Mercato e sistemi capitalistici
di Ugo Pagano
Mercato e sistemi capitalistici
sommario: 1. Le istituzioni economiche dei sistemi capitalistici alla fine degli anni ottanta. 2. Sistemi capitalistici e modelli di apprendimento. 3. Tecnologie informatiche e globalizzazione dell'economia. 4. Verso un unico modello di capitalismo? 5. Proprietà intellettuale e nuovo modello di accumulazione. 6. Una rivincita del modello americano? 7. L'altra faccia del nuovo capitalismo: sottosviluppo e anticommons. 8. Paesi scandinavi e capitalismo italiano. □ Bibliografia.
1. Le istituzioni economiche dei sistemi capitalistici alla fine degli anni ottanta
Negli ultimi anni del Novecento si chiude la sfida fra economie di mercato ed economie socialiste mentre, per certi versi, si accentua la competizione fra diverse forme di capitalismo. L'inizio del XXI secolo vede questo confronto legarsi con i fenomeni della globalizzazione, della rivoluzione informatica e dell'uso massiccio di varie forme di capitale intellettuale nei processi produttivi. Questi processi hanno significativamente mutato i termini del confronto fra i paesi capitalistici, che nei primi anni del nuovo secolo ha assunto connotati profondamente diversi rispetto agli inizi degli anni novanta, quando i modelli di capitalismo tedesco e giapponese sembravano offrire risultati migliori di quelli statunitense e britannico. L'analisi del quadro che si determina alla fine degli anni ottanta resta tuttavia un punto di partenza necessario per la comprensione delle nuove caratteristiche con cui, all'inizio del nuovo secolo, si pone il confronto fra paesi capitalistici.
Alla fine degli anni ottanta il modello di capitalismo statunitense, e in modo ancora più accentuato quello britannico, sembravano essere condannati a un inevitabile declino rispetto ai modelli giapponese e tedesco. Nella campagna presidenziale che apre gli anni novanta, nonostante la vittoria nella guerra contro l'Iraq, George Bush Senior è sconfitto da Bill Clinton per via dell'evidente flessione dell'economia americana. È in questo periodo che, al fine di spiegare il declino relativo del capitalismo statunitense, ci s'interroga sugli elementi che lo distinguono dai modelli di capitalismo giapponese e tedesco.
Le principali caratteristiche del modello statunitense cominciano a definirsi negli anni trenta, quando, in risposta alla crisi del 1929, viene introdotta una rigida separazione fra banche di credito ordinario e imprese industriali che impedisce alle prime di detenere partecipazioni azionarie nelle seconde (v. De Long, 1991). Questa separazione permette di aumentare notevolmente la contendibilità del controllo delle imprese, che era stata fino ad allora limitata dall'interferenza delle banche, accentuando così l'importanza del mercato azionario. La dispersione della proprietà delle imprese sul mercato azionario rende la public company statunitense il tipico modello di impresa manageriale (v. Berle e Means, 1932). I managers, infatti, non sono l'espressione di un blocco di azionisti in grado di controllarli e sostituirli grazie alla disponibilità di un numero rilevante di azioni. Al tempo stesso, poiché i managers inefficienti provocano una caduta del valore dei titoli, la scalata delle loro compagnie e la loro sostituzione con managers più efficienti sono particolarmente appetibili. Proprio per questa modalità di controllo basata sui meccanismi della borsa il capitalismo statunitense appare fondato non tanto sul controllo dei managers quanto sul controllo del mercato.
Tuttavia, il controllo dei managers da parte di un azionariato spesso disperso non avrebbe mai potuto funzionare senza l'esistenza di numerose istituzioni complementari, quali i fondi pensione, la legislazione concernente i doveri fiduciari dei managers e l'efficiente applicazione di tali norme da parte dei tribunali la cui opera - come dimostrano anche le recenti vicende legate al caso Enron (v. Colangelo, 2002) - è indispensabile per garantire i risparmi degli azionisti. In altre parole, oltre alla rigida regolamentazione che ha estromesso le banche di credito ordinario dal controllo delle imprese, il sistema statunitense è fondato su altri importanti interventi pubblici, sia per quanto riguarda il controllo dei managers da parte del sistema giudiziario, sia per quanto riguarda le procedure fallimentari (v. Barca, 1994).
In realtà, l'interdipendenza fra Stato e mercato nel capitalismo statunitense costituisce un primo esempio delle numerose forme di 'complementarità istituzionali' che caratterizzano le diverse forme di capitalismo (v. Pagano, 2000; v. Aoki, 2001). Una seconda complementarità istituzionale molto rilevante lega l'organizzazione dei mercati finanziari a quella del mercato del lavoro. Nel modello statunitense l'elevata contendibilità dell'impresa sui mercati finanziari implica che essa può essere scambiata come una merce e che i nuovi proprietari possono impiegare nuovi managers e lavoratori. In particolare, nel capitalismo statunitense i contratti (spesso anche impliciti) relativi alle condizioni di lavoro, alle carriere dei lavoratori e alla stabilità dei posti di lavoro non possono avere un ruolo importante. Se, infatti, i managers che rappresentano i nuovi proprietari non avessero la libertà di stipulare nuovi patti con i lavoratori o la possibilità di licenziarli facilmente, la convenienza ad acquisire il controllo di imprese gestite in modo inefficiente sarebbe molto limitata e il meccanismo del take-over non potrebbe essere uno strumento di garanzia per gli interessi degli azionisti. Queste libertà del (nuovo) management sono necessariamente associate a una mancanza di diritti da parte dei lavoratori.
Mercati del lavoro e finanziari hanno, dunque, caratteristiche complementari. Simili complementarità istituzionali caratterizzano i modelli giapponese e tedesco agli inizi degli anni novanta.
Nel modello giapponese, diversamente dal caso statunitense, il mercato azionario costituisce semplicemente uno strumento di incanalamento del risparmio, mentre i managers e i lavoratori sono isolati da tale mercato attraverso partecipazioni incrociate e attraverso la partecipazione azionaria della main bank, ovvero della banca di riferimento del gruppo (v. Iwai, 1999). Il modello giapponese aveva preso forma negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, durante l'occupazione statunitense (v. Barca e altri, 1999). Gli Americani, infatti, identificando i motivi del militarismo nipponico nelle relazioni - a loro giudizio quasi feudali - che caratterizzavano le imprese familiari giapponesi (zaibatsu), avevano espropriato le grandi famiglie con il proposito di rivendere le azioni delle grandi imprese a numerosi risparmiatori e avevano, inoltre, suddiviso le imprese in unità più piccole in modo da favorire l'avvento di un mercato concorrenziale. L'inerzia del sistema e il potere contrattuale dei lavoratori non portarono tuttavia a una replica giapponese del modello statunitense, ma a un modello originale di capitalismo in cui alcune libertà degli azionisti (impiegare il capitale con i soggetti a loro graditi e, all'occorrenza, facoltà di licenziare) erano severamente limitate. I diritti addizionali, rispetto al modello statunitense, acquisiti dai lavoratori erano quindi strettamente complementari a un sistema finanziario in cui l'impresa non poteva essere venduta in blocco come una merce sul mercato azionario. In questo senso le partecipazioni incrociate e la main bank costituivano due istituzioni finanziarie, strettamente complementari a quelle esistenti sul mercato del lavoro, che permettevano di isolare il controllo dell'impresa dalle transazioni che avvenivano in borsa. I finanziatori, e in particolare la main bank, avevano un diritto di interferenza limitato alle situazioni in cui l'impresa non riusciva a restituire il proprio debito. I loro poteri erano circoscritti a tale situazione e, quindi, molto più ristretti dei poteri detenuti dagli azionisti nel caso del modello statunitense. In pratica, la banca svolgeva una costante opera di monitoraggio che, proprio grazie alla sua continuità, garantiva anche la sostanziale stabilità dei processi di avanzamento nelle gerarchie interne. La fedeltà della banca agli interessi del gruppo era garantita inoltre dal fatto che, se essa deteneva le azioni delle imprese, queste a loro volta detenevano azioni della banca - una caratteristica del modello giapponese che avrebbe successivamente portato a pericolosi conflitti d'interesse.
Anche nel modello tedesco il ruolo delle banche tende a isolare il controllo delle imprese dalle vicende del mercato azionario (v. Allen e Gale, 2000) ed è istituzionalmente complementare a importanti caratteristiche del mercato del lavoro. Tuttavia il modello tedesco - di cui numerosi elementi, come la co-determinazione da parte di datori di lavoro e lavoratori, trovano origine nelle vicende dell'immediato dopoguerra (v. Backhaus, 1999) - si distingue dal modello giapponese per una maggiore indipendenza e importanza delle banche e per le caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro che, in un certo senso, lo rendono una forma di 'capitalismo sindacalizzato' (v. Pagano, 1991). In Germania si è cercato di favorire carriere occupazionali (v. Hall e Soskice, 2001) e sistemi di diritti dei lavoratori meno legati alle singole imprese e concordati spesso dai sindacati insieme con le forti e centralizzate associazioni dei datori di lavoro. Le banche tedesche hanno un ruolo decisivo nel controllo delle imprese, esercitato non solo attraverso il possesso di azioni, ma anche e soprattutto grazie alle deleghe di voto dei depositanti che, per via dell'attiva intermediazione della banca, acquistano azioni nelle imprese suggerite dalla banca (v. Franks e Mayer, 1990). La stessa delega di voto ha permesso alle banche tedesche, grazie a opportuni scambi di delega, di controllare se stesse (v. Barca, 1994). Il controllo delle banche in numerose imprese favorisce, insieme alle associazioni dei datori di lavoro, il coordinamento fra le diverse imprese. In questo senso, il sistema finanziario tedesco è istituzionalmente complementare al sistema di diritti che caratterizza le istituzioni del mercato del lavoro. Il funzionamento di queste ultime richiede anche un forte coordinamento fra i datori di lavoro, nonché la loro cooperazione con i sindacati e le istituzioni scolastiche. In tale sistema, ai lavoratori sono garantite occupazioni omogenee che corrispondono a una divisione del lavoro standardizzata fra le diverse imprese. Diversamente dal modello giapponese, nel modello tedesco non è tanto la libertà di licenziare a essere limitata, quanto la libertà di ogni singolo datore di lavoro di organizzare, secondo le sue particolari esigenze, la divisione e i contenuti del lavoro all'interno della sua impresa. A questa limitazione corrisponde il diritto dei lavoratori più qualificati ad apprendere in ogni impresa i contenuti di un'occupazione che potranno essere adeguatamente utilizzati anche in altre. Tuttavia, anche in Germania, si presume che i lavoratori restino nella stessa impresa finché le condizioni economiche lo permettono.
2. Sistemi capitalistici e modelli di apprendimento
I diversi sistemi di diritti che caratterizzano i modelli statunitense, tedesco e giapponese tendono a favorire diversi sistemi di apprendimento e di innovazione da cui dipendono i rispettivi vantaggi comparati.
Il modello statunitense, essendo caratterizzato dall'esistenza di forti diritti degli azionisti e dei top managers che li rappresentano, ha favorito un sistema di innovazione e di apprendimento che detta dall'alto le modalità della produzione a lavoratori i quali, non avendo la sicurezza di una continuità di impiego nella stessa impresa o nella stessa occupazione, hanno pochi incentivi a investire nelle capacità richieste per migliorare la qualità dei prodotti (v. Braverman, 1974). Il sistema statunitense di apprendimento e di innovazione si è quindi venuto caratterizzando come un sistema top-down. Le innovazioni elaborate in eccellenti università, in organizzazioni private specializzate nell'innovazione e nei dipartimenti di ricerca delle grandi imprese sono state poi diffuse dall'alto, fornendo alle unità subordinate istruzioni precise che spesso lasciano poco spazio alla creatività di queste ultime. Da questo punto di vista si può affermare che agli inizi degli anni novanta (e per molti aspetti ancora oggi) il sistema statunitense risentiva di un'eredità più o meno diretta delle esperienze tayloriste e fordiste. C'è da notare che, se il sistema di diritti prevalente negli Stati Uniti favorisce la scelta di queste tecnologie e di questi modelli organizzativi, questi ultimi favoriscono a loro volta il sistema di diritti dominante. Se, infatti, la tecnologia utilizzata comporta un'assenza di investimenti in capacità che siano specifiche per quelle imprese da parte dei lavoratori, una ridistribuzione dei diritti a loro favore ha effetti incentivanti minori di quelli derivanti dal sistema esistente, che ha il vantaggio di salvaguardare gli alti investimenti specifici nel capitale umano dei managers e nel capitale fisico delle imprese. Si determina quindi una complementarità istituzionale fra tecnologia e diritti che fa del modello di capitalismo statunitense un equilibrio organizzativo stabile (v. Pagano e Rowthorn, 1994), il quale, come nel caso degli altri modelli di capitalismo, ha la forza di perpetuarsi nel tempo.
Simili interdipendenze fra diritti e tecnologie sono presenti anche nei modelli tedesco e giapponese. In entrambi i casi i diritti attribuiti ai lavoratori tendono a favorire un sistema innovativo bottom-up, fondato sulle capacità delle persone più direttamente coinvolte nel processo produttivo. A sua volta, l'accrescimento delle capacità acquisite porta a rafforzare i diritti che le salvaguardano, determinando così anche in questi sistemi una complementarità istituzionale fra tecnologie e diritti. In questo senso anche i modelli tedesco e giapponese sono equilibri organizzativi stabili in grado di rigenerare continuamente le proprie caratteristiche.
Nel modello giapponese i diritti dei lavoratori sono relativi a una data impresa e tendono a essere complementari allo sviluppo di capacità specifiche per tale impresa. In questo sistema il lavoratore ha diritto a un lavoro di natura non concordata ex ante e tende a svolgere diversi lavori all'interno dell'impresa, acquisendo così numerose capacità specifiche che sono complementari a quelle degli altri membri dell'impresa. La rigidità che lega ogni lavoratore all'impresa si traduce in notevole flessibilità d'impiego dei lavoratori all'interno dell'organizzazione. Nel modello tedesco si ha, in qualche modo, un fenomeno opposto. In esso i diritti dei lavoratori sono inerenti alla possibilità di svolgere mansioni ben definite e di acquisire, quindi, capacità che sono utilizzabili anche in altre imprese. La rigidità che definisce la divisione del lavoro all'interno di ogni singola impresa si traduce, dunque, in una notevole flessibilità di impiego dei lavoratori in imprese diverse, permettendo così dei percorsi di carriera non necessariamente definiti. Nonostante queste differenze, i modelli tedesco e giapponese si distinguono entrambi dal modello statunitense per un processo bottom-up di apprendimento e di innovazione. Tali modelli, facendo leva sui maggiori diritti accordati ai lavoratori, ne incentivano lo sforzo di acquisire capacità che permettono costanti miglioramenti incrementali dei processi produttivi. La flessibilità necessaria a realizzare questi obiettivi è tuttavia complementare ad alcune rigidità che impediscono a entrambi i sistemi di assorbire processi innovativi top-down. Ciò non è dovuto solo al fatto che gli stessi diritti che favoriscono l'innovazione e l'apprendimento dal basso tendono a limitare le libertà che incentivano gli investimenti in capitale umano e fisico da parte di managers e azionisti, ma è soprattutto legato al fatto che le innovazioni top-down possono comportare cambiamenti radicali nella divisione del lavoro. Le innovazioni possono quindi trovare delle limitazioni in quelle stesse rigidità che, come abbiamo visto, sono paradossalmente il fondamento dell'apprendimento incrementale dei lavoratori e, spesso, ne favoriscono la flessibilità.
In ogni caso, il quadro che caratterizza gli inizi degli anni novanta sembra delineare una situazione favorevole ai modelli tedesco e giapponese. Diventa un luogo comune l'idea che, mentre gli Americani (e, per certi versi, ancora di più gli Inglesi) sono in grado di fare le scoperte scientifiche più rilevanti, sono le imprese tedesche e giapponesi ad avere le capacità, grazie all'elevata qualificazione delle loro maestranze e dei loro ingegneri, di realizzare quelle innovazioni incrementali che aumentano la qualità del prodotto e consentono alle imprese di crescere e di prevalere sui mercati internazionali. Il modello di capitalismo anglo-americano sembra in quegli anni destinato a un'irrimediabile decadenza relativa rispetto ai modelli giapponese e tedesco. Questo quadro si altera profondamente negli ultimi dieci anni del Novecento: come Tedeschi e Giapponesi possano reagire al distacco sempre più profondo rispetto al modello statunitense e, secondo alcuni, anche a quello britannico, diventa uno dei temi dominanti del dibattito politico ed economico. Solo riflettendo su alcune delle grandi trasformazioni avvenute negli anni novanta è possibile comprendere come il confronto fra sistemi capitalistici presenti un insieme di problemi così profondamente mutato agli inizi del XXI secolo.
3. Tecnologie informatiche e globalizzazione dell'economia
Gli anni novanta sono caratterizzati da due profonde trasformazioni per certi versi interdipendenti: la rapida diffusione delle tecnologie informatiche e i processi di globalizzazione dell'economia.
La rivoluzione informatica provoca la distruzione di vecchi mestieri e la creazione di nuove opportunità (v. Prosperetti, 2002). Inoltre, nelle sue fasi iniziali, la diffusione dell'informatica è favorita dall'adozione di standard comuni che assicurano compatibilità e comunicazione fra diversi computer. Tali standard comuni possono difficilmente essere elaborati dal basso, e tanto meno per mezzo di innovazioni incrementali. Talvolta, come nel caso di Internet, nelle fasi di elaborazione iniziale la loro diffusione è favorita da forze, quali la partecipazione attiva di istituzioni militari e scientifiche, che trascendono persino i processi di apprendimento realizzabili a livello di singole imprese. Tuttavia, quando l'adozione di standard comuni supera un certo livello critico, il loro dominio del mercato rischia di diventare totalizzante (v. Arthur, 1989). La proprietà dei programmi informatici costituisce un risvolto importante della proprietà intellettuale che si afferma come uno degli aspetti più significativi della 'nuova economia'. La proprietà intellettuale diventa, infatti, sempre più un input rilevante sia nella produzione di beni fisici, sia nella produzione di nuovi beni immateriali su cui vengono poi acquisiti nuovi diritti di proprietà intellettuale. Da questo punto di vista, se la Toyota - per le capacità dei suoi dipendenti, per la qualità del suo capitale fisico e la tangibilità dei suoi prodotti - simboleggia l'impresa di successo degli anni ottanta, la Microsoft - per l'immaterialità dei suoi prodotti e l'entità del suo stock di proprietà intellettuale - rappresenta il caso più evidente di un nuovo modello di accumulazione emerso negli anni novanta. Nel caso della Microsoft l'accumulazione di capitale fisico diventa di secondaria importanza rispetto all'accumulazione di sapere reificato in brevetti e in altre forme di proprietà intellettuale. Quest'ultima si accresce continuamente non solo in virtù delle capacità dei suoi programmatori, ma anche grazie agli stessi mezzi di produzione intellettuale di sua proprietà: per esempio, la precedente versione di Windows risulta essere l'input più importante nella produzione della successiva versione del sistema operativo.
La globalizzazione dell'economia è talmente legata alla rivoluzione informatica che ne può sembrare quasi un effetto. La rivoluzione informatica permette processi di cooperazione a livello internazionale senza precedenti. Il conseguente massiccio scambio di informazioni tende ad accelerare l'integrazione di diverse culture in un processo che vede un crescente dominio della lingua e della cultura anglo-americane in ogni parte del mondo. La rivoluzione informatica rende mobili i beni e, soprattutto, i servizi, senza che sia necessario che essi si muovano. Essi esistono in un cyber-spazio indipendente da una determinata collocazione fisica; in questo senso, misure tradizionali dell'integrazione, come il pur notevole movimento fisico di beni e servizi, sottovalutano l'entità dei processi di globalizzazione (v. Turner, 2001).
Al di là degli effetti delle nuove tecnologie, l'economia diventa globale nel momento in cui i paesi dell'ex blocco sovietico e la Cina vengono integrati nel sistema capitalistico mondiale e i capitali finanziari possono circolare per quasi tutto il globo con pochi vincoli alla loro mobilità. Altre tappe decisive del processo di globalizzazione sono la stretta vigilanza, da parte della WTO (World Trade Organization), contro eventuali restrizioni al commercio internazionale e, soprattutto, i TRIPS (Trade Related Intellectual Property Rights) con i quali la stessa WTO sorveglia dal 1994 il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale a livello mondiale, mentre questi vengono estesi sia per quanto riguarda la loro durata nel tempo, sia per quanto riguarda il loro campo di applicazione (v. Gallini, 2002). I diritti di proprietà intellettuale sono per loro natura diritti non locali e, in un certo senso, necessariamente globali (v. David, 1993). Mentre i diritti di proprietà sui beni fisici possono essere definiti e fatti rispettare curando semplicemente che non siano sottratti al proprietario in una determinata locazione, il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale ha caratteristiche completamente diverse: l'uso della proprietà intellettuale da parte di un individuo in una certa locazione non è incompatibile con l'uso da parte di altri individui in luoghi diversi, e il diritto di proprietà intellettuale è globale in quanto impedisce l'uso della conoscenza in tutti i luoghi in cui essa non è stata autorizzata dal proprietario. Un sistema di diritti che non sia globale non comporta problemi per la proprietà fisica, ma comporta pericolose zone d'ombra per i diritti di proprietà intellettuale. In questo senso, se sino alla fine degli anni ottanta la protezione della proprietà intellettuale era notevolmente limitata dalla presenza della Cina e dei paesi del blocco sovietico, nonché da una moderazione statunitense nel chiedere il rispetto di tali diritti in paesi alleati, negli anni novanta l'economia diventa globale anche nel senso che diritti di proprietà globali, come i diritti intellettuali, acquisiscono una maggiore efficacia. Ciò permette un nuovo modello di accumulazione capitalistica basato sulla proprietà privata di capitale intellettuale reificato che, oltre all'informatica, diventa molto rilevante in numerosi altri settori dell'economia e, in particolare, in quello delle biotecnologie, caratterizzato da un impetuoso sviluppo.
4. Verso un unico modello di capitalismo?
In che senso la rivoluzione informatica e la globalizzazione possono aver determinato un capovolgimento dell'efficienza relativa dei modelli di capitalismo che abbiamo considerato? È possibile che tali fenomeni, in un mondo caratterizzato da nuove tecnologie e da una concorrenza globale così intensa, conducano necessariamente alla prevalenza di un solo modello di capitalismo?
Le tecnologie informatiche hanno indubbiamente avuto conseguenze enormi nella riorganizzazione della divisione del lavoro, nella ristrutturazione dei modelli organizzativi e nella stessa struttura proprietaria delle imprese. Abbiamo visto come l'imposizione di standard comuni possa favorire la concentrazione delle capacità innovative e, quindi, un processo di diffusione del sapere top-down in cui la possibilità di innovazioni periferiche bottom-up è limitata dalla necessità di aderire a determinati standard. Inoltre, la rivoluzione informatica implica una riduzione del costo comportato dall'acquisizione delle informazioni necessarie a prendere decisioni centralizzate e a monitorarne l'esecuzione; anche questo può favorire i sistemi di coordinamento e di innovazione top-down. Ciò avviene specialmente quando il costo delle informazioni raccolte al centro può essere ammortizzato attraverso un elevato numero di decisioni eseguite dalle unità periferiche e quando l'uso di ogni informazione è reso più produttivo dalla raccolta di altre informazioni e da processi cognitivi complementari (v. Aoki, 2000; v. Dosi e altri, 2001). Tuttavia, le tecnologie informatiche favoriscono anche per altri versi i processi d'apprendimento bottom-up. Le macchine programmabili sono, rispetto a quelle tradizionali, meno legate ad altre macchine, nel senso che la possibilità di programmarle le rende polivalenti. Chi possiede poche macchine è, quindi, meno soggetto al ricatto dei proprietari di altre macchine complementari. Pertanto, la proprietà del capitale fisico può essere detenuta con successo da imprese più piccole, favorendo così processi di apprendimento più decentrati (v. Brynjolfsson, 1994). Inoltre, la computerizzazione dei processi produttivi richiede capacità specifiche che sono favorite dall'esistenza di garanzie per la formazione del capitale umano. Da questo punto di vista la possibilità di avere rapporti di lungo termine con le imprese o la garanzia di un mestiere utilizzabile in alcune di esse possono diventare persino più importanti nel contesto della 'nuova economia'.
In sostanza, le tecnologie informatiche sembrano avere effetti ambigui e contrastanti sui modelli di capitalismo così come si presentano alla fine degli anni ottanta (v. Pagano, 2001). È possibile che la situazione di svantaggio in cui si sono venuti a trovare Giappone e Germania sia limitata alla tumultuosa fase di introduzione delle nuove tecnologie, quando i diritti dei lavoratori, affermatisi nel contesto di un modello di divisione del lavoro in gran parte obsoleto, possono avere ostacolato una rapida ristrutturazione delle loro occupazioni e una conseguente ridefinizione dei loro diritti. Se in un periodo di veloce cambiamento le rigidità caratteristiche dei modelli giapponese e tedesco possono aver rappresentato un intralcio, una loro futura idonea ridefinizione potrebbe rigenerare le flessibilità complementari che abbiamo visto caratterizzare questi modelli.
Se la rivoluzione informatica non appare offrire una spiegazione convincente del declino relativo dei modelli giapponese e tedesco, il discorso sulla globalizzazione è più complesso. Gli effetti della globalizzazione sulla 'biodiversità' del capitalismo dipendono in qualche modo dagli aspetti del processo di globalizzazione che si ritengono prevalenti. Se la globalizzazione è vista soprattutto come un processo di standardizzazione culturale (v. Gellner, 1993; v. D'Antoni e Pagano, 2002), sembra legittimo sostenere che essa possa diminuire la diversità dei modelli capitalistici; qualora, invece, la globalizzazione sia intesa come un processo di profonda ed estesa integrazione economica, si giunge a conclusioni che presentano un notevole margine di ambiguità.
Un'analogia con la teoria ricardiana del commercio internazionale tenderebbe, infatti, a portarci alla conclusione che in un'economia fortemente integrata ogni sistema capitalistico si dovrebbe specializzare in quelle attività in cui le sue istituzioni comportano un vantaggio comparato (v. Hall e Soskice, 2001; v. Pagano, 2001), come illustrato anche da Daniele Vespasiani nella sua tesi di dottorato su Equilibrio organizzativo e prezzi naturali. Senza l'apertura del commercio internazionale, ogni paese sarebbe costretto a produrre in ogni settore necessario ai bisogni della società. L'intensificazione dell'integrazione economica permette invece ai diversi paesi di specializzarsi esclusivamente nella produzione di quei beni e servizi in cui essi hanno un vantaggio istituzionale comparato. In altre parole, la maggiore integrazione economica potrebbe favorire una maggiore diversità delle istituzioni economiche dei vari paesi. In questo senso, se ci si concentra sul confronto fra le diverse economie nazionali, la globalizzazione sembra dar luogo a un aumento della 'biodiversità' del capitalismo. Tuttavia, lo stesso processo comporterebbe una diminuzione della biodiversità interna e, al limite, la netta prevalenza di un singolo modello di capitalismo all'interno di ogni paese. In ogni economia capitalistica il vantaggio comparato di un singolo modello finirebbe con l'emarginare gli altri a causa della specializzazione produttiva nei settori in cui le istituzioni economiche del paese comportano un vantaggio comparato. La globalizzazione non determinerebbe, quindi, una convergenza verso un unico modello di capitalismo, ma favorirebbe, piuttosto, una maggiore diversificazione fra le economie capitalistiche e, insieme, una crescente omogeneità al loro interno.
5. Proprietà intellettuale e nuovo modello di accumulazione
Con riferimento ai modelli di capitalismo che abbiamo considerato, la globalizzazione dovrebbe portare i sistemi di diritti favorevoli ad apprendimenti bottom-up e top-down a specializzarsi in quei settori nei quali i rispettivi sistemi comportano vantaggi comparati. In qualche modo era questo il quadro che si era andato determinando negli anni ottanta. In tali anni, infatti, le imprese statunitensi prevalevano in settori, come quello informatico e quelli emergenti delle biotecnologie, caratterizzati da un processo innovativo per lo più discontinuo e, in parte, fondato sulla ricerca scientifica. Le imprese giapponesi e tedesche mostravano, invece, una maggiore efficienza in altri settori, come quello meccanico, in cui le innovazioni assumevano caratteristiche incrementali prevalentemente fondate sull'esperienza. Tuttavia, mentre alla fine degli anni ottanta l'approccio bottom-up, basato su esperienza e conoscenze tacite (v. Polanyi, 1958) acquisite in modo incrementale, sembrava essere il paradigma generale più promettente, la situazione si capovolge drasticamente negli anni novanta, quando l'approccio top-down, fondato sullo sfruttamento intensivo dei risultati della ricerca scientifica di base e sullo sviluppo di nuove conoscenze applicabili alla produzione, sembra imporsi come il paradigma che garantisce elevati tassi di sviluppo dell'economia.
A ben vedere, l'equilibrio fra i vantaggi relativi dei sistemi di apprendimento top-down e bottom-up presenta una notevole fragilità. Esso risulta infatti strettamente legato al sistema di diritti di proprietà vigenti nell'economia mondiale e, in particolare, alla natura dei diritti di proprietà sulla nuova conoscenza che viene prodotta. Quando i diritti di proprietà intellettuale sono debolmente definiti, la nuova conoscenza riesce a generare profitti solo qualora si incorpori in prodotti fisici tangibili su cui siano invece agevolmente definibili dei diritti di proprietà. In questa situazione la capacità di sviluppo incrementale dei prodotti sembra l'unica forma di apprendimento realmente in grado di appropriarsi dei frutti degli investimenti in nuova conoscenza, mentre il capitale produttivo non umano utilizzato dalle imprese sembra consistere esclusivamente di beni fisici tangibili quali macchinari, edifici e terreni. La situazione cambia notevolmente quando i diritti di proprietà intellettuale sono definiti con precisione e realmente rispettati. In questo caso sono le innovazioni relativamente più discontinue provenienti dal progresso scientifico a generare alti profitti; le innovazioni incrementali legate alla pratica, quando sono permesse da chi detiene i diritti di proprietà intellettuale, saranno gravate da licenze costose e da altri costi legati all'uso della proprietà intellettuale. Le capacità scientifiche di generare innovazioni, che segnano una discontinuità con le pratiche correnti, producono in questo caso frutti più facilmente appropriabili di quelli derivanti dalle capacità pratiche di migliorare incrementalmente la qualità del prodotto durante i processi produttivi. Al tempo stesso il capitale non umano non è più costituito soltanto da mezzi di produzione tangibili, ma una sua parte fondamentale diventa 'conoscenza reificata' nelle varie forme, come brevetti e copyrights, in cui si può disporre della proprietà intellettuale.
La rivoluzione informatica - intesa come possibilità di applicare in modo intensivo ai processi produttivi istruzioni reificabili in merci - e il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale - ridefiniti come diritti globali che assicurano il controllo degli usi della conoscenza in ogni parte del mondo - hanno cambiato la natura del processo di accumulazione capitalistica. Se negli anni ottanta l'accumulazione di capitale fisico e delle abilità legate al suo uso sono i fattori fondamentali che favoriscono lo sviluppo delle economie capitalistiche, gli anni novanta vedono nell'accumulazione di capitale intellettuale e nell'acquisizione di conoscenze scientifiche un fattore di crescente importanza per lo sviluppo dell'economia.
In questo senso la Toyota e la Microsoft, presi rispettivamente come simboli di successo degli anni ottanta e novanta, identificano due modelli caratterizzati da diversi rapporti fra capitale fisico e intellettuale. La Toyota appare ricca di capitale fisico tangibile e di capacità di continua innovazione incrementale da parte delle sue maestranze, mentre la Microsoft vede derivare il suo valore dalle numerose forme del cospicuo capitale intellettuale reificato di cui è proprietaria e dalle competenze dei suoi programmatori, che sviluppano le loro conoscenze non solo grazie alla pratica, ma anche grazie a un ampio bagaglio di conoscenze derivate dai principî dell'informatica. In modo del tutto coerente con queste imprese-simbolo, un significativo grafico riportato da Luc Soete (v., 2002) vede il Giappone con la più elevata percentuale del PIL investita in capitale fisico e gli Stati Uniti con la percentuale più bassa (l'Europa è in una posizione intermedia). Nello stesso grafico gli Stati Uniti risultano invece avere la percentuale più elevata del PIL investita in conoscenza e il Giappone la percentuale più bassa. L'Europa occupa di nuovo una posizione intermedia (ma la Germania, a differenza dei paesi scandinavi, sposta vistosamente la media verso il Giappone).
6. Una rivincita del modello americano?
Per l'economia americana il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale rappresenta un duplice vantaggio: da un lato è più coerente con il sistema di apprendimento top-down che ne aveva caratterizzato la struttura produttiva sin dalle pratiche tayloriste e fordiste; dall'altro tende a privilegiare i paesi che si trovano ad avere una dotazione più elevata di diritti di proprietà intellettuale e, quindi, in primo luogo gli Stati Uniti stessi.
Un sistema di innovazione top-down, come quello statunitense, abitua gli individui a descrivere in modo preciso e dettagliato le istruzioni da dare a coloro che sono impiegati nella gestione dei processi produttivi e apre la strada a una facile acquisizione delle varie forme di proprietà intellettuale. Al contrario, l'avanzamento continuo delle conoscenze acquisite nello svolgimento pratico dei processi produttivi, che è stato uno dei vantaggi principali dei modelli giapponese e tedesco, costituisce un processo di apprendimento bottom-up più difficilmente codificabile in forme idonee alla definizione di diritti di proprietà intellettuale.
In un certo senso il sistema di apprendimento top-down vede, con il rafforzamento dei diritti di proprietà e la rivoluzione informatica, una rivincita a livello planetario che ben pochi si sarebbero aspettati negli anni ottanta. Il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale, insieme con l'uso delle tecnologie informatiche, permette di portare ai limiti estremi quella separazione fra concezione ed esecuzione che è stato uno dei principî basilari del taylorismo. La mercificazione massiccia della conoscenza separa gli individui impegnati nella produzione di capitale intellettuale (reificato in diritti di proprietà scambiabili) da coloro che usano il capitale intellettuale nella produzione di beni fisici. Questa separazione si traduce molto spesso in una marcata distanza geografica. Infatti, quando il capitale intellettuale reificato permette semplici applicazioni alla produzione, i processi produttivi possono essere spostati nei paesi più poveri. Le imprese di questi ultimi potranno essere formalmente indipendenti e pagare per l'uso del capitale intellettuale reificato, o essere sussidiarie di imprese che concentrano negli Stati Uniti la produzione di capitale intellettuale. In entrambi i casi, per via di questo decentramento produttivo, fordismo e taylorismo, mentre si espandono in molte altre parti del mondo, possono diventare meno diffusi negli Stati Uniti. Paradossalmente, quindi, il modello statunitense è vincente proprio quando viene parzialmente espulso dagli Stati Uniti per essere esportato in molte altre parti del mondo.
Il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale avvantaggia gli Stati Uniti non solo per via delle caratteristiche del loro modello di apprendimento top-down, ma anche perché essi hanno già accumulato la dotazione più cospicua di tali diritti.
È stato osservato che nel mondo reale, dove i contratti che potrebbero garantire i non proprietari sono spesso incompleti e difficili da applicare, essere proprietari del capitale fisico garantisce e incentiva lo sviluppo di capacità umane specifiche per tale capitale (v. Williamson, 1985; v. Hart, 1995). Si può quindi determinare un circolo virtuoso fra l'accumulazione del capitale fisico e le capacità delle persone, circolo virtuoso dal quale i non proprietari rischiano di restare esclusi. A ben vedere, questo meccanismo potrebbe rivelarsi ancora più dirompente nel caso della proprietà intellettuale. Coloro che sono esclusi dalla proprietà di un mezzo di produzione tangibile hanno la possibilità, se tale mezzo è riproducibile (v. Battistini, 2002), di sfruttare le loro capacità con altri mezzi di produzione identici a quelli da cui sono stati esclusi. Ben diversa risulta la situazione degli individui esclusi dall'accesso a mezzi di produzione intellettuale che sono proprietà di altri. La proprietà privata della conoscenza è caratterizzata dal fatto che nessun altro può usufruirne senza l'autorizzazione del proprietario. Anche se coloro che ne sono esclusi, con un'inutile duplicazione di sforzi, riproducessero per conto loro un pezzo di conoscenza che è proprietà di altri, essi non potrebbero usufruire di questo mezzo di produzione senza il consenso dei proprietari (v. Merges e Nelson, 1990). In misura molto maggiore che per il capitale fisico, per il capitale intellettuale si può quindi determinare un circolo vizioso fra esclusione dalla proprietà intellettuale e assenza di incentivi ad acquisire competenze specifiche (v. Pagano e Rossi, 2004). Soltanto le imprese proprietarie di un certo software o di una certa sequenza genetica saranno incentivate a investire in competenze specifiche per la produzione di nuove versioni di quel software o in vaccini che richiedono l'impiego della conoscenza di quella sequenza genetica.
Il capitalismo degli inizi del XXI secolo vede un rafforzamento sia estensivo che intensivo dei diritti su tutti i mezzi di produzione scorporabili dagli esseri umani (v. Jossa, 2003): a una più efficace applicazione del diritto di proprietà a nuove forme di proprietà intellettuale si aggiunge il diritto di spostare i propri mezzi di produzione in ogni parte del globo. Questa libertà mette in difficoltà quei modelli di capitalismo fondati sulla limitazione delle libertà dei proprietari dei mezzi di produzione scorporabili dagli esseri umani e sulla corrispondente estensione dei diritti dei lavoratori. Per questi modelli di capitalismo diventa difficile limitare la libertà dei proprietari di capitale non umano in un mondo dove le loro risorse possono essere facilmente spostate in altri paesi. Il rafforzamento dei diritti sulle risorse scorporabili dagli essere umani segna, quindi, una rivincita del modello statunitense rispetto ai modelli di capitalismo che, soltanto dieci anni prima, sembravano metterlo in difficoltà.
7. L'altra faccia del nuovo capitalismo: sottosviluppo e anticommons
I nuovi meccanismi di accumulazione della ricchezza non hanno solo comportato una rivincita, anche se forse temporanea, del capitalismo americano su quelli tedesco e giapponese. Molti paesi in via di sviluppo, infatti, hanno vissuto l'emarginazione tipica del nuovo modello di capitalismo con conseguenze ben più drammatiche. La teoria del catch-up, basata sull'ipotesi che i paesi alla frontiera della conoscenza sostengono uno sforzo innovativo i cui benefici sarebbero gratuitamente acquisiti dagli altri paesi, è stata smentita dalla privatizzazione del capitale intellettuale. I paesi del Terzo Mondo si sono trovati sempre più lontani dai sogni di un facile catch-up e sempre più esposti a un possibile circolo vizioso fra assenza di diritti intellettuali e assenza di capitale umano che li potrebbe intrappolare in una situazione di crescente svantaggio (v. Chang, 2002). Qualche volta i paesi più poveri hanno persino visto i paesi avanzati brevettare i loro saperi tradizionali ed espropriare con scarsa legittimità le loro conoscenze.
Tuttavia, l'estensione della sfera privata delle conoscenze determina difficoltà e contraddizioni anche all'interno del sistema capitalistico statunitense, in cui emerge una crescente coscienza di una possibile 'tragedia degli anticommons'. La tradizionale 'tragedia dei commons' riguarda situazioni in cui l'esistenza di diritti comuni e l'assenza di diritti di proprietà privata determinano la sottovalutazione dei costi imposti da ogni agente su tutti gli altri proprietari della risorsa comune. Nella tragedia degli anticommons è invece l'eccessiva frammentazione della proprietà privata di input complementari a permettere a ogni agente di imporre elevati costi ai detentori delle altre risorse (v. Heller ed Eisenberg, 1998). Non è un caso che questa teoria sia emersa nella letteratura sui diritti di proprietà intellettuale soprattutto in riferimento alle biotecnologie, in cui lo sviluppo di un vaccino può richiedere l'uso simultaneo di numerosi brevetti. D'altra parte, il fatto che la tesi dell'inefficienza della frammentazione dei diritti di proprietà su beni complementari sia stato usato dalla Microsoft per difendersi dalle autorità antitrust statunitensi (che ne volevano la divisione in due società, una che fosse proprietaria del sistema operativo e l'altra delle applicazioni, come Office) mostra come, sull'altro versante, una volta superata la frammentazione dei diritti di proprietà, si possa correre il rischio di una monopolizzazione dei mercati. In generale, le imprese che già detengono un ampio portafoglio di diritti di proprietà intellettuale dispongono di un maggior potere contrattuale nelle negoziazioni con i soggetti proprietari di altri frammenti dispersi di proprietà intellettuale, e la loro maggiore capacità di superare la tragedia degli anticommons provoca una tendenza alla concentrazione della proprietà della conoscenza (v. Kingston, 2001).
8. Paesi scandinavi e capitalismo italiano
In questo articolo abbiamo ritenuto opportuno limitare l'analisi dei modelli di capitalismo al confronto fra le principali economie capitalistiche. Tuttavia, non possiamo evitare di fare alcune considerazioni sui paesi scandinavi e sull'Italia.
Il caso dei paesi scandinavi è particolarmente interessante perché mostra come sia possibile conciliare (per lo meno in economie relativamente piccole, caratterizzate da una forte coesione sociale e da una politica attiva d'intervento dello Stato sul mercato del lavoro) le nuove tecnologie e le altre caratteristiche di un'economia moderna con politiche di ridistribuzione della ricchezza e di protezione sociale. Una politica attiva da parte dello Stato può permettere di sviluppare un'economia che concili apprendimento top-down e apprendimento bottom-up, grazie alla continua ridefinizione del contenuto delle mansioni e grazie anche a una continua formazione professionale di lavoratori che già partono con un elevato grado di istruzione. Solidarietà sociale e apprendimento professionale possono essere complementari (v. Lundvall, 2002). La garanzia di poter trovare nuovi lavori dignitosi rende meno difficile abbandonare un'occupazione in cui spesso si è investito molto. In questo modo si facilita anche l'apprendimento di nuove conoscenze (spesso calate dall'alto durante il periodo di retraining), richieste dall'avanzamento del sapere scientifico e necessarie a una nuova traiettoria di 'bottom-up learning'.
Se si accetta l'ipotesi che la globalizzazione conduca i paesi a specializzarsi secondo quello che è il loro vantaggio istituzionale comparato, l'Italia costituisce un caso da manuale. Nel caso italiano è stato tradizionalmente assente (con poche eccezioni, fra cui Mediobanca) il coinvolgimento delle banche nel governo delle imprese, tipico dei modelli giapponese e tedesco (v. de Cecco e Ferri, 1996). Sono state, inoltre, assenti public companies come quelle statunitensi controllate da una borsa ben più trasparente di quella italiana (i recenti scandali verificatisi negli Stati Uniti hanno il duplice merito di essere visibili e di aver messo in crisi le società di revisione responsabili), da una stampa economica indipendente e da un'efficiente amministrazione della giustizia. Non è un caso che, fino alla fine degli anni ottanta, le grandi imprese del capitalismo italiano si siano trovate divise quasi in parti uguali fra imprese appartenenti alle grandi famiglie e imprese pubbliche (v. Barca, 1994). Nel sistema italiano, infatti, lo Stato ha in qualche modo supplito all'assenza di istituzioni, come le public companies americane o le banche tedesche, che permettessero la separazione fra proprietà e controllo nella sfera privata. Le privatizzazioni degli anni novanta hanno diminuito il peso del settore pubblico, ma non hanno cambiato i connotati qualitativi del capitalismo italiano (v. Pagano e Trento, 2003). Esso resta ancora oggi diviso fra un numero minore di imprese controllate dallo Stato (alcune, come ENI e Finmeccanica, trovano difficilmente imprese di pari efficienza e dimensione nel settore privato) e un numero di grandi imprese private che non sono ancora riuscite a darsi una forma di governo societario realmente diverso da quello familiare. Data la poco esaltante situazione in cui si trovano oggi le grandi imprese italiane, non sorprende che il capitalismo in questo paese trovi sempre di più il suo vantaggio istituzionale comparato nelle piccole e medie imprese, e soprattutto nelle istituzioni dei distretti (v. Brusco e Paba, 1997) che permettono loro di sfruttare un certo insieme di economie di scala. La recente crisi dell'industria automobilistica fa temere che la 'diversità italiana' diventi, in questo senso, più accentuata. La globalizzazione potrebbe portare l'Italia a specializzarsi in settori che non richiedono la presenza di grandi imprese e spingere quindi verso un processo di omogeneizzazione interna che avrebbe come esito un'economia interamente fondata sulle piccole imprese. Questa specializzazione potrebbe essere difesa sostenendo che essa è conforme ai principî del vantaggio comparato. Tuttavia, i vantaggi comparati istituzionali non sono assimilabili a quelli derivanti dalle dotazioni di risorse naturali. Anche se le azioni degli individui sono condizionate dal contesto istituzionale preesistente, quest'ultimo può essere cambiato dagli individui stessi. Si tratta a questo punto di capire se per l'Italia sia realmente conveniente svilupparsi secondo la traiettoria dettata dal suo vantaggio istituzionale comparato, oppure se, in un mondo in cui l'accumulazione di conoscenza diventa il paradigma più importante per il confronto fra paesi capitalistici, il nostro paese non debba fare uno sforzo per cambiare alcune delle proprie istituzioni economiche.
bibliografia
Allen, F., Gale, D., Comparing financial systems, Cambridge, Mass.: The MIT Press, 2000.
Aoki, M., Information, corporate governance, and institutional diversity, Oxford-New York: Oxford University Press, 2000.
Aoki, M., Towards a comparative institutional analysis, Cambridge, Mass.: The MIT Press, 2001.
Arthur, B., Competing technologies, increasing returns, and lock-in by historical events, in "The economic journal", 1989, IC, pp. 116-131.
Backhaus, J. G., Company board representation, in The Elgar companion of law and economics (a cura di J. G. Backhaus), Cheltenham: Edward Elgar, 1999, pp. 155-167.
Barca, F., Imprese in cerca di padrone. Proprietà e controllo nel capitalismo italiano, Roma-Bari: Laterza, 1994.
Barca, F. e altri, The divergence of the Italian and Japanese corporate governance models: the role of institutional shocks, in "Economic systems", 1999, XXIII, 1, pp. 35-60.
Battistini, A., Competizione tra organizzazioni, specificità degli investimenti ed efficienza degli assetti istituzionali, in "Economia politica", 2002, III, pp. 333-350.
Berle, A., Means, G., The modern corporation and private property, New York: Commerce Clearing House, 1932 (tr. it.: Società per azioni e proprietà privata, Torino: Einaudi, 1996).
Boyer, R., The diversity and future of capitalisms: a regulationist analysis, in Capitalism in evolution (a cura di G. Hodgson, M. Itoh e N. Yoyokawa), Cheltenham: Edward Elgar, 2001, pp. 100-124.
Braverman, H., Labour and monopoly capital, New York: Monthly Review Press, 1974.
Brusco, S., Paba, S., Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni '90, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi (a cura di F. Barca), Roma: Donzelli, 1997, pp. 256-334.
Brynjolfsson, E., Information assets, technology and organization, in "Management science", 1994, XL, 12, pp. 1645-1662.
Cecco, M. de, Ferri, G., Le Banche d'affari in Italia, Bologna: Il Mulino, 1996.
Chang, H.-J., Kicking away the ladder. Development strategy in historical perspective, London: Anthem Press, 2002.
Colangelo, G., C'era una volta in America. Gli insegnamenti presunti e i fallimenti reali dell'affare Enron, in "Mercato, concorrenza, regole", 2002, V, 3, pp. 455-466.
D'Antoni, M., Pagano, U., National cultures and social protection as alternative insurance devices, in "Structural change and economic dynamics", 2002, XIII, pp. 367-386.
David, P. A., Intellectual property institutions and the panda's thumb: patents, copyrights, and trade secrets in economic theory and history, in Global dimensions of intellectual property rights in science and technology (a cura di M. B. Wallerstein, M. E. Mogee e R. A. Schoen), Washington: National Research Council, 1993, pp. 256-283.
De Long, J. B., Did J. P. Morgan's men add value? An econonomist's perspective on financial capitalism, in Inside the business enterprise (a cura di P. Temin), Chicago: The University of Chicago Press, 1991, pp. 205-250.
Dosi, G., Fagiolo, G., Marengo, L., On the dynamics of cognition and actions: an assessment of some models of learning and evolution, in The evolution of economic diversity (a cura di A. Nicita e U. Pagano), London: Routledge, 2001, pp. 164-196.
Franks, J., Mayer, C. P., Takeovers. Capital markets and corporate control: a study of France, Germany and the U. K., in "Economic policy: a European forum", 1990, n. 10, pp. 189-231.
Gallini, N. T., The economics of patents. Lessons from recent U. S. reform, in "The journal of economic perspectives", 2002, XVI, 2, pp. 131-154.
Gellner, E., Il mito della nazione e quello delle classi, in Storia d'Europa, vol. I, L'Europa oggi (a cura di P. Anderson e altri), Torino: Einaudi, 1993, pp. 635-689.
Hall, P. A., Soskice, D. (a cura di), Varieties of capitalism, Oxford: Oxford University Press, 2001.
Hart, O., Firms, contracts and financial structure, Oxford: Clarendon Press, 1995 (tr. it.: Imprese, contratti e struttura finanziaria, Milano: Giuffrè, 1998).
Heller, M. A., Eisenberg, R. S., Can patents deter innovation? The anticommons in biomedical research, in "Science", 1998, CCLXXX, pp. 698-701.
Iwai, K., Persons, things, and corporations: the corporate personality controversy and comparative corporate governance, in "American journal of comparative law", 1999, XLVII, 4, pp. 583-632.
Jossa, B., Il futuro del capitalismo, Bologna: Il Mulino, 2003.
Kingston, W., Innovation needs patents reform, in "Research policy", 2001, XXX, 3, pp. 403-423.
Lundvall, B., Innovation, growth and social coesion. The Daninsh model, Cheltenham: Edward Elgar, 2002.
Merges, R., Nelson, R., On the complex economics of patent scope, "Columbia law review", 1990, XC, 4, pp. 839-916.
Pagano, U., Property rights, asset specificity, and the division of labour under alternative capitalist relations, in "Cambridge journal of economics", 1991, XV, 3, pp. 315-342.
Pagano, U., Public markets, private orderings and corporate governance, in "International review of law and economics", 2000, XX, 4, pp. 453-477.
Pagano, U., Information technology and the biodiversity of capitalism, in Capitalism in evolution (a cura di G. Hodgson, M. Itoh e N. Yoyokawa), Cheltenham: Edward Elgar, 2001, pp. 83-99.
Pagano, U., Rossi, M. A., Incomplete contracts, intellectual property and institutional complementarities, in "European journal of law and economics", 2004, XVIII, pp. 55-76.
Pagano, U., Rowthorn, R., Ownership, technology and institutional stability, in "Structural change and economic dynamics", 1994, V, 2, pp. 221-243.
Pagano, U., Trento, S., Continuity and change in Italian corporate governance. The institutional stability of one variety of capitalism, in The Italian economy at the dawn of the XXI century (a cura di M. Di Matteo e P. Piacentini), Aldershot: Ashgate, 2003, pp. 177-211.
Polanyi, M., Personal knowledge: towards a post-critical philosophy, London: Routledge and Kegan Paul, 1958 (tr. it.: La conoscenza personale: verso una filosofia post-critica, Milano: Rusconi, 1990).
Prosperetti, L. (a cura di), La new economy: aspetti analitici e implicazioni di politica economica, Bologna: Il Mulino, 2002.
Soete, L., The challenges and the potential of the knowledge-based economy in a globalised word, in The new knowledge economy in Europe (a cura di M. J. Rodrigues), Cheltenham: Edward Elgar, 2002, pp. 28-53.
Turner, A., Just capital. The liberal economy, London: Macmillan, 2001 (tr. it.: Just capital: critica del capitalismo globale, Roma-Bari: Laterza, 2002).
Williamson, O. E., The economic institutions of capitalism, New York: The Free Press, 1985 (tr. it.: Le istituzioni economiche del capitalismo, Milano: Angeli, 1987).