Mercato e concorrenza
La problematica relativa a mercato e concorrenza rinvia in primo luogo a un'area di riflessione oltremodo vasta e ampiamente inesplorata nella letteratura giuridica italiana riguardante i rapporti intercorsi nell’esperienza italiana del Novecento tra la cultura giuridica e la cultura economica (sul punto, cfr. P. Grossi, L'Europa del diritto. Uno storico del dirito in colloquio con gli storici del pensiero economico, «Il pensiero economico italiano», 2008, 2, pp. 9-24; in ordine al debito storico che l’economia ha nei confronti del diritto e sull’incidenza che il moderno diritto naturale ha avuto nella sua strutturazione scientifica, cfr. J.A. Schumpeter, Vergangenheit und Zukunft der Sozialwissenschaften, 1915, trad. it. 2011, p. 35; e J.A. Schumpeter, History of economic analysis, 1954, trad. it. 2003, p. 23; quanto all'attuale rilevanza della scienza economica nell’ermeneutica costituzionale si cfr. da ultimo di Plinio 2011).
In questa sede, a proposito del tema in oggetto, si intende fare riferimento ai processi culturali che nell’area della riflessione giuridica hanno scandito la modernizzazione del nostro Paese, a partire dalla fine dell’Ottocento: ossia dal momento in cui l’avvio dell’industrializzazione della nostra economia e l’avvento turbolento di una società di massa hanno fatto emergere i limiti e le contraddizioni dei processi di sviluppo propri di un Paese fortemente disomogeneo al suo interno sul piano economico e, al tempo stesso, hanno curvato il dibattito, pur sempre di respiro europeo, tra liberismo e interventismo (in chiave protezionistica) che in quell’arco di tempo ha dovuto fare i conti anche con le istanze dei movimenti socialisti allora in forte ascesa nella società italiana. Tale dibattito, sullo sfondo, ha avuto come oggetto l’intervento dello Stato nell’economia lungo un crinale che avrebbe portato, in molti Paesi europei, tra cui il nostro, dapprima all’«età delle tirannie» (l’espressione viene coniata negli anni Trenta in una prospettiva pessimistica sul futuro europeo da E. Halévy, in L'ère des tirannie, 1936), posto che la crisi del liberismo economico trascinò con sé anche quella del liberalismo (B. Croce, Storia d'Europa nel secolo decimonono, 1965, p. 280) e, successivamente, all’avvento di una società pluriclasse nel quadro di un sistema costituzionale democratico incline, come tale, all’intervento pubblico in economia con finalità redistributive (M.S. Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, 1986, pp. 69 e segg).
La necessità di collocare la riflessione sull’elaborazione giuridica del Novecento in materia di mercato e concorrenza nella prospettiva del confronto-dialogo tra riflessione giuridica e riflessione degli economisti discende dalla problematicità che tale dialogo ha registrato in ampia parte del Novecento. Essa è emersa in maniera evidente tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del nuovo secolo, in primo luogo in connessione con la crisi del liberismo e la smentita, nella realtà concreta, delle ‘armonie’ (F. Bastiat, Les harmonies économiques, 1864) ritenute intrinseche al modello fondato sulla libera competizione concorrenziale e dunque con il prevalere, nella concreta realtà storico sociale, di una configurazione protezionistica dei mercati commerciali in chiave nazionalistica o per aree territorialmente limitate, con l’avvio di processi di concentrazione delle imprese e di strutturazione dell’apparato industriale.
In secondo luogo, è sulla crisi del capitalismo individualistico, proprio dell’Ottocento, che dai primi del Novecento si è registrato il rafforzamento dello Stato sovrano in termini non più di solo guardiano notturno di una società economica autoregolantesi, bensì di protagonista per una crescente incidenza della politica sull’economia: incidenza destinata, sia pure nel mutare del quadro politico-istituzionali, a caratterizzare anche buona parte del secondo dopoguerra. Quel passaggio storico è intervenuto in un contesto caratterizzato anche dall’avvento del positivismo e di un approccio metodologico nelle scienze sociali incline:
a) ad autonomizzare i singoli saperi, in nome dell’esigenza che ciascuno di essi perseguisse la sua specifica quanto distinta 'purezza' scientifica, sì da sottrarsi da non più accettabili contaminazioni di ordine culturale e da assicurarsi, per il tramite del ricorso a pure astrazioni concettuali, l’emancipazione dalle contingenze fattuali;
b) e a legare la ‘scientificità’ della ricerca alla sua ‘avalutatività’ e ‘neutralità’ rispetto ai fini.
Ebbene, la problematicità del dialogo sopra richiamato si ripropone oggi in termini profondamente diversi e con maggiore consapevolezza critica. A prescindere dalla revisione degli approcci metodologici oltremodo formalistici, emersi sino al recente passato nella scienza giuridica, dalla riscoperta dell’interdisciplinarità come una via preziosa per arricchire i singoli saperi e dall’insostenibilità circa la neutralità delle scienze sociali (per l’economia, cfr. per tutti G. Myrdal, Das politische Element in der nationaloekonomischen Doktrinbildung, 1932, trad. ingl. 1953), sono gli avvenimenti storico-sociali a noi più vicini a incidere su tale dialogo. Il riferimento non tocca solo la globalizzazione dei mercati seguita negli ultimi decenni del Novecento alla crisi fiscale degli Stati e, dunque, il mutato assetto dei rapporti tra sovranità statuali e mercati senza più frontiere, ma anche le criticità nuove che tale processo ha evidenziato, a dispetto di chi con leggerezza aveva profetizzato, subito dopo la crisi del comunismo e dei Paesi del blocco sovietico, la fine della Storia (F. Fukuyama, The end of history and the last man, 1992). Infatti, dopo alcuni decenni di neoliberismo selvaggio intervenuti, su scala mondiale, a cavallo tra la fine del Novecento e l’avvio del nuovo secolo, nel corso dei quali mercato e concorrenza hanno rappresentato proprio il terreno d'incontro tra l’elaborazione delle scuole economiche, il ‘diritto vivente’ e la riflessione giuridica, appare oggi attenuarsi l’onda legata alla riscoperta mitizzazione del mercato autoregolato, che a sua volta ha fatto seguito all’altra mitizzazione, quella dello Stato interventista in economia, presente nella prima parte del Novecento e che sembrava aver attuato «la grande trasformazione» (K. Polanyi, The great transformation, 1974).
Esemplare, a quest’ultimo riguardo, può ritenersi la parabola discendente che nel panorama delle mode culturali registra attualmente l'‘analisi economica del diritto’, per quanto rimasta comunque minoritaria nella cultura giuridica italiana. Esemplare, in quanto la grave crisi dei mercati finanziari, tuttora in atto a livello mondiale, è stata causata, in buona parte, proprio dalla fiducia immotivata nelle capacità autoregolative dei mercati nonché dall’esaltazione del cosiddetto Stato minimo: entrambe propugnate negli ultimi decenni dal movimento di law & economics, sulla base delle rinnovate suggestioni provenienti dalla riscoperta scuola austriaca degli economisti e dal rilancio dell’individualismo metodologico; entrambe divenute egemoni nella prassi dei mercati globalizzati.
Per il tema in oggetto, fondamentali risultano le vicende relative all’introduzione nella nostra realtà di una disciplina antitrust, da intendersi, ai nostri fini, tanto nei suoi espliciti contenuti normativi (in termini di controllo ed eventualmente di sanzione d'intese, accordi e pratiche destinate a incidere negativamente sulla concorrenza e di abuso da parte di taluni soggetti economici dell’acquisita posizione di dominio sul mercato), quanto, più in generale, nella sua valenza sistemica quale guideline dell’ordine pubblico economico (G. Bianco, Ordine pubblico economico, in Digesto discipline pubblicistiche, Aggiornamento, 2005, ad vocem).
A voler periodizzare per l’intero secolo scorso il contributo della cultura giuridica italiana in ordine al tema ora segnalato, è possibile individuare tre diverse fasi.
Nella prima, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, la riflessione sul rapporto tra mercato e concorrenza e sulla sua rilevanza giuridica è stata decisamente tiepida e diffidente. Questa prima fase si chiude con l’avvio delle ostilità belliche del primo conflitto mondiale, ossia con l’introduzione, che voleva essere solo congiunturale, di una legislazione contraddistinta da interventi massicci dello Stato nell’economia che assumeva il ruolo di vero e proprio imprenditore secondo tendenze allora considerate in termini di socialismo di Stato (A. Sraffa, La riforma della legislazione commerciale e la funzione dei giuristi, «Rivista di diritto commerciale», 1913, 1, p. 1018). Di qui l’indubbia crescente devianza, in alcuni settori strategici dell’economia nazionale, dai principi giuridici fondativi del liberismo economico, quali la libertà di contratto e la ‘sacralità’ della proprietà privata.
Da allora è seguita una diversa, più lunga stagione che si è snodata a cavallo tra il ventennio fascista, l’avvento della Repubblica e alcuni decenni dell’esperienza democratica. In questa, l’effettiva tutela della concorrenza e, dunque, la stessa concreta possibile introduzione di una disciplina antitrust sono state sostanzialmente escluse a causa dell’egemonia di un’ impostazione politico-culturale in prevalenza assai critica nei confronti del liberismo economico e, di conseguenza, orientata ad affrontare i problemi relativi al ‘fallimento del mercato’ non già attraverso una sua compiuta strutturazione e regolamentazione giuridica, volte ad assicurarne il corretto funzionamento, bensì attraverso interventi disciplinari e istituzionali di segno opposto rispetto all'operatività del mercato, assunto come modello non meritevole di un’aprioristica primazia: sì è così sacrificata l’efficienza allocativa, in realtà nemmeno presa in seria considerazione, a esclusivo vantaggio di obiettivi redistributivi. Di qui, interventi incentrati tanto su un sistema di meccanismi autorizzatori e concessori, in ordine allo svolgimento di molte attività economiche, nonché di concreto favor per intese anticoncorrenziali e di concentrazione economica, quanto su un bilanciamento degli squilibri imputabili al sistema di libero mercato affidato all’introduzione del circuito guidato dallo Stato imprenditore (G. Cottino, Ascesa e tramonto dello Stato imprenditore: morte e resurrezione?, in Storia d’Italia, Annali, 14, Legge diritto giustizia, a cura di L. Violante, 1998, pp. 297-336) e destinato ad affiancare e contenere, per il tramite delle imprese pubbliche, quello delle imprese private orientate al perseguimento del profitto.
È solo nella terza fase, avviatasi negli anni Novanta del Novecento, che il tema ha conosciuto nell’esperienza giuridica italiana una sua progressiva strutturazione culturale e scientifica. Fase decisamente tardiva, a fronte, viceversa, di quanto accaduto negli altri Paesi dell’Europa continentale, pur con qualche significativa eccezione sul piano della riflessione giuridica: si considerino, sin d’ora, soprattutto la figura e l’opera di Tullio Ascarelli e di taluni dei suoi allievi, a partire dal secondo dopoguerra. È sufficiente qui limitarsi a considerare che la disciplina antitrust è intervenuta nella nostra esperienza agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, peraltro sulla scorta e sulla spinta di una prassi e di un modello culturale di origine sovranazionale. Per altro verso, il processo di consolidamento di una nuova costituzione economica e, conseguentemente, di politiche del diritto volte a porre il mercato competitivo al centro del sistema, è tuttora lungi dall’essere concluso e, soprattutto, lungi dal risultare convincentemente metabolizzato dalla stessa cultura politica oltre che da quella giuridica in senso stretto. Infatti, a titolo esemplificativo, la «tutela della concorrenza» ha dovuto attendere altri dieci anni per trovare un formale riconoscimento a livello della Carta costituzionale nel novellato art. 117 e ha richiesto altri anni perché la stessa Corte costituzionale e la letteratura giuridica ne cogliessero compiutamente l’impatto sull’intero ordinamento giuridico. Non deve, allora, meravigliare se il cosiddetto processo di liberalizzazione (ossia la rimozione dei meccanismi autorizzatori e dei privilegi corporativi accumulatisi nel passato, il superamento delle prassi volte a preferire opache trattative private a trasparenti sistemi di gare nell’aggiudicazione di appalti, più in generale, l’eliminazione di tante rendite di posizioni che la produzione legislativa e le prassi amministrative hanno favorito; la riconduzione nella logica dell'efficienza competitiva anche dell’impresa pubblica, a sua volta già significativamente ridimensionata) sia ben lungi dall’essere concluso, nonostante gli orientamenti ermeneutici di cui si è negli ultimi tempi resa protagonista la stessa Corte costituzionale, alla luce degli indirizzi, di lungo periodo, provenienti prima dalla Comunità e poi dall’Unione Europea. Le difficoltà e i ritardi che tuttora incontra nel nostro Paese il processo di inveramento e di salvaguardia del ‘mercato concorrenziale’ rispecchiano, a ben vedere, un humus culturale ancora radicato nella società italiana.
Per comprendere in maniera corretta il clima entro il quale il tema della concorrenza ha marcato una sua presenza nella riflessione giuridica del primo Novecento italiano, sia pure nel segno di una prospettazione decisamente riduttiva, è necessario rimarcare che il contenuto ideologico del liberismo economico presente nella cultura dei pionieri del primo Ottocento, 'polemico' nei confronti dell'abbattuto sistema corporativo, si era progressivamente attenuato nel corso degli anni. Un contributo in tale direzione può agevolmente rinvenirsi nel mutamento intervenuto negli indirizzi della cultura sia economica sia giuridica. Nella prima, si era determinata una divaricazione sempre più marcata tra le riflessioni di ‘economia applicata’, appiattite sulla prassi e aventi finalità anche prescrittive, e quelle scientifiche in senso stretto volte a studiare le leggi dell’economia pura, vale a dire «l’economia politica liberata da ogni applicazione a problemi di governo, o in genere a problemi di arte economica» (U. Ricci, Il metodo in economia politica, 1928, p. 105). Per via dell’affinarsi nella scienza economica di un approccio scientifico, progressivamente matematizzato, fondato sui postulati elaborati dalla scuola marginalistica (allora in ascesa e in evidente contrasto con la scuola storica tedesca, favorevole al protezionismo), il sistema concorrenziale si era andato prospettando come un semplice modello alternativo ad altri possibili assetti dei rapporti di scambio e da studiare al solo fine di delinearne deduttivamente tutte le caratteristiche e gli sbocchi sistemici.
Sebbene il complesso e variegato panorama liberale tra Ottocento e Novecento cominciasse un poco alla volta a registrare «la presenza di liberali-non liberisti (Mill), liberali-antiliberisti (Keynes), liberal-socialisti» (M. Baldini, Introduzione a F. Bastiat, Il mercato e la provvidenza, 2002, p. 11), per cui la libertà veniva invocata, ora in chiave negativa, per evitare limiti alla libertà esistente, ora in forma positiva, per combattere i monopoli naturali o acquisiti (J.M. Keynes, The end of laissez-faire, 1926), gli economisti tendevano ormai a concentrare la loro ricerca sulla sola indagine scientifica. Del resto, la stessa adozione nel 1890 negli Stati Uniti della disciplina antitrust di cui allo Sherman act, in verità destinata a rappresentare per molti decenni soltanto parte «del folklore del capitalismo» (A.E. Kahn, Prefazione a G. Bernini, La tutela della libera concorrenza e i monopoli, 1963, p. XIV), non ebbe come protagonisti gli economisti bensì operatori giuridici (cfr. F. Romani, Pensiero economico, pensiero giuridico e concorrenza, in La concorrenza tra economia e diritto, 2000, pp. 47 e segg.). A sua volta, la scuola economica italiana, anch’essa in prevalenza orientata a studiare l’economia pura (si pensi in particolare a Maffeo Pantaleoni e Vilfredo Pareto) e assai critica nei confronti dello statalismo economico allora in ascesa (G. Are, Economia e politica nell'Italia liberale (1890-1915), 1974), restò inascoltata (A.M. Fusco, Liberalismo e intellettuali, «Il pensiero economico italiano», 2008, 2, p. 111).
Quanto ai giuristi, l’affermarsi nella seconda metà dell’Ottocento di un approccio rigorosamente formalistico di orgine pandettistica ridusse progressivamente l’attenzione sulla cultura economica. In particolare, per i privatisti, a partire fondamentalmente dagli studiosi del diritto commerciale, tanto il mercato quanto la concorrenza, lungi dall’avere una specifica rilevanza sul piano giuridico, venivano assunti come un semplice riflesso fattuale dei paradigmi fondativi della libertà di iniziativa privata, consacrati dalla nuova codificazione civile e commerciale, e rappresentati rispettivamente dalla libertà di contratto e dal libero accesso all’esercizio delle attività economiche, nonché dalla tutela piena della proprietà privata liberata dai vincoli feudali (su questa linea, V. Prodi, Concorrenza, in Digesto italiano, 8° vol., 1896, ad vocem). In effetti, la codificazione introdotta nel nostro Paese dopo l’Unità non offriva alcun addentellato formale cui legare un’indagine in positivo sul tema riguardante la tutela della concorrenza.
Viceversa, la disciplina francese se da una parte, in coerenza con l’abolizione delle corporazioni e il divieto di dare vita a società intermedie, sanzionava espressamente sul piano penale la stessa formazione delle leghe operaie oltre che delle associazioni intermedie, dall’altra, attraverso l’art. 419 del code pénal, forniva pur sempre uno strumento di reazione avverso intese e accordi tra operatori economici destinati ad alterare la formazione dei prezzi delle mercanzie per cui lasciava aperte le porte per un rilievo ‘positivo’ da riconoscersi alla concorrenza in termini di bene meritevole di protezione (cfr. M. Torre-Schaub, Essai sur la construction juridique de la catégorie de marché, 2002).
Infatti, negli anni Settanta dell’Ottocento, le riviste giuridiche italiane, anche per via di quell’originaria non rigida separatezza tra le diverse scienze sociali, monitoravano gli sviluppi della riflessione economica in materia di concorrenza, alla luce degli esiti sempre più insoddisfacenti sul piano sociale del liberismo economico, dell’emergere delle prime concentrazioni economiche e bancarie, dell’impossibilità di continuare ad applicare lo schema generale della libertà formale di contratto e di uguaglianza formale nei rapporti socialmente più squilibrati, a partire da quelli di lavoro (cfr. V. Cusumano, Sulla condizione attuale degli Studi economici in Germania, «Archivio giuridico», 1873, 2-3-4, pp. 113-37, 240-65, 395-420, 1874, 2-3, pp. 284-317; C. Supino, La concorrenza e le sue più recenti manifestazioni, «Archivio giuridico», 1893, pp. 307 e segg.). Tuttavia, il clima economico-sociale del tempo incise progressivamente sulla mancata apertura di un dibattito giuridico in materia di concorrenza. Il composito movimento ispirato al cosiddetto socialismo giuridico, oltremodo critico nei confronti del liberismo, non favoriva certamente una correzione del sistema; meno che mai iniziative analoghe potevano presentarsi tra le posizioni più estremistiche dell’associazionismo operaio, perché esso era contrario al liberismo economico in quanto tale e, al tempo stesso, fiducioso (per via di una concezione meccanicistica ed evoluzionistica del marxismo allora in auge) che la concentrazione economica e l’emergere dei monopoli privati avrebbero accelerato l’avvento del socialismo.
Per altro verso, siffatti orientamenti si saldavano, paradossalmente, non solo con il protezionismo invocato dal ceto industriale e assecondato dalle classi dirigenti, ma anche con gli indirizzi più conservatori del crescente movimento nazionalistico, duramente ostile al liberismo e al socialismo, e favorevole sia alla modernizzazione del Paese, da realizzarsi anche attraverso processi di concentrazione economica e di rafforzamento dell'apparato industriale, sia al recupero del nascente sindacalismo operaio, in una prospettiva istituzionale decisamente autoritaria (sul ruolo di Alfredo Rocco, cfr. G. Cottino, L’impresa nel pensiero dei Maestri degli anni Quaranta, «Giurisprudenza commerciale», 2005, 1, pp. 7 e segg.; G. Vassalli, Passione politica di un uomo di legge, in A. Rocco, Discorsi parlamentari, 2005, pp. 61 e segg.). I pochi interventi della cultura accademica sulla concorrenza, emersi a cavallo tra Otto e Novecento, non andarono oltre il tema, allora in via di elaborazione, riguardante la sola concorrenza sleale in senso proprio (T.C. Giannini, La concorrenza sleale, 1898), ossia gli atti e comportamenti incidenti, in termini negativi, direttamente sull’iniziativa economica, sulla libertà di singoli e sulla nascente proprietà intellettuale, senza che venisse in alcun modo affrontata la questione circa il rilievo da assegnarsi alla promozione e conservazione della libera concorrenza in quanto tale. Esemplare, al riguardo, la riflessione di Angelo Sraffa sulle clausole di concorrenza (A. Sraffa, Le clausole di concorrenza, in Studi giuridici in onore di F. Schupfer, 1898, pp. 351 e segg.). Infatti, al di fuori delle ipotesi in cui le clausole fossero state in grado di ledere ingiustamente le persone colpite nella loro libertà economica, Sraffa negava, sulla base del diritto allora vigente, la presenza di un più generale interesse pubblico che potesse entrare nella discussione sulla validità di tali clausole. Le restrizioni alla concorrenza in quanto tale restavano, dunque, prive di rilevanza giuridica. Sraffa si limitava a chiarire:
Non escludiamo che in un sistema legislativo dove la concorrenza è la regola generale, considerandosi non solo come necessaria all’esplicazione della libertà individuale, ma anche come utile al progresso industriale e commerciale, i limiti alla concorrenza debbano derivare da principi di generale riconosciuta utilità sociale (Le clausole di concorrenza, cit., p. 354; corsivo aggiunto).
Nella medesima prospettiva, implicitamente consapevole delle esigenze legate alla ristrutturazione del capitalismo italiano dell’epoca, veniva collocata la discussione circa la validità e il trattamento giuridico da riservare alle forme associative e organizzative che andavano sviluppandosi in quella stagione e che abbracciavano tanto le leghe operaie e le organizzazioni sindacali, quanto le crescenti strutture consortili e di coordinamento delle attività economiche e industriali, allora tutte sinteticamente ricondotte alla formula «sindacati industriali».
Pur non mancando nella ricerca giuridica italiana di fine Ottocento contributi molto informati sulle primissime esperienze di normativa antitrust (per es., U. Bozzini, I sindacati industriali, 1906, che in appendice riporta, tra le altre, la legge canadese del 1889 e lo Sherman act nordamericano del 1890), la letteratura giuridica civilistica e commercialistica dei primi del Novecento restò per un verso neutrale, se non indifferente, nel giudicare il fenomeno delle intese consortili e delle concentrazioni meritevole di interventi legislativi sulla base dei modelli adottati in società in cui lo sviluppo industriale era certamente più avanzato; per altro verso, fedele a un’impostazione secondo cui la libera concorrenza in quanto tale era fuori dal campo del giuridicamente rilevante circoscritto alle sole ipotesi in cui l’esercizio della competizione si fosse svolto in modo tale da ledere la libertà d'iniziativa e i diritti di concorrenti o di specifici terzi.
D’altra parte, è oltremodo significativo che questo approccio dei giuristi al tema, per quanto minimalista, apparisse alla letteratura economica liberista come «una vera ossessione» (M. Pantaleoni, Alcune osservazioni sui sindacati e sulle leghe, in Id., Scritti vari di economia, 1909, p. 148). Al di là delle differenti elaborazioni teoriche emerse a proposito della configurazione giuridica dei consorzi e della loro causa (cfr. tra gli altri, T. Ascarelli, Note preliminari sulle intese industriali: cartelli e consorzi, «Rivista italiana di scienze giuridiche», 1933, pp. 90 e segg.; V. Salandra, Il diritto delle unioni di imprese, 1934), e ancor prima della progressiva formale consacrazione del fenomeno consortile in diversi provvedimenti legislativi intervenuti nei primi anni Trenta e culminata (in chiave macroeconomica e con indubbio impatto politico-istituzionale) nel recupero del modello corporativo e nella valorizzazione degli accordi economici collettivi, la letteratura giuridica prevalente, a partire dai primi del Novecento, escludeva in linea di principio che l’illiceità della causa negoziale ex art. 1122 c.c. potesse applicarsi ai cartelli e ai consorzi (pur sul presupposto della loro esclusiva funzione anticoncorrenziale, negata a quel tempo da R. Franceschelli, I consorzi industriali, 1939). Sulla scia della letteratura tedesca, essa sosteneva l’invalidità soltanto di alcune clausole contrattuali in quanto lesive di specifiche situazioni soggettive (A. Sraffa, Sulle clausole della concorrenza, «Rivista del diritto commerciale», 1904, parte prima, pp. 356 e segg.; V. Salandra, Il diritto delle unioni di imprese, cit., pp. 85 e segg.; T. Ascarelli, Le unioni di imprese, «Rivista di diritto commerciale», 1935, parte prima, p. 155).
La formale negazione della tutela della concorrenza, quale obiettivo giuridicamente rilevante, al di fuori dell’area dei microconflitti affidati alla concorrenza sleale, si ebbe con la legislazione sui consorzi industriali volontari e obbligatori del 1932 che s'inseriva nella ristrutturazione istituzionale fondata sulle corporazioni già previste nella carta del lavoro del 1926 (cfr. I. Stolzi, L'ordine corporativo, 2007; Gagliardi 2010, pp. 70 e segg.). La migliore letteratura giuridica commercialistica del tempo, sul presupposto, che sarà poi smentito dalla concreta esperienza politica (G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, 2006), circa la concreta effettività del modello disegnato dal legislatore, si limitò a registrare siffatto indirizzo legislativo e a coglierne tutte le implicazioni di ordine sistematico, destinate, tra l’altro, a rimettere in discussione le discipline generali in materia di contratti (T. Ascarelli, La funzione del diritto speciale e le trasformazioni del diritto commerciale, «Rivista di diritto commerciale», 1933, p. 81; Id., Alcuni aspetti del diritto commerciale nello Stato corporativo, «Diritto e pratica commerciale», 1935, pp. 271 e segg.; sulla medesima linea G. Auletta, Collaborazione corporativa fra imprese ed autonomia del diritto commerciale, in Studi economico giuridici, 1940, pp. 37 e segg.).
Del tutto isolate, d’altro canto, restarono le critiche, in chiave di tutela della concorrenza e di lotta ai monopoli, che Luigi Einaudi, in contemporanea, pubblicamente avanzava nei confronti delle scelte legislative che andavano maturando (L. Einaudi, Nuovi saggi, 1937, pp. 34 e segg., e pp. 72 e segg.). Nella prospettiva di politica del diritto inaugurata agli inizi degli anni Trenta dovevano così collocarsi, accanto a numerose pratiche anticoncorrenziali e alla creazione di molti «enti di privilegio» (S. Cassese, Lo Stato fascista, 2010, pp. 121 e segg.), la legislazione bancaria e, successivamente, la nuova codificazione civile. Al riguardo, l’unificazione tra codice civile e commerciale consacrava l’avvento di un’economia mista e sottoposta al controllo dello Stato; al contempo, assegnava alla nuova disciplina codificata la funzione di normativa generale dettata per tutti i rapporti economici e su cui si sarebbero successivamente dovute innestare le determinazioni puntuali affidate agli accordi economici collettivi stipulati tra le varie categorie economiche organizzate in chiave corporativa (E. Marchisio, Sulle ‘funzioni’ del diritto privato nella Costituzione economica fascista, 2007).
La rovinosa e drammatica caduta del regime fascista e, con esso, del sistema corporativo, non incisero nel mutamento già consumatosi in precedenza. A dispetto delle istanze reiterate con coerenza da Einaudi in sede di Assemblea costituente perché nel testo della nuova costituzione si introducesse un principio generale di lotta ai monopoli, quale manifestazione paradigmatica del rilievo sistemico da assegnare alla tutela della concorrenza, la Carta del 1948, sebbene in un contesto istituzionale che aveva ripristinato le libertà civili e politiche, delineava una costituzione economica che, pur riconoscendo l’iniziativa economica privata, non intese assicurare valenza costituzionale alla tutela della concorrenza: la limitazione e il controllo del potere economico privato erano affidati alla presenza, in settori nevralgici dell’economia, delle imprese pubbliche chiamate a svolgere un ruolo inevitabilmente calmieratore in quanto ispirate a un modello operativo non orientato al conseguimento del profitto, bensì al pareggio dei costi economici sostenuti.
Il modello dell’economia mista che veniva dal passato risultò di fatto confermato anche per il tramite della stessa sostanziale conservazione del codice civile del 1942. In ordine al quadro emergente dagli artt. 41 e 43 della Costituzione, la letteratura costituzionalistica, pur prendendo atto del rilievo riconosciuto all’impresa privata, si è per molti decenni limitata a registrare la sostanziale equidistanza tra l’iniziativa privata e quella pubblica del modello di costituzione economica introdotto nella carta costituzionale. Quanto all’iniziativa economica privata, l’art. 41, pur discostandosi dall’obiettivo produttivistico presente nel modello corporativo, grazie al riferimento all’utilità sociale bilanciava il principio della libera iniziativa.
A sua volta, l’art. 43 legittimava la conclusione secondo cui, in primo luogo, l’operatività della concorrenza (sempre se rispondente all’utilità generale) era affidata a livello macro alla sola possibile dialettica tra impresa privata e impresa pubblica nel senso dell’indifferenza, in linea di principio, in ordine ai processi di concentrazione e di deviazioni dalla libera competizione che potessero intervenire nell’area delle imprese private; in secondo luogo, sempre ai fini di utilità generale, le decisioni legislative relative all’intervento pubblico (sotto forma di riserva originaria o di nazionalizzazione di imprese private o di categorie di imprese, tali da dar vita a imprese pubbliche) ben potevano dispiegarsi, in presenza di un preminente interesse generale, con riferimento, da un lato, ai servizi pubblici essenziali e alle fonti di energia e, dall’altro, a qualsiasi monopolio privato che fosse sorto.
Non è un caso che il tema della concorrenza e della costituzione economica sia stato per decenni trascurato dalla letteratura pubblicistica e che questa, viceversa, abbia approfondito solo il tema del diritto pubblico dell’economia (M.S. Giannini, Diritto pubblico dell'economia, 1977), senza peraltro analizzare il problema circa la compatibilità della presenza incisiva delle imprese pubbliche nella nostra economia con i principi dell’ordinamento comunitario sorto con il Trattato di Roma del 1957. È toccato alla letteratura privatistica, da un lato, denunciare che il principio concorrenziale di cui all’art. 41 fosse «disarmato rispetto alla tendenza alla concentrazione immanente nell’economia a struttura concorrenziale» (Ghidini 1976, p. 794) e contrastare gli indirizzi favorevoli alla ‘funzionalizzazione dell’impresa’ sulla base della mancata riserva di legge nell’art. 41, 2° co. della Costituzione (G. Minervini, Concorrenza e Consorzi, in Trattato di diritto civile, 1965, pp. 3 e segg.; F. Galgano, Le istituzioni dell'economia di transizione, 1978, pp. 81 e segg.), dall’altro, aprire, nell’ambito della tradizione liberale europea, una riflessione moderna sul tema della tutela della concorrenza e prospettare una completa quanto articolata risistemazione del diritto industriale. È in questa linea che si colloca la lezione di Tullio Ascarelli, cui si deve, peraltro, anche la promozione di un’iniziativa legislativa in tema di antitrust (V. Donativi, Introduzione della disciplina antitrust nel sistema legislativo italiano, 1990; sui limiti dello stesso progetto di Ascarelli, cfr. P.G. Marchetti, Diritto societario e disciplina della concorrenza, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, 1997, p. 467).
In effetti, un radicale mutamento di prospettiva è intervenuto nel nostro Paese soltanto quando il processo d'integrazione europea ha registrato, tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, una significativa accelerazione e un mutamento qualitativo. Infatti, il passaggio dal mercato comune europeo al mercato unico interno, a partire dall’adozione dell’Atto unico europeo nel 1986, ha modificato profondamente l’impatto della stessa disciplina di origine comunitaria nella direzione di una più incisiva applicazione delle regole della concorrenza e della promozione della competizione. È in questo mutato quadro sovranazionale che va inserita l’introduzione nel 1990 della legge nazionale in materia di antitrust intervenuta su iniziativa di un ministro giurista di scuola ascarelliana (Guido Rossi). A ben vedere, è da quel momento che la letteratura giuridica italiana, a partire soprattutto da quella costituzionalistica, è stata chiamata a verificare, con l’apertura di un ampio dibattito, l’incidenza di quella legislazione e, più in generale, della stessa costituzione economica europea sulla nostra Carta costituzionale (cfr. sul punto S. Cassese, La nuova costituzione economica, 1995, pp. 53 e segg.; L. Cassetti, La cultura del mercato fra interpretazioni della Costituzione e principi comunitari, 1997). Quel dibattito e, al tempo stesso, lo svilupparsi di un sempre più incisivo intreccio delle politiche economiche dei Paesi europei, a livello sovranazionale, hanno portato innanzitutto alla costituzionalizzazione della concorrenza, consacrata appunto nella riforma del titolo V della Costituzione, intervenuta nel 2001, per cui il nuovo art. 117, 2° co., lett. e introduce nelle materie di competenza esclusiva dello Stato «la tutela della concorrenza».
Nelle battute finali del Novecento, il tema ‘mercato e concorrenza’ assume un rilievo centrale nell’esperienza giuridica italiana tanto sul versante della produzione normativa quanto su quello della riflessione culturale, in connessione, del resto, con i processi di integrazione giuridica intervenuti a livello europeo. In particolare, se da una parte la stessa introduzione nel 1990 della legge antitrust ha costituito un’occasione ineludibile per il riannodarsi del dialogo tra giuristi ed economisti sul piano della concreta applicazione di tale disciplina, dall’altra, il rilievo sistemico dal punto di vista della costituzione economica progressivamente assegnato al libero mercato e alla concorrenza ha richiesto una revisione significativa di una tradizione culturale radicata da molti decenni.
Infatti, una volta acquisito che la concorrenza è «strumento dell’ordine economico generale e regolatrice del processo economico» (W. Röpke, Presupposti e limiti del mercato, in Le regole della libertà. Studi sull’economia sociale di mercato nelle democrazie contemporanee, 2010, p. 174), è apparso sempre più evidente che la sua tutela non si esaurisce certo nella sola disciplina antitrust, bensì nella stessa adozione di una politica del diritto e, al tempo stesso, di un approccio ermeneutico alla legislazione indirizzati ad assumere la concorrenza come un bene giuridico non solo da preservare e custodire per la piena funzionalità del mercato, ma da promuovere. Ciò ha portato alla revisione del ruolo dello Stato: non più coinvolto direttamente nell’attività produttiva come soggetto del mercato e per di più in una posizione di privilegio, lo Stato assume, anche per il tramite di autorità indipendenti, il ruolo di semplice regolatore dell’economia (A. La Spina, G. Majone, Lo Stato regolatore, 2000). Da un lato, promuovendo lo sviluppo della concorrenza, anche mediante la rimozione delle barriere che nel tempo impediscono al mercato di funzionare, dall’altro, proteggendo la competizione, sì da assicurare la corretta operatività del mercato.
Al di là dei riflessi che ciò ha portato in ordine alla rilettura o revisione del quadro costituzionale, mette conto qui rimarcare come l’articolata nuova funzione della concorrenza, chiaramente presente nella costituzione economica sovranazionale, da tempo indirizzata alla strutturazione di un mercato unico a livello europeo fondato sulla libera competizione, abbia favorito l’apertura, dagli inizi degli anni Novanta, di una nuova feconda stagione di studi e d'indagini da parte della cultura giuridica privatistica.
In particolare, si sono poste le basi per una moderna e positiva configurazione giuridica del mercato. Infatti, lungi dall’essere un luogo naturale, il mercato è apparso, con sempre maggiore consapevolezza teorica, una costruzione giuridica (N. Irti, L'ordine giuridico del mercato, 2008): per la sua operatività esso non poggia soltanto sui paradigmi ottocenteschi fondati sulla libertà di iniziative e di tutela della proprietà privata. In quanto meccanismo d'interazione destinato a funzionare in modo efficiente sulla base di una corretta competizione, esso esige la presenza di specifiche ‘condizioni ambientali’ giuridicamente rilevanti che possono sinteticamente riassumersi in termini di assenza di asimmetrie informative.
Su questa premessa, è apparso sempre più evidente, anche sul piano giuridico, che non è più possibile confondere scambi e mercato e tanto meno parlare di un mercato al singolare. Si è sempre in presenza, in realtà, di mercati al plurale, i quali esigono, al fine del loro corretto funzionamento, regolamentazioni differenziate finalizzate appunto a rimuovere le diverse asimmetrie che possono in concreto presentarsi (A. Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, 3° vol., L’attività e il contratto, 2003, pp. 105 e segg.).
Ebbene, l’individuazione puntuale delle condizioni ambientali sopra richiamate, al fine di una corretta declinazione di mercato e concorrenza nella multiforme realtà, è destinata a rilanciare, nel prossimo futuro e in forme nuove, quel dialogo tra giuristi ed economisti per troppo tempo mortificato ed eluso nel corso del Novecento e che oggi trova un suo specifico spazio in sede di applicazione della disciplina antitrust.
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