Mercato planetario e diritto
Rivoluzione tecnologica e globalizzazione
In queste pagine si vuole cercare di chiarire quale sia il diritto della globalizzazione, quale sia il rapporto tra l’affermazione planetaria dell’economia di mercato e il diritto, e cioè se – e in caso affermativo in che senso, in che modo e in quale misura – il complesso fenomeno della globalizzazione, o mondializzazione, abbia inciso o modificato o influenzato (o comunque se prima o poi finirà per influenzare) il diritto e se, per contro, in che senso, in che modo e in quale misura, il diritto possa governare, ordinare, o almeno orientare la globalizzazione, conferendole forma e certezza. Appare indispensabile, innanzitutto, chiarire che si vuole fare riferimento non già a qualsiasi forma di internazionalità, oppure a qualsiasi fenomeno di internazionalizzazione o ad aspetti di globalizzazione in senso lato e generico, di cui si hanno continui esempi nella storia. Se si considera il fenomeno della globalizzazione nella sua accezione generica, cioè in senso molto lato come processo di espansione o di conquista di nuovi territori o di integrazione economica o sociale tra le genti, allora bisogna affermare che esso non è tipico del nostro tempo, ma è viceversa risalente addirittura agli albori della civiltà. Tutti i popoli sono stati nomadi prima di diventare stanziali, e le grandi, continue, faticose migrazioni delle tribù e degli eserciti da un luogo all’altro della Terra, le incessanti, tumultuose ondate delle invasioni dei popoli ‘barbari’ hanno prodotto sì immani devastazioni e sofferenze di ogni genere, ma pure scambi fruttuosi, circolazione di merci e diffusione di conoscenza. Anche quando l’umanità si è stabilizzata sul territorio, convertendosi all’agricoltura, non è mai venuta meno l’aspirazione a evadere dai confini: l’Ulisse omerico per un verso e l’Ulisse dantesco per l’altro ne sono archetipi eloquenti. Basterebbe pensare ai primi passi della civiltà dell’Occidente, alla civiltà cretese e a quella dei Fenici, per apprezzare il dinamismo dei traffici avviati da quei popoli nell’intero bacino del Mediterraneo, o ai rapporti commerciali avviati dai Romani con i popoli dell’Oriente, o ai coraggiosi mercanti del Medioevo, che hanno unito con i loro traffici un’Europa frazionata in mille principati, per avvertire la costante ansia di superamento dei confini circoscritti da una catena di monti o dalle acque di un fiume o dal perimetro di un’isola o dalle mura di una città. Ed è appena il caso di aggiungere che queste migrazioni, questi spostamenti epocali di popoli e genti e questi scambi tra mercanti appartenenti a diverse etnie, e popolazioni, non sono avvenuti senza regole, al di fuori di ogni forma di diritto. È ben vero, dunque, come è stato sapientemente dimostrato, che la storia moderna, sotto molti aspetti, è storia di un crescente superamento dei limiti imposti dalla spazialità e dal localismo.
Questa lunga, multiforme e frastagliata avventura umana, tuttavia, non può essere confusa con la globalizzazione di cui stiamo parlando, e cioè con quella specifica figura di globalizzazione prodotta dall’affermazione planetaria dell’economia di mercato, poiché solo quest’ultima è figlia di fattori straordinari e specifici, di cui non si riscontrano precedenti omogenei nel passato. Il trionfo planetario del mercato appare dovuto essenzialmente a tre fattori.
Il primo è l’intrinseca efficienza dell’economia di mercato, nel senso che il modo di produzione capitalistico in un’economia libera ha mostrato di essere il meccanismo più efficiente di produzione e di circolazione della ricchezza. E questa efficienza si è rivelata tanto maggiore quanto più ampie sono le dimensioni dei mercati, quanto più libere le transazioni economiche e quanto più rapida la circolazione delle informazioni. Il secondo fattore è la contestuale bancarotta, per implosione, in una grande inefficienza burocratica, del modello socialista dell’economia (del cosiddetto socialismo reale) e cioè di un’economia nella quale la proprietà dei mezzi di produzione è statizzata e le decisioni economiche sono centralizzate. Il terzo fattore, infine, che ha accelerato il successo planetario dell’economia di mercato è la tecnica dell’ultima metà del 20° sec. o, meglio, la formidabile rivoluzione tecnologica degli ultimi trenta, quaranta anni. Si tratta di un fenomeno grandioso. Si pensi alla rivoluzione dei trasporti (dall’automobile all’aeroplano), che ha consentito di ridurre drasticamente la grandezza dell’intero pianeta, rendendo ogni sua parte relativamente vicina, se non addirittura a portata di mano. Si pensi poi alla rivoluzione dei mezzi dell’informazione, dei media in generale, e in particolare della radio, del telefono e della televisione, che ha consentito agli esseri umani di assistere tutti insieme, in tempo reale, allo stesso evento e soprattutto di acquisire in tempo reale le stesse informazioni scientifiche o economiche o finanziarie. Si pensi alla rivoluzione informatica (dal computer alle connessioni in network via etere), che non solo ha modificato il modo di scrivere e di comunicare, ma anche quello di vendere e di comprare, e soprattutto ha modificato il modo di conoscere e di pensare. Questa figura di globalizzazione, effetto diretto della rivoluzione tecnologica fin de siècle, per i suoi caratteri peculiari, per le sue cause e soprattutto per i suoi attributi di originalità, non può essere vista semplicemente come l’ultimo capitolo della lunga e tormentata storia della modernità.
Questa straordinaria e multiforme rivoluzione tecnologica ha investito pesantemente non solo l’economia reale (il modo di produzione della ricchezza materiale), ma ha impresso un poderoso impulso allo sviluppo della finanza e del capitale finanziario, con conseguenti ricadute sulla politica, sulla geopolitica, nonché, in ultima analisi, sulla società e sugli individui. I sociologi e gli economisti, in particolare, hanno offerto, dividendosi tra critici e apologeti, notevoli contributi di chiarificazione e di interpretazione di un fenomeno tanto poliedrico e tanto complesso.
I protagonisti dell’economia globale di mercato
I protagonisti, gli attori principali, di questa moderna forma di globalizzazione, che ha come teatro il mercato planetario, sono i mercanti. Ma non i piccoli commercianti, gli artigiani, i piccoli industriali, che operano nell’ambito dei mercati locali degli Stati, bensì le grandi imprese. I mercatores che agiscono oggi come protagonisti dell’economia mondializzata sono gli ipermercatores, sono gli Übermenschen (superuomini) dell’economia, una sorta di Überunternehmer (grandi imprese), che assumono la fisionomia delle public companies, delle grandi transnational corporations, delle società multinazionali. Società che sono multinazionali non solo nel senso che praticano il commercio internazionale di import-export, o perché hanno filiali, distributori, licenziatari sparsi per il mondo, ma nel senso, ben più incisivo e qualitativamente diverso, che le fasi dell’impresa, e cioè i diversi segmenti in cui si articola l’attività produttiva (dalla ricerca dei finanziamenti all’acquisto delle materie prime, dalla produzione vera e propria delle componenti del semilavorato all’assemblaggio, dal packaging del prodotto finito alla sua distribuzione sui mercati) non sono concentrati nel territorio di un unico Stato, ma sono dislocati in Stati diversi. L’imprenditore, nella sua doverosa ricerca di scelte convenienti, onde massimizzare i margini, e minimizzare le perdite, cercherà di collocare la sede centrale della sua impresa in un Paese dalla burocrazia efficiente e dalla moderata pressione tributaria, se non addirittura in un (relativo) paradiso fiscale. Farà in modo di trarre profitto dal basso costo della mano d’opera di un Paese del terzo mondo; comprerà le materie prime al miglior prezzo sul mercato internazionale; destinerà i propri guadagni alla remunerazione del capitale, oppure verso nuovi investimenti o verso la finanza internazionale; terrà conto dell’andamento della Borsa di Londra, di Francoforte o di Milano, come di quella di New York, di Tokyo o di Singapore. Sarà attento ai mutamenti del gusto dei consumatori e rapido nella riconversione della propria produzione industriale, e così via. Le comunicazioni da un capo all’altro del mondo avverranno nella lingua degli affari (l’inglese) e in tempo reale via e-mail, e i trasporti veloci, puntuali, efficienti consentiranno di ovviare alle difficoltà determinate dalle distanze e, soprattutto, di fare profitto nonostante o piuttosto grazie alla localizzazione dei vari segmenti dell’impresa in aree lontane. In altri termini, non si tratta di un mutamento puramente quantitativo, legato semplicemente alle accresciute dimensioni delle imprese che operano su larga scala, bensì di un modo nuovo di produzione e di scambio della ricchezza. Anche le professioni che offrono i loro servizi a queste imprese mondializzate hanno perduto il loro antico carattere di bottega paesana per acquistare una fisionomia globalizzata. Si pensi alle grandi firms (studi) legali, che offrono la prestazione delle proprie competenze professionali, avvalendosi di poderose organizzazioni e impiegando un’unica lingua comune, attraverso le proprie branches (filiali), in tutti i Paesi del mondo. E si pensi, come esempio tangibile e visibile di mondializzazione, alle arti, alla musica, alla pittura, che sono il più eloquente specchio della società in cui viviamo. Si pensi, per es., in particolare, all’architettura: anche l’architettura della nostra epoca si è deterritorializzata. Essa ha abbandonato l’ossequio o almeno il rispetto del gusto, delle tecniche, delle tradizioni del luogo in cui va eretta la costruzione per abbracciare un’algida ricerca di allocazione razionale dello spazio. Ciò ha prodotto e produce soluzioni estetiche equivalenti in tutto il globo, con risultati che stridono con lo stile coltivato per secoli in un dato territorio.
Oltre lo Stato, oltre la legge
Guardando alla globalizzazione e ai suoi attori dall’angolo visuale del diritto (quello che interessa in questa sede) sembra potersi osservare che il contesto in cui la globalizzazione in senso stretto si è affermata – e si sta ancora sviluppando, allargandosi a macchia d’olio, con il tendenziale coinvolgimento pure delle imprese medio-grandi e persino di medie imprese – è quello di una crisi che ha investito molti aspetti fondamentali dell’impalcatura (di forme, di strumenti, di concetti, di presupposti, di punti di riferimento) che sino a ieri aveva sorretto l’universo giuridico e dato un quadro di certezze alla società e all’economia. La globalizzazione è espressione (e, al medesimo tempo, almeno in parte, causa) della crisi dei due principali protagonisti del ‘teatro giuridico’ moderno, e cioè dello Stato e della legge. Non è possibile qui ripercorrere le fasi di questo processo di sgretolamento. Basti notare che esso non ha colpito soltanto lo Stato sovrano, nazionale e territoriale, ma anche la principale espressione del suo potere, la legge formale. Nel senso che la crisi dello ius positum, del diritto scritto, e del suo modello estremo, il Codice, è, sotto molti aspetti, espressione della crisi dello Stato come monopolista della legge, come unico legislatore. La storia istituzionale di questi ultimi due secoli è storia del declino, lento, graduale, malinconico, del modello illuminista di legge e di Stato. Un declino a diverse velocità e a macchia di leopardo, con accelerazioni e rallentamenti, tra contraddizioni e incongruenze, ma nel suo complesso inesorabile. È su questo terreno di disgregazione giuridica, di sgretolamento delle forme, e di transizione, che nasce e si sviluppa il fenomeno di cui ci stiamo occupando.
Bisogna al riguardo osservare che un elemento ulteriore, e forse decisivo, che ha contribuito in maniera significativa a determinare la crisi dei due pilastri dell’ordine giuridico tradizionale (lo Stato sovrano e territoriale e la legge scritta), è da ricondurre proprio a quell’élan vital della borghesia produttiva che l’aveva creato e poi occupato. In netto contrasto con lo spirito quieto e distaccato della nobiltà agraria e pastorale, il demone della borghesia, e specialmente delle sue punte industriali e commerciali più produttive, più capaci e più forti, è quello dell’intrapresa, dell’avventura economica, che si concretizza nella passione per il rischio, nella continua ricerca dell’innovazione tecnica, nell’ambizione di conquistare sempre nuovi mercati, nella ricerca della novità e del profitto e, contemporaneamente, nella incessante fuga dallo spettro della crisi (anticamera, spesso, della bancarotta e del fallimento): è insomma lo spirito indomito di superamento dei limiti e dei confini.
La borghesia imprenditoriale, che fu determinante nella creazione del moderno Stato di diritto, e che seppe approfittare largamente della sua efficienza, si è ritrovata con addosso un abito troppo stretto, nel senso che le strutture giuridiche tradizionali sono apparse non più in grado di soddisfare quelle nuove esigenze e quelle nuove aspirazioni che la rivoluzione tecnologica di fine secolo ha saputo suscitare. Lo sviluppo poderoso dell’economia e del benessere, nonostante le guerre mondiali e le tensioni politiche e sociali del ‘secolo breve’, e soprattutto la rivoluzione tecnologica di cui si è detto, hanno alimentato la naturale ambizione dei grandi imprenditori di guadagnare al mercato territori sempre più ampi, andando ben oltre lo spazio, le frontiere, le strutture e la logica degli Stati tradizionali. Tale evasione, tale sconfinamento, tale superamento dello Stato a volte è stato motivato dalla ricerca da parte delle imprese di nuovi o più consistenti margini di profitto, altre volte soltanto dalla necessità di sopravvivere, di riuscire a reggere la concorrenza, di non essere estromessi dal mercato. In questo senso la globalizzazione, parto della rivoluzione tecnologica, è stata più una necessità dello sviluppo dell’economia che una generica o neutrale bulimia imprenditoriale.
Le strutture dello Stato tradizionale, dello Stato legislatore, sovrano, nazionale, territoriale, sono state certamente funzionali a un’economia legata al territorio, e ancora lo sono per quella microeconomia che si alimenta e si sviluppa in ambiti provinciali. E bisogna altresì notare, per inciso, che la piccola borghesia, i ceti meno fortunati o le classi lavoratrici o i gruppi sociali subalterni, si pongono ancora il traguardo di conquistare, attraverso i meccanismi della democrazia, posizioni di potere all’interno dello Stato. Un traguardo che appare in buona misura fuori tempo, se si pensa che ciò accade proprio mentre la borghesia produttiva più dinamica e innovativa guarda ben al di là dello Stato, e anzi è già oltre lo Stato. Le strutture statali, invero, dopo la rivoluzione della tecnica dell’ultima metà del secolo scorso, risultano ormai troppo strette, poco funzionali, e a volte addirittura incompatibili, a imprenditori che per scegliere dove avviare le proprie iniziative economiche e per decidere quando, quanto e come produrre, non guardano al territorio dello Stato cui appartengono, ma piuttosto all’orizzonte del mondo intero. Per gli imprenditori, ma soprattutto per gli ipermercatores, sono sempre meno tollerate le tipiche disfunzioni della macchina statale. Una burocrazia pachidermica, o magari corrotta, crea diseconomie intollerabili ed è, in definitiva, incompatibile con la necessità di scelte che devono essere tempestive per risultare efficaci. Alla stessa stregua, una procedura giudiziaria che si protrae per 10 o 15 o 20 anni è un fatto che viene recepito, molto semplicemente, non tanto come una carenza quanto come un vero e proprio vuoto sul piano dell’attuazione della giustizia, come un ostacolo che rende preferibile assumersi per intero il rischio (statisticamente quantificabile) di un inadempimento piuttosto che sopportare il costo di una lentezza processuale ‘biblica’.
Non si può negare che l’ordinamento di uno Stato o di un ente territoriale (una Regione, un Comune) possa ancora assolvere a una funzione utile, e forse insostituibile, in taluni settori limitati (per es., nel campo del diritto penale o in quello societario o amministrativo o tributario). Anzi, proprio in controtendenza con il fenomeno in esame, si assiste a un accresciuto bisogno delle persone di recuperare e rinsaldare il proprio rapporto con la comunità, con il territorio, con la Heimat da cui trae alimento, sicurezza, ragione di vita. È un fatto, però, che con la globalizzazione si assiste a un’ulteriore crescita della complessità del sistema, nel senso dell’affermazione di un piano economico e giuridico sovrastante quello degli Stati o, quanto meno, della coesistenza di più piani e di più dimensioni sul piano delle fonti normative: quello statale convive a un tempo con quello sopranazionale (Unione Europea, trattati internazionali ecc.) e con quello regionale (alle Regioni è stato attribuito il potere di produrre norme anche in materie tipiche del diritto privato), e ciascuna di queste dimensioni ormai coesiste e convive al di sotto di quella globale. Con l’avvento del mercato globale l’economia si dissocia dalla politica. La rappresentazione fichtiana e weberiana del diritto moderno come un ordinamento coercitivo, garantito dal monopolio della forza applicato dallo Stato sul territorio sul quale esercita la sua sovranità, e che «deve la sua legittimità alla ‘calcolabilità’ razionale e alla prevedibilità dei suoi atti» (Zolo 2005, p. 378), appare una sbiadita oleografia che non coglie la realtà del mercato globale. In questa nuova dimensione, più mobile, più fluida, o più liquida, «il diritto non assolve più alla funzione di rafforzamento delle aspettative degli attori giuridici: funziona come uno strumento composito e pragmatico di gestione dei rischi connessi a interazioni dominate dall’incertezza» (Bauman 1999; trad. it. 2006, p. 78). Lo Stato, per la sua storia, per i suoi strumenti, per la sua natura, è incapace di affrontare la dimensione dei ‘problemi globali’, nella quale i citoyens diventano, come voleva Adam Smith, «cittadini di nessun particolare Paese».
Il nuovo diritto dell’economia globalizzata
Dunque non sarebbe conclusivo affermare che il diritto specifico dell’economia globalizzata non potrebbe essere se non quello prodotto dai trattati internazionali. Questi trattati, in primo luogo, riguardano alcune materie molto circoscritte (la cambiale, la vendita internazionale di cose mobili, aspetti del diritto internazionale privato ecc.), e non posseggono alcuna ambizione di disciplinare la globalità; in secondo luogo, sono pur sempre espressione di un’attività riconducibile alla funzione propria degli Stati. Non esiste, invece, e forse non è neppure pensabile, un trattato internazionale che vincoli tutti i Paesi ad adottare un unico e nuovo ordinamento che abbracci l’intero universo del diritto. Un’idea del genere finirebbe per riprodurre, in scala esponenziale, la stessa grande illusione illuministica che aveva portato al Code e avrebbe in sé, sin dalla nascita, il germe della sua fatale dissoluzione. Un’utopia, oltretutto, che per essere realizzata presupporrebbe un’altra utopia, quella di un legislatore universale, che a sua volta non potrebbe non essere espressione di uno Stato planetario. Un nuovo diritto, magari consacrato in un supercodice, espressione di uno Stato mondiale, sarebbe un miraggio titanico che porterebbe con sé, moltiplicati in ragione geometrica, tutte quelle rigidità e tutti quei difetti che hanno determinato la crisi dello Stato moderno e sarebbe perciò, anch’esso, destinato inevitabilmente all’insuccesso.
D’altra parte il diritto della globalizzazione non è, e neppure potrà essere, quello di questo o quello Stato, magari il diritto imposto con la forza a tutti i Paesi da una superpotenza. Anche questa ipotesi, che porterebbe a una «concentrazione del potere in un organo nuovo e supremo che possa arrogarsi nei confronti dei singoli Stati lo stesso monopolio della legge e della forza che ha lo Stato nei confronti dei singoli individui» (N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, 1979, p. 80), appare più un’utopia che non un progetto di cui realisticamente si possano intravedere i contorni. La creazione di una nuova forma di sovranità globale e cioè, come è stato detto, di un «apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione» (M. Hardt, T. Negri, Impero, 2002, p. 14) che si facesse portatore di un diritto sovranazionale teso a «penetrare e a riconfigurare il diritto interno degli Stati-nazione» (p. 33), e destinato magari a ereditarne la sovranità, è una rappresentazione visionaria del futuro, la quale sembra costituire più un auspicio che non una visibile e attuale linea di tendenza. E comunque, qualora fosse realizzata, trattandosi pur sempre di un diritto statuale, di una nuova forma di diritto statuale, recherebbe con sé tutti i germi della dissoluzione di cui abbiamo parlato.
E d’altra parte, sul terreno delle negoziazioni, internazionali o transnazionali, del mercato mondializzato, anche l’ordinamento giuridico di appartenenza, il proprio codice civile, potrebbe non essere all’altezza delle necessità e anzi potrebbe pure essere di impaccio, costituire un intralcio, per la soluzione di conflitti tra imprenditori di diverse nazionalità. Se la forza economica delle parti è sostanzialmente equivalente, o non fortemente squilibrata, nessuna di loro riuscirà a imporre all’altra o alle altre le proprie regole, le norme del proprio Stato di appartenenza. L’ordinamento giuridico nazionale (la legge, la Costituzione, i codici, le leggi regionali) appare insomma funzionale alla composizione di controversie che nascono all’interno dello Stato da cui promana, ma non anche quando la fattispecie è espressione di economia globalizzata. Semmai, si può dire che un modo per recuperare alla mondializzazione il diritto statuale è quello riconducibile al fenomeno, non inconsueto, dello shopping degli ordinamenti giuridici. Le parti, non potendo o non volendo imporre l’una all’altra il proprio diritto nazionale, scelgono di comune accordo, attraverso un’apposita clausola contrattuale, l’ordinamento di un Paese terzo come diritto applicabile nel caso in cui sorga una controversia tra loro.
La tendenza prevalente, tuttavia, è quella di fare riferimento non a un sistema rigido e chiuso, come è inevitabilmente quello statuale, di qualunque Stato si tratti, bensì a forme più flessibili e aperte, in grado di fronteggiare situazioni nuove, non previste, sconosciute ai singoli ordinamenti nazionali e, dunque, di corrispondere più efficacemente alle esigenze di giustizia del caso concreto. I soggetti del mercato globale preferiscono adottare regole e principi che si sono sviluppati e poi gradualmente affermati nella prassi internazionale di un dato settore dell’economia. Si tratta di consuetudini, di prassi mercantili, di usi praticati in maniera generale e costante nel settore in questione. Tali consuetudini praticate dagli imprenditori possono anche attingere, in tutto o in parte, a questo o a quel diritto scritto (o magari, al contrario, possono essere state a un certo punto recepite da questo), ma sono autonome da qualsiasi diritto scritto e vengono applicate in quanto a loro viene riconosciuta dagli operatori una autorità ben più solida di quella che potrebbe possedere qualunque legge scritta transeunte e passeggera. Questo complesso di tradizioni mercantili viene normalmente denominato lex mercatoria, legge (non scritta, consuetudinaria) praticata dai mercatores, dagli operatori economici. In realtà, al di là di un nucleo comune (pacta sunt servanda, neminem laedere ecc.), esistono diverse leges mercatoriae, che governano i diversi campi dell’economia e che sono conosciute dagli esperti del settore e praticate da chi professionalmente vi opera. Per es. la lex mercatoria, le consuetudini e le pratiche mercantili degli appalti internazionali, che si trovano recepite nei testi FIDIC, (Fédération Internationale des Ingénieurs-Conseils) non coincidono con le prassi praticate nei trasporti marittimi o aerei internazionali, e così via.
È da notare che la dottrina più avvertita ha mostrato di essere ben consapevole della crisi che ha investito la forma Stato, le codificazioni nazionali, il diritto scritto dallo Stato sovrano e legislatore, e soprattutto delle esigenze poste perentoriamente dalla nuova economia transnazionale e mondializzata. Perciò ha cercato di contribuire, in modi diversi, a valorizzare queste nuove (antiche) fonti del diritto e a trovare nuove strade. Al riguardo basti pensare agli studiosi che hanno cercato di recepire in un elaborato unitario, le regole riguardanti il diritto del commercio internazionale (UNIDROIT, l’Institut international pour l’unification du droit privé), ovvero al gruppo di giuristi europei (SGECC, Study Group on a European Civil Code) che ha proposto dei principles, cioè un complesso di norme riguardanti il diritto dei contratti e il diritto patrimoniale in genere. Questi giuristi, dopo aver studiato le diverse soluzioni adottate dai codici o dalla giurisprudenza o dagli ordinamenti nazionali, di civil law come di common law, e analizzato i costs e i benefits delle diverse opzioni adottate dagli ordinamenti nazionali, hanno proposto alcune regole operazionali ritenute tecnicamente preferibili rispetto ad altre. Tali regole potranno essere adottate, in tutto o in parte, dagli operatori come disciplina della loro condotta negoziale o come criterio di composizione delle loro eventuali controversie.
Conciliazione e arbitrato delle controversie
Nell’economia globale si assiste non soltanto a un passaggio dal diritto scritto dei codici a normative di diversa provenienza, e in particolare a una sorta di resurrezione della consuetudine come fonte principale, o comunque non ancillare, di diritto, ma anche a un abbandono delle macchinose burocrazie giurisdizionali degli Stati nazionali, in favore di forme di giurisdizione più efficienti e più rapide. È un fatto che, ormai, le controversie più importanti che riguardano gli affari internazionali delle società multinazionali raramente finiscono davanti a un giudice togato. Esistono società, che operano su scala mondiale, specializzate in conciliazione (mediation), società cioè alle quali le parti affidano il compito di studiare il caso, di farne decantare gli aspetti più carichi di conflittualità, e di trovare una soluzione (in termini negoziali, tecnici o commerciali) che possa porre fine, in tempi brevi, alla loro controversia. Nel caso in cui questo tentativo dovesse fallire, o nel caso in cui le parti ritenessero opportuno di non avviarlo neppure, si aprirà la strada dell’arbitrato, dell’arbitration, e dunque la decisione sulle ragioni e sui torti sarà affidata, di comune accordo, a professionisti ai quali sarà attribuito dalle parti interessate il potere di pronunciare la determinazione arbitrale. L’arbitrato è una procedura congeniale a questo genere di controversie e soprattutto a questo genere di parti, per gli indubbi vantaggi che offre rispetto alla giustizia ordinaria. In primo luogo bisogna prendere in considerazione la figura degli arbitri, che vengono scelti (e non trovati) dalle parti in ragione delle loro personali qualità, e in particolare della loro competenza nella materia oggetto della controversia, in considerazione del loro indiscusso prestigio internazionale e della loro specchiata onestà professionale. L’arbitrato, inoltre, a differenza del processo ordinario, che è pubblico, è una procedura riservata, che consente alle parti di risolvere le loro divergenze in maniera silenziosa e discreta. Infine si tratta di una procedura (relativamente) rapida, senza le lungaggini e i tempi morti dei processi ordinari, che possono anche essere amministrati, se le parti lo desiderano, da apposite Camere arbitrali internazionali, che assicurano una gestione rapida e appropriata della procedura, calmierandone i costi. A volte agli arbitri è attribuito il potere di giudicare pro bono et aequo, cioè secondo equità. Il che significa che le parti, piuttosto che a una regola precostituita, scritta o consuetudinaria che sia, preferiscono affidarsi alla intuizione salomonica degli arbitri, al loro senso della giustizia, alla loro saggezza, frutto a un tempo di intelligenza giuridica, di sapienza tecnica, di cultura generale, di senso etico, di prudenza e di esperienza professionale.
Con l’avvento della globalizzazione e con la crisi delle forme giuridiche tradizionali, si assiste non solo a una rivalutazione su scala planetaria della consuetudine (la cenerentola delle fonti), ma anche a una rinascita del ceto dei giuristi che, sia come consiglieri dei mercatores sia come giudici delle loro controversie, sono tornati a essere, grazie al loro patrimonio sapienziale, a un tempo sacerdoti e creatori del diritto. Si assiste altresì a una formidabile rivincita del diritto civile dopo secoli di cattività statuale, a una riappropriazione da parte degli ipermercatores del diritto dei privati: quello ius privatorum che lo Stato, quanto meno nei Paesi di civil law, con il meccanismo della supremazia della legge formale e con il trionfo della codificazione, aveva espropriato ai privati e che ora, sul terreno dell’economia globale, in un certo senso, viene loro restituito. Nella ipermodernità del mercato globale si torna all’antico, si torna a quello ius civile, di cui sono eredi i sistemi di common law, che aveva consentito al diritto romano di governare per ben oltre un millennio una società globale e multietnica. Quello ius civile di cui ci parlava il sommo Pomponio: quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit (ciò che non è scritto, deve fondarsi soltanto sulla interpretazione dei prudenti [dei dottori]). A mano a mano che si afferma la società globale ci si lascia dietro alle spalle la rigida, ingessata legge formale e si procede verso il più duttile diritto sapienziale: dalla volontà del legislatore alla prudentia dei dottori.
Problemi irrisolti
Questa nuova realtà, che si sta affermando – sia pure tra contraddizioni, controtendenze e zone d’ombra – a livello planetario, e che molto sommariamente si è cercato di delineare, presenta non pochi aspetti critici o addirittura inquietanti, che occorre evidenziare.
a) Il primo aspetto da sottolineare è che il diritto esige, accanto alla bilancia, la spada. Nel senso che le regole, le determinazioni arbitrali, gli accordi, e così via, esigono di essere rispettati. La loro coercibilità – che lo Stato, magari più male che bene, comunque, assicura in una certa misura – nella dimensione globale costituisce un serio problema. L’unica sanzione realisticamente prospettabile è quella dell’ostracismo dal teatro degli affari del soggetto sleale o inadempiente. Si tratta di una sanzione grave e pesante da sopportare, che colpisce l’interesse vitale dell’impresa a restare sul mercato e che potrebbe essere temuta dall’inadempiente o dal trasgressore non meno di quella comminata da una qualsiasi Corte statale dopo un lustro di defatiganti e costose lungaggini giudiziarie. Resterebbe inesorabilmente, ancora una volta, alla competenza degli Stati il versante del diritto penale e dei provvedimenti cautelari.
b) Un secondo aspetto, rilevante per il diritto, che appare assai problematico nella prospettiva della economia globalizzata, è quello della tutela dei consumatori. Un mercato è in buona salute quando è fair non solo sul lato dell’ascissa, nella sua dimensione orizzontale, cioè quella relativa ai rapporti tra i competitors, ma anche nella sua dimensione, diciamo così, verticale, sul lato dell’ordinata, cioè attinente ai rapporti tra l’impresa e i suoi consumatori o i suoi utenti. Appare difficile immaginare un’efficace tutela dei consumatori e degli utenti al di sopra delle strutture dello Stato o di un’organizzazione territoriale.
c) Un altro aspetto problematico riguarda la tutela dei lavoratori. Lasciando in disparte le belle utopie (compresa quella famosa dell’unione universale dei lavoratori), appare difficile immaginare una valida tutela dei loro interessi al di fuori, o al di sopra, di una dinamica sindacale che si sviluppi all’interno di uno Stato o di un’organizzazione territoriale.
d) Ma l’aspetto problematico più grave della mondializzazione economica è che un’economia di mercato può sussistere, e continuare nel tempo a funzionare, solo se c’è un’autorità in grado di preservarla, di difenderla contro sé stessa. Occorre cioè che sulla scacchiera il gioco continui senza fermarsi mai, che i concorrenti si battano senza sosta in una partita senza fine, che non cessino di giocare e che nessuno riesca a estromettere tutti gli altri dalla scena. Il pericolo che incombe sul mercato consiste in quelle dinamiche di lotta selvaggia che conducono all’oligopolio e poi al monopolio e cioè a una situazione di dittatura economica che è l’esatto contrario del pluralismo imprenditoriale che caratterizza un mercato fiorente e vitale. Al mercato è indispensabile un’autorità che abbia il potere e i mezzi (la forza e il diritto) per rimuovere quegli ostacoli o quei condizionamenti che possano alterare il libero gioco della concorrenza. Non un’autorità che si faccia a sua volta imprenditore, che partecipi al gioco economico, ma un’autorità che lo guidi, e che sia arbitro attento e autorevole della competizione tra le imprese. In questa prospettiva di macroeconomia, di politica economica, la consuetudine, la prassi, la lex mercatoria, gli usi mercantili, e insomma le nuove, flessibili, duttili, efficienti fonti del diritto della economia globalizzata non risolvono tutti i problemi.
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