pagamenti dilazionati; e questi, a loro volta, possono essere fatti solo se si paga una quota in più del valore normale per compensare il tempo di attesa. All’interesse standard si aggiungono le oscillazioni del cambio che rendono possibili i pagamenti in altra moneta o con lettere di cambio.
Davanzati dimostra che gli scambi internazionali possono esserci solo in quanto il cambio fra le monete oscilla intorno al valore standard che ha abitualmente sul mercato; e in tal modo procura un certo guadagno al cambiatore. D’altra parte queste oscillazioni non possono essere troppo ampie (le variazioni del valore di scambio, dice, sono legate al valore standard come l’orbita di Mercurio intorno al Sole), perché pure in questo caso i cambi si bloccherebbero e le compravendite non potrebbero aver luogo.
Davanzati riprende anche un’altra polemica secolare che danneggiava lo sviluppo: l’alterazione delle monete. Lungo tutto il basso Medioevo i sovrani, affamati di denaro, avevano alterato le monete, mettendo nel conio una quantità di metallo pregiato inferiore a quella dichiarata. Ed erano stati imitati dai mercanti.
Sin dal 13° sec. gli scrittori avevano condannato aspramente questa pratica (celebre è rimasta la critica del vescovo francese Nicola d’Oresme, 1320-1382). Essi dimostrarono che tale alterazione portava un grave danno all’economia, perché creava sfiducia nella gente e fra i mercanti; impediva gli affari all’estero; colpiva i redditi fissi; spingeva verso i pagamenti in natura (che sono un ostacolo alla crescita); impoveriva la società e quindi diminuiva la quantità di tasse pagate. In definitiva, l’alterazione danneggiava lo stesso sovrano, sia perché diminuiva la capacità contributiva, sia perché creava sfiducia verso lo Stato.
Proprio nella seconda metà del 16° sec. queste critiche erano culminate nella cosiddetta legge di Gresham (da Sir Thomas Gresham, un famoso banchiere inglese del tempo), secondo la quale l’alterazione fa scomparire dal mercato la moneta buona che viene tesoreggiata. Davanzati effettua una delle critiche più feroci e più efficaci alla pratica dell’alterazione delle monete.
Un altro importante contributo alla nascita del mercantilismo viene dalle tesi sempre di Davanzati sulla libertà di circolazione del denaro. Essa, scrive, è come la circolazione del sangue nel corpo. Se non la si lascia libera, si creano occlusioni che possono essere mortali. Il denaro, afferma Davanzati, è come l’acqua: tende verso il basso. Quando la sua quantità è troppa in una piazza (che qui indica sia la piazza commerciale sia la piazza urbana) deborda – cioè il denaro perde di valore, e quindi una parte emigra altrove. Quando invece la quantità è troppo poca, si raccoglie sul fondo – cioè gli scambi ristagnano per mancanza di moneta.
Prima ancora che le questioni sul denaro venissero risolte, si trova in qualche autore un modo di pensare vicino al mercantilismo. Il conte napoletano Diomede Carafa (1406 ca.-1487) già nel 1476 anticipa le nuove tendenze. Egli compone un breve opuscolo, I doveri del principe, per istruire Eleonora d’Aragona, nuova duchessa di Ferrara, sull’arte di governare.
Per alcuni aspetti Carafa è ancora un bullionista, com’è naturale per la sua epoca. Egli ritiene importante che lo Stato abbia valuta di riserva per le necessità impreviste; e che limiti le spese. Tuttavia egli aggiunge che non bisogna esagerare con l’aumento del tesoro statale perché altrimenti si frenano le attività economiche. Le vie di mezzo – scrive nel suo delizioso miscuglio di latino, napoletano e catalano – governano il mondo.
Carafa afferma, come poi farà Niccolò Machiavelli, che il principe non si deve arricchire a spese dei sudditi, o con imposte troppo alte o cercando di appropriarsi dei loro beni. La ricchezza dello Stato, dice, dipende dalla ricchezza dei sudditi. Il sovrano deve quindi aiutare i privati ad arricchirsi. Egli non si deve mettere in concorrenza con i privati, gestendo un’impresa che sarebbe ingiustamente favorita. Il sovrano che fa l’imprenditore – scrive Carafa con grande efficacia – agisce come chi cerca di costruire la parte superiore della casa togliendo mattoni dalle fondamenta.
Un secolo e mezzo prima di Serra, Carafa porta ad esempio i Paesi che, pur avendo un territorio sterile, sono molto ricchi grazie al commercio. Perciò il principe deve incoraggiare il commercio, accogliendo bene i mercanti stranieri e dando loro garanzie. Egli deve armare le flotte per il commercio con l’estero; deve estendere la manifattura della lana; fornire i coltivatori del bestiame necessario, così potranno ripagarlo presto dei prestiti ricevuti.
Le geniali anticipazioni di Carafa rimasero isolate. Soltanto un secolo più tardi troviamo un pensiero complessivamente vicino al mercantilismo nel libro pubblicato postumo (nel 1574) di Giovanfrancesco Lottini, da Volterra (1512-1573): Avvedimenti civili. L’involucro è ancora aristotelico, come voleva la cultura italiana dell’epoca. Come Paruta, Lottini richiama il re Mida per dire che il denaro non è ricchezza, ed elogia la mediocrità delle ricchezze (altro concetto aristotelico). Infatti le grandi ricchezze e la povertà spingono a desiderare cose nuove. Tuttavia, come altri suoi contemporanei, egli afferma che il denaro è il nerbo della guerra e dello Stato. Perciò la città dev’essere ricca. Ma soprattutto le ricchezze non vanno soltanto possedute, vanno usate. Senza quest’uso la città diventa oziosa, e arrugginisce. Quante più sono le persone industriose, tanto meglio è. Il loro desiderio di arricchire giova allo Stato, perché pagano più tasse; ma giova anche ai privati.
Lottini critica l’assistenza pubblica perché incentiva l’indolenza, come diranno molto più tardi anche Mandeville e Daniel Defoe (1660-1731); e ritiene che la concorrenza faccia bene allo Stato, perché stimola l’industriosità. Egli contrappone gli uomini attivi ai nobili, i quali sprecano le ricchezze nel lusso di ostentazione e mantengono stuoli di inutili servitori, che sarebbe meglio impiegare per lavori, pubblici o privati. I nobili, dice Lottini, appaiono ridicoli nel loro ozio: preferiscono impoverirsi anziché lavorare.
Va detto, però, che il pensiero di Lottini non era del tutto isolato. Nel 16° sec. alcuni autori erano tornati a vedere la ricchezza come un elemento positivo, come avevano fatto i primi umanisti. Donato Giannotti, per es., nel 1538 difende i ceti medi, il commercio e la libertà di commerciare. Lo stesso fanno Antonio Venusti, Giovanni Maria Memmo, Paruta, de Gozze, Stefano Guazzo e Ludovico Agostini.
Altri autori attaccano i nobili e i loro privilegi (per es., Uberto Foglietta, Giacomo Lanteri, e – con grande asprezza – Agostini). Questi autori sono anche contrari al divieto di lavorare fatto ai nobili. Il dalmata de Gozze, insieme con il lavoro degli artigiani e dei professionisti, difende il lavoro salariato, contro i suoi numerosi detrattori. E, in modo simile a Davanzati, egli afferma che il denaro (come la terra) dà frutti se si impiega in modo appropriato.
Botero e Serra sono gli autori di gran lunga più importanti della cultura mercantilista in Italia, i soli mercantilisti italiani di rilievo internazionale. Sono autori isolati, proprio in quanto non furono espressione di una corrente e tanto meno di un progetto di sviluppo nazionale. E sono molto diversi tra loro.
Il piemontese Giovanni Botero nel 1588 delinea le regole generali della politica mercantilista desumendole non dall’esperienza, come facevano tutti i mercantilisti del suo tempo, ma dalla riflessione sulle sue innumerevoli letture. Per Botero, il fine della politica economica è quello di rendere lo Stato florido. La ricchezza dello Stato aumenta, non attraverso il tesoreggiamento dell’oro, bensì grazie all’espansione della produzione e del commercio dei beni. Il denaro dunque deve circolare; mentre l’eccessivo tesoreggiamento può rovinare lo Stato.
Ma l’espansione del commercio può essere vantaggiosa solo se incoraggia l’estendersi della produzione. Per la produzione, il lavoro e l’industriosità ricoprono un ruolo fondamentale. Perciò la manifattura, che si basa soprattutto sul lavoro umano, è più produttiva dell’agricoltura. Essa infatti accresce il valore dei materiali naturali trasformandoli.
Anche sulla popolazione Botero esprime le idee dominanti del mercantilismo. Ma lo fa con la sagacia propria degli altri grandi autori (William Petty, John Law, Richard Cantillon). La crescita demografica è importante per alimentare lo sviluppo economico. Tuttavia essa non deve superare l’aumento delle risorse prodotte.
Antonio Serra, di Cosenza, analizza invece l’economia del Regno di Napoli nel 1613. Egli è il maggior teorico nell’età moderna della dipendenza economica. Se la moneta del Regno è debole, scrive Serra, non è perché sia sbagliata la politica monetaria; ma perché l’economia è debole rispetto alle altre economie. Il Regno importa tutti i manufatti che consuma, invece di produrli. In cambio esporta prodotti agricoli, che valgono meno. I manufatti hanno un valore maggiore dei beni agricoli perché sono più numerosi, più durevoli e meno esposti alle incertezze meteorologiche. Infine essi contengono una maggior quota di lavoro.
L’economia che importa manufatti in cambio di materie prime e di beni agricoli è arretrata e dipendente. Essa aiuta la crescita delle economie già sviluppate dando loro le proprie risorse produttive. E impoverisce se stessa. Proprio per questo, nota Serra, i mercanti del Nord controllano tutte le attività finanziarie del Regno (dalle banche ai dazi, dalle tasse ai conti dello Stato). Controllano anche l’esportazione dei prodotti agricoli e le poche manifatture.
Per fare ricco il Paese bisogna innanzitutto avere una popolazione industriosa e intraprendente, come quella di Venezia, Genova e di tante altre città del Nord; e non indolente come quella del Regno. Si devono sviluppare le manifatture per produrre i beni che adesso vengono importati. Inoltre bisogna far crescere il commercio. Ma il mezzo più importante di tutti per arricchire il Regno è un governo stabile, che abbia a cuore lo sviluppo e lo incoraggi con politiche adeguate, come avviene a Venezia.
Come diranno più tardi Ferdinando Galiani e Giuseppe Pecchio, Serra può essere considerato il fondatore della questione meridionale. Il sottosviluppo del Sud era già iniziato nel Medioevo. Ma Serra fu il primo ad analizzarlo e a vedere l’intreccio fra arretratezza e dipendenza dal Nord.
Nel Seicento soltanto pochi autori mostrano qualche traccia di idee mercantiliste. Per es., Giulio Cesare Capaccio, Andrea Spinola e il gesuita Giovanni Menochio, che scrive sulla ricchezza nel 1625. Quest’ultimo è un autorevole esponente della cultura contro-riformistica, e deve aver imparato da Botero, che aveva scritto quasi quarant’anni prima. Inoltre Vettorio Lunetti, napoletano nato e vissuto nella prima metà del 17° sec., chiede di obbligare gli oziosi a lavorare e di promuovere la produzione attraverso prestiti pubblici. Egli critica i mediatori che speculano sul prezzo del grano.
Per quanto riguarda il Settecento, sono da segnalare alcuni pensatori che scrivono in un contesto di arretratezza economica. Ciò li porta a chiedere riforme mercantiliste che non erano state attuate in precedenza. Per es., Paolo Mattia Doria, Ludovico Antonio Muratori, e più tardi Antonio Genovesi, chiedono di incoraggiare il commercio e la produzione; di sostituire le importazioni con la produzione degli stessi beni all’interno; di scoraggiare l’importazione di beni di lusso. Mentre Girolamo Belloni suggerisce di alleggerire i dazi sull’esportazione di manufatti e sull’importazione di materie prime.
Genovesi fu a lungo svalutato come tardo mercantilista (da Francesco Ferrara, nella seconda metà dell’Ottocento, e da altri sulla sua scia). Quell’interpretazione non ha nessun fondamento. Genovesi fu un grande e originale teorico dello sviluppo in generale, secondo le tipiche istanze dell’Illuminismo, con in più una profonda visione dello sviluppo storico come evoluzione umana. Egli fu anche grande maestro di analisi dell’arretratezza del Sud e di progetti di riforma economica. Come molti altri illuministi, che avevano a cuore le politiche pubbliche per lo sviluppo, Genovesi semplicemente non era un liberista dottrinario (come Ferrara) e dette molta importanza al commercio estero come sbocco dell’aumento di produzione (ma dava altrettanta importanza anche al mercato interno). Questo non basta a farne un pensatore che si attarda su modelli del passato non più attuali.
Bernardino da Siena, Prediche senesi [prima metà sec. XV], parte in Prosatori volgari del Quattrocento, a cura di C. Varese, Milano-Napoli 1955.
D. Carafa, I doveri del principe [1476], in Gli scrittori politici napoletani dal ’400 al ’700, a cura di T. Persico, Napoli 1899 (rist. anast. dell’ed. del 1910: Bologna 1974, pp. 261-96).
G. Lottini, Avvedimenti civili.[1574], in Biblioteca enciclopedica italiana, 6° vol., Scrittori politici, Milano 1839, pp. 532-620.
P. Paruta, Della perfezione della vita politica [1579], in Id., Opere politiche, 1° vol., Firenze 1852.
B. Davanzati, Notizia de’ cambj [1581], e Lezione delle monete [1588], in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte antica, t. 2, Milano 1804, pp. 51-69 e pp. 15-50 (rist. anast. Roma 1965).
G. Botero, Delle cause della grandezza delle città [1588] e Della ragion di Stato [1589], in Id., Della Ragion di Stato; con tre libri Delle cause della grandezza delle città; due Aggiunte e un Discorso sulla popolazione di Roma, a cura di L. Firpo, Torino 1948.
S. Ammirato, Discorsi sopra Cornelio Tacito [1598], Venetia 1607.
A. Serra, Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non son miniere con l’applicazione al Regno di Napoli [1613], in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte antica, t. 1, Milano 1803 (rist. anast. Roma 1965).
V. Lunetti, Politica mercantile dell’espedienti et arbitrii per publica utilità nelli quali con vere raggioni si mostrano le cause delli danni della città e Regno di Napoli et il vero modo di rimediarli, Napoli 1630.
C. Perrotta, Consumption as an investment. I. The fear of goods from Hesiod to Adam Smith, New York-London 2004 (trad. it. parziale Paura dei beni. Da Esiodo a Adam Smith, Milano 2008).
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