Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il secolo XIX è generalmente percepito come il secolo del libero mercato e della sua affermazione su scala globale. Dopo l’abrogazione delle Corn Laws il trionfo del Free Trade sembra inarrestabile. La ricerca storica ha però mostrato che le cose non sono andate proprio così e, di fatto, il protezionismo è stato la politica economica per gran parte del secolo e fino alla vigilia della prima guerra mondiale
Il XIX secolo è comunemente percepito come il secolo dell’affermazione e del trionfo del libero scambio nel sistema delle relazioni economiche internazionali. Il Regno Unito rappresenta per tutto il secolo il simbolo vivente e operante del liberoscambismo con le profonde trasformazioni sociali ed economiche della sua rivoluzione industriale giunta ormai alla maturità e con la propria straordinaria e ininterrotta crescita economica.
Il principio del Free Trade diviene la pietra angolare della politica estera e commerciale britannica e ne condiziona in varia forma i rapporti con l’Europa continentale e con il mondo extra europeo. Ma tale principio diventa anche, su di un piano ideologico, la chiave interpretativa di quello che Marx per primo chiama lo “sviluppo economico”, espressione che diventerà di uso corrente solo dopo la seconda guerra mondiale. Sono la libertà di commercio e l’abbattimento degli ostacoli legislativi, sociali e culturali che frenano il libero dispiegamento delle sue potenzialità, a essere identificati come i motori primi della crescita economica e, più in generale, della razionalizzazione dei processi produttivi. Perfino le politiche di espansione coloniale e lo stesso imperialismo britannico si ispirano, almeno fino alla fine del secolo, al concetto della “eticità” di tali orientamenti, determinata dal fatto che il loro fine ultimo è quello di integrare in un comune spazio di liberi scambi anche chi è esterno alla civilizzazione occidentale. Se anche ciò dovesse avvenire tramite il ricorso alla forza, ed è il caso delle guerre dell’oppio con l’Impero cinese (1838-1842; 1858-1860), ciò è legittimato dal fatto che l’esito finale produrrà effetti positivi perfino per chi vi si oppone e, in ultima istanza, tale imposizione aprirà le porte della modernizzazione e della civiltà (occidentale) a tutti quei popoli che sono rimasti chiusi in un processo di lenta e inesorabile decadenza o che non sono mai giunti allo stadio di una vera e propria civilizzazione.
Se ciò resta a tutt’oggi un elemento importante dell’immaginario collettivo e della percezione ancora prevalente, anche fra non pochi studiosi, storici ed economisti, rispetto al secolo XIX, le ricerche e la letteratura scientifica degli ultimi decenni hanno ampiamente dimostrato come nulla, o quasi, di questa immagine corrisponda alla realtà storica degli scambi e dei mercati nell’Ottocento, della loro costruzione e della loro affermazione nel corso del secolo. Del resto, fino alla fine del Settecento, nonostante l’influenza dei fisiocratici e di Adam Smith, le politiche e le concezioni economiche ispirate al “mercantilismo” restano prevalenti, ricevendo una prima compiuta elaborazione teorica del protezionismo nel Report on Manifactures del 1791.
La prima affermazione sul piano politico internazionale del principio del libero scambio è rappresentata dal trattato commerciale tra Francia e Gran Bretagna del 1786, dove si richiamano esplicitamente i principi ispirati da Smith. Sebbene la Rivoluzione francese del 1789 e il successivo ventennio di guerre europee portino al rapido fallimento del trattato, è significativo ricordare come sia un altro trattato anglo-francese nel 1860 a caratterizzare il momento di maggiore affermazione e successo del Free Trade nel corso del XIX secolo. Ma agli inizi del secolo, le guerre Napoleoniche portano su scala internazionale all’affermazione di politiche protezioniste come conseguenza dei blocchi continentali imposti da Francia e Regno Unito nel 1806. Il culmine dell’orientamento protezionista nel Regno Unito lo si ha nel 1815 con l’approvazione della Corn Law, la legge sulle importazioni del grano, un sistema di tariffe doganali variabile con il variare dei prezzi del grano, e dei cereali in generale, sui mercati interni. Lo scopo evidente del provvedimento è quello di mantenere alti i prezzi del grano nel caso di abbondanza dei raccolti e di abbassarli considerevolmente, grazie alle importazioni dall’estero, nel caso di carestie e raccolti insufficienti. Le tariffe sul grano hanno come effetto quello di indurre non solo il mantenimento di alti prezzi per quanto riguarda i cereali, ma di estendere questo effetto a tutti i generi alimentari di prima necessità e ciò ha come ulteriore conseguenza quella di spingere verso un aumento generalizzato dei livelli salariali necessari a equiparare anche solo i minimi costi di sussistenza.
L’adozione delle prime tariffe stabilite dalla Corn Law del 1815 può simboleggiare il momento in cui ha inizio la polemica economica e il contrasto politico tra interessi manufatturieri e agrari che caratterizza buona parte del secolo, nel Regno Unito così come negli altri Paesi occidentali. È infatti evidente che, se la protezione dei prezzi dei cereali avvantaggia i proprietari terrieri, la gentry, che nel Paese tanto peso politico mantiene e avrebbe mantenuto nel corso del secolo, allo stesso tempo colpisce gli interessi degli industriali volti sia alla richiesta di una maggiore libertà in materia di commercio internazionale, dove a causa degli aumenti dei dazi sul grano si temono ritorsioni su altri prodotti, sia al mantenimento di un basso livello dei salari, reso più difficile da difendere a causa degli aumenti dei prezzi dei beni primari. Il contrasto tra la natura dei due diversi interessi, la sua intensità, o il loro combinarsi insieme in determinati momenti, è alla radice delle oscillazioni tra libero scambio e protezionismo che caratterizzano le vicende economiche del Regno Unito, così come di tutta l’Europa continentale, degli Stati Uniti e delle colonie di insediamento europeo, per tutto l’arco del XIX secolo.
Le prime vittorie dei sostenitori del libero scambio sono dovute agli economisti che si fanno portavoce degli interessi industriali richiamandosi alle idee di Smith, organizzando veri e propri gruppi di pressione, come il Political Economy Club, fondato da David Ricardo, e che riusciranno gradualmente a imporre la propria influenza sulla Camera dei Comuni e sull’azione del governo. Nel 1822 colgono un significativo successo con l’abolizione dei divieti di importazione, con una prima revisione delle tariffe doganali e, soprattutto, con una revisione, seppure ancora parziale, dei Navigation Acts, in vigore dal 1651, e rimasti da allora la principale limitazione al commercio internazionale con il Regno Unito (verranno abrogati del tutto solo nel 1849).
Nonostante ulteriori graduali misure di liberalizzazione del commercio, il principale nodo politico della contrapposizione tra liberisti e protezionisti resta la questione delle Corn Laws, non solo perché da queste gli industriali fanno direttamente discendere la questione dei livelli salariali, ma anche per la trasformazione del concreto contrasto tra interessi chiaramente identificabili, in una battaglia ideologica per o contro il libero mercato, grazie soprattutto alla Anti Corn Laws League, nata nel cuore industriale del Paese, a Manchester, nel 1836. La Lega, con una sistematica campagna propagandistica, andando oltre le argomentazioni strettamente economiche, presenta la questione delle tariffe del grano come una più generale battaglia per la libertà del genere umano e per l’affermazione dei suo diritti. La libertà di commercio diventa la panacea di ogni male e perfino un elemento decisivo per la futura pace del mondo. Nelle parole di Richard Cobden, suo principale portavoce: “[…] vedo il principio del libero scambio che svolge, nel mondo morale, la stessa funzione del principio della gravitazione universale: quello di attrarre gli uomini tra loro, respingendo gli antagonismi di razza, di fede, di lingua, unendoci con il legame della pace perpetua”.
Il modificarsi dei rapporti di forza tra i due settori dell’economia britannica rende ormai matura l’affermazione del Free Trade nel Regno Unito: se nel 1810 la ricchezza prodotta dal settore agricolo supera del 70 percento quella prodotta dal settore manifatturiero, nel 1840 è quest’ultimo a superare con il proprio valore aggiunto del 60 percento quello prodotto in agricoltura. Ma a decidere l’abbandono di ogni forma di protezionismo tariffario saranno i cattivi raccolti del 1845 e soprattutto la disastrosa carestia che colpisce l’Irlanda, causata dai pessimi raccolti delle patate. Nel giugno del 1846 viene votata, non senza seri contraccolpi politici, l’abrogazione delle Corn Laws, e il libero scambio diventa per la prima volta l’orientamento cui si uniforma l’azione politica ed economica britannica nel sistema delle relazioni internazionali.
Con l’eccezione di tre Paesi minori, Portogallo, Danimarca e, soprattutto, Paesi Bassi, fino al 1846 nell’Europa continentale prevalgono invece politiche di tipo protezionistico, seppure con diverse gradazioni. Agli occhi degli osservatori che dal continente guardano a quanto succede nel Regno Unito, il problema è abbastanza chiaro: la crescita dell’economia britannica, lo sviluppo industriale che la caratterizza e il progressivo affermarsi del principio del libero scambio sono la conseguenza di una graduale evoluzione che dura da oltre un secolo e che ha beneficiato di un capillare sistema di protezioni, andato allentandosi solo nei due decenni precedenti, per essere abbandonato tra il 1846 ed il 1849. Per recuperare il divario e consentire l’avvio, il consolidarsi e la sopravvivenza di propri sistemi industriali in grado di competere sul piano internazionale, è indispensabile la protezione doganale delle proprie manifatture dalla concorrenza dei prodotti industriali a basso costo che provengono da oltre Manica. Il protezionismo resta il fondamento delle politiche economiche del continente, con le eccezioni sopra ricordate, fino al 1851, anno in cui viene concluso il trattato commerciale tra Belgio e Regno Unito che rappresenta una delle prime aperture al libero scambio da parte di uno Stato del continente fino ad allora protezionista.
La vera svolta a favore del libero scambio si ha solo nel 1860 con il trattato commerciale anglo-francese, voluto da Napoleone III, convinto sostenitore della libertà dei commerci, e negoziato dall’economista ex-sansimoniano Michel Chevalier. La sottoscrizione del trattato è però un vero e proprio colpo di mano, poiché viene preparato segretamente e imposto scavalcando l’opposizione della Camera dei deputati e la maggioranza dell’opinione pubblica e degli interessi economici nazionali contrari al liberoscambismo. Il trattato rappresenta un vero passaggio d’epoca: introduce per la prima volta il principio della nazione più favorita, ovvero l’estensione automatica, al Paese con cui si è stipulato un accordo che preveda tale principio, di ogni vantaggio ottenuto in accordi bilaterali con Paesi terzi. Oltre a ciò, prevede la rimozione di ogni ostacolo al commercio bilaterale, fatto salvo il mantenimento del diritto di imporre tariffe sul valore delle importazioni con un tetto massimo del 30 percento, dunque pur sempre elevato.
L’apertura del continente europeo al liberoscambismo, con l’eccezione della sola Russia, e l’abbattimento delle tariffe doganali nei commerci continentali avviene per via indiretta tra il 1860 e il 1866 per effetto della clausola della nazione più favorita e a seguito di accordi bilaterali con la Francia. Va notato però che fino al 1875, con l’eccezione del Regno Unito le cui tariffe sono pari a zero, dei Paesi Bassi e della Svezia, della Germania e della Svizzera, tutti gli altri Paesi mantengono il livello delle proprie tariffe doganali tra il 10 e il 20 percento.
Come il trattato del 1860 è il simbolo del trionfo dell’epoca del libero scambio, così l’abbandono di tale politica da parte della Germania nel 1879, preceduta nel 1877 dal Belgio, dall’Austria, dalla Spagna, dalla Russia e dall’Italia nel 1878, simboleggia il ritorno del continente europeo al protezionismo.
La decisione tedesca è dovuta alla crescente crisi del settore agricolo che non ha visto benefici dalle politiche di libero scambio e dall’ininterrotta opposizione degli industriali alla sua adozione: ma è soprattutto la questione del forte deterioramento delle condizioni di vita e dei redditi dei contadini ad avere un peso decisivo. Il peggioramento, comune a quasi tutti i Paesi del continente, è dovuto in gran parte alle importazioni crescenti di cereali dai Paesi extraeuropei, dagli Stati Uniti innanzitutto, che del resto mantengono per tutto il XIX secolo una coerente politica protezionista e non si fanno coinvolgere dalla svolta liberoscambista degli anni Sessanta, nonostante il dissenso degli Stati del Sud. Questi, a prevalenza agricola, hanno un chiaro interesse verso una legislazione doganale orientata al libero mercato, così da garantire le proprie esportazioni verso l’Europa e consentire un’importazione di prodotti industriali a basso costo.
È questo l’elemento decisivo alla radice della “Grande Depressione”, il marcato rallentamento della crescita economica che si registrerà nel ventennio 1872/73-1892/93. Se nel Regno Unito il settore agricolo è ormai secondario e la popolazione impiegata in tale settore si riduce drasticamente, nel continente resta pari a circa il 60 percento della popolazione tra il 1870 e il 1890, ed è evidente che il suo impoverimento non può non avere conseguenze sulle scelte economiche dei singoli Stati. La svolta definitiva la si ha nel 1892 con l’adozione da parte della Francia di un nuovo regime tariffario che annulla il trattato del 1860 e inaugura la fase di crescente intensificazione delle politiche protezionistiche che si estende fino al 1914. Sole eccezioni il Regno Unito e i Paesi Bassi, che restano fedeli al Free Trade fino agli inizi degli anni Trenta del XX secolo.
Al di fuori dell’Europa la prevalenza delle politiche protezionistiche è evidente. Negli Stati Uniti, con la vittoria del Nord industriale, si afferma definitivamente una politica coerentemente protezionistica che rimane inalterata, o quasi, fino al 1913. Le colonie britanniche di insediamento europeo – Australia, Nuova Zelanda, Canada – mantengono un regime di tariffe preferenziali negli scambi con la madrepatria e con altre parti dell’impero: regime che viene intensificato a partire dagli anni Sessanta in Australia, a causa della crisi delle attività minerarie e della crescente disoccupazione, e in Canada dal 1879, a fronte dell’adozione di un più stretto assetto protezionistico verso i soggetti esterni, inteso a favorire lo sviluppo delle industrie nazionali.
Altri Paesi con una sufficiente base industriale seguono politiche protezionistiche lungo tutto il secolo, come il Brasile, o per gran parte di questo, come l’Argentina. I Paesi extraeuropei che adottano una politica tariffaria di libero scambio lo fanno non per convinzione, ma come conseguenza dei “trattati ineguali“imposti dalle potenze europee, che generalizzeranno una tariffa doganale del 5 percento e la clausola della nazione più favorita: tra questi la Cina imperiale, che mantiene per quasi tutto il secolo una politica commerciale essenzialmente liberoscambista, per quanto imposta, e una bilancia dei pagamenti positiva. Un caso a sé stante è quello dell’Impero ottomano, lo Stato che mantiene il più antico regime di libero scambio, dato che questo ha origine fin dal XVI secolo e viene abbandonato solo nel 1923: un esempio citato dai difensori delle Corn Laws per dimostrare come libero mercato non fosse di per sé garanzia di crescita economica.
In definitiva, per l’Europa continentale si può parlare di prevalenza del libero mercato, in senso stretto, solo per gli anni che vanno dal 1860 al 1879 e solo in un senso molto relativo, poiché anche in questo periodo solo alcuni Paesi adottano tariffe sufficientemente basse da consentire di parlare di eliminazione, o almeno di una effettiva limitazione, delle protezioni doganali. Gli Stati Uniti e gli altri Paesi extraeuropei con una base industriale restano protezionisti, fatte salve brevi parentesi liberiste. Il Regno Unito adotta una politica liberoscambista solo per poco più della metà del secolo e mantiene comunque un sistema pervasivo di protezioni indirette per quanto riguarda il commercio estero del suo impero e principalmente quello dell’India britannica, ed elabora una serie di tariffe privilegiate per il commercio con le proprie colonie di insediamento. In ogni caso il Free Trade si afferma e trionfa solo dal 1846, dopo un secolo di crescita e trasformazioni economiche legate alla rivoluzione industriale: lo sviluppo economico ha preceduto l’evoluzione in senso liberoscambista e l’incremento degli scambi internazionali, e non viceversa.