Mercatura e moneta
Sfruttamento delle saline, pesca e forse in misura minore navigazione tra l'Istria e la capitale Ravenna: queste le attività di base che reggono l'economia della fascia lagunare, stando almeno alla descrizione di Cassiodoro nel secolo VI (1). Le fonti tacciono poi fin verso la fine del secolo VIII; soltanto quando Ravenna cade in mano longobarda, alcuni isolati documenti attestano come anche il Dogado veneziano cominci a rivestire un ruolo di qualche importanza nelle relazioni commerciali.
Data la particolare posizione geografica, sono innanzitutto i prodotti lagunari a essere scambiati come merci con l'entroterra - in primo luogo il sale. Né potrebbe essere altrimenti, giacché il Dogado non possiede alcuna superficie adatta alla coltivazione di cereali, dei quali fa incetta nella pianura del Po, mentre l'Italia settentrionale dipende dalla costa per il rifornimento di sale. Queste attività, che senza dubbio esistevano già dai tempi di Cassiodoro e si svolgevano anche con i vicini Longobardi, si arricchiscono nella seconda metà del secolo VIII con il commercio marittimo. Ora i Veneziani si trovano a commerciare con l'Istria e la Dalmazia, le loro navi toccano regolarmente Ravenna e solcano l'Adriatico. E poiché Venezia è provincia dell'Impero bizantino, vengono naturalmente mantenuti i contatti con la capitale Costantinopoli, ciò che non impedisce tuttavia d'intrattenere rapporti con i Musulmani del Nordafrica. Si ha infine notizia della presenza di Veneziani nel bacino occidentale del Mediterraneo, in Spagna, nelle città della costa tirrenica e a Roma (2).
Le merci - menzionate nelle fonti più antiche - sono i tessuti pregiati, le sete, i filati d'oro, le pietre preziose, l'oro, l'argento, le spezie e altri beni di lusso.
Le informazioni intorno all'avvento veneziano nel commercio marittimo vanno di pari passo con quelle del tramonto di Siriani e Bizantini, fino ad allora dominatori dei traffici mediterranei: un fenomeno, quest'ultimo, che non ha ancora trovato una spiegazione soddisfacente. È indubbio che già all'inizio del secolo IX Venezia si trovasse in posizione favorevole nell'ambito dei flussi mediterranei, e altrettanto indubbio è che tale posizione privilegiata saprà mantenere per lungo tempo come una caratteristica propria: le merci pregiate, nerbo di quel commercio, si acquistavano a Bisanzio, là dove Venezia aveva un posto di rilievo in virtù dell'appartenenza all'Impero, o in Nordafrica. Finché Venezia giocò un ruolo preminente nel mercato mondiale, un principio fondamentale della sua politica commerciale fu probabilmente quello di utilizzare le rotte tanto su Costantinopoli quanto sull'Egitto compensandole reciprocamente. Il dibattuto problema del saldo commerciale dell'Occidente con Venezia da una parte, con Bisanzio e i territori arabi dall'altra, non ammette approcci troppo generali. Dopo il periodo buio dei secoli VII e VIII, nei secoli X e XI il ristagno dell'interscambio fra Levante e Ponente appare superato. Venivano da Bisanzio i prodotti di lusso, come le sete e le spezie, mentre quasi nulla di appetibile per il mercato bizantino aveva da offrire la produzione occidentale. Altro, invece, il tenore degli scambi con il mondo musulmano, al quale l'Occidente forniva schiavi, metalli e legname alimentando un'eccedenza attiva poi regolata con forniture di oro dall'Africa. Oro che, tuttavia, rifluiva a Costantinopoli in pagamento delle mercanzie offerte da quell'emporio. Ebbene, dal secolo XII al più tardi questo andamento muta radicalmente. Le esportazioni bizantine sono ora costituite in buona misura da prodotti agricoli; quanto alle spezie, sempre più massicciamente provengono da Baghdad, da Damasco, dalla Terrasanta e soprattutto da Alessandria. Al di là di ogni disordine politico, si realizza così una trasformazione nella struttura delle correnti di traffico mediterranee che cambia profondamente i rapporti di forza delle potenze che vi partecipano.
A questa trasformazione strutturale si accompagna l'ascesa di Venezia in seno al commercio internazionale che, dopo la crisi dei secoli VII e VIII, vive una fase di continua espansione nella quale i Veneziani hanno parte attiva. Dalla fine del secolo X lo sviluppo economico in Occidente si fa tanto pronunciato da poter essere definito quale autentica rivoluzione commerciale. Il fatto poi che per intendere i mercanti latini le fonti nominino convenzionalmente Veneziani e Amalfitani invita a ritenere che proprio costoro avessero la preponderanza in seno alla mercatura occidentale. V'erano certamente, accanto a essi, soprattutto mercanti ebrei, ma la loro importanza per l'Occidente è più difficilmente valutabile. A partire dall'ultimo quarto del secolo XI si evince dai documenti una più diffusa partecipazione all'attività mercantile della popolazione veneziana: Venezia aveva definitivamente imboccato la via che la porterà a diventare una metropoli commerciale.
I secoli fino all'anno Mille furono tutt'altro che un'epoca favorevole per le attività veneziane, così come risulta dai documenti del tardo secolo VIII. Per mare i Saraceni, in continente gli Ungari rappresentavano una minaccia sempre incombente sugli itinerari mercantili. Solo all'alba del secolo XI si apre un ciclo di generale progresso economico, che porterà con sé l'affermazione di Venezia; la rivoluzione commerciale che dall'anno Mille fino al 1300 impronterà lo sviluppo occidentale, parimenti getterà le basi della potenza commerciale veneziana.
Dopo che, con la pace di Aquisgrana dell'812, si fu concluso l'episodio della dominazione franca, il Dogado restò almeno teoricamente territorio soggetto all'autorità dell'imperatore bizantino. Per quanto sempre più marcatamente svincolata da Costantinopoli, fu da questa posizione - peraltro scarsamente attestata in sede documentale - che Venezia intraprese il proprio cammino nel Mediterraneo. D'altro canto, proprio l'aiuto continuativamente prestato dal doge a Bisanzio sotto forma di navi a partire dall'827 sta a dimostrare come già Venezia avesse assunto i connotati di potenza marinara non trascurabile. Lo stesso trafugamento delle spoglie di san Marco ad Alessandria, opera di mercanti veneziani, conferma che gli uomini della laguna commerciavano senza timore con gli Arabi, nemici dell'Impero bizantino, dai quali acquistavano prodotti di pregio recando loro legname e certamente anche metalli, ma soprattutto schiavi. Era la costa della Dalmazia il maggior serbatoio del mercato schiavistico veneziano e, vigendo l'interdizione al commercio di schiavi cristiani, è facile supporre che l'alternativa fosse il commercio di schiavi non battezzati (3). Sembra nondimeno che, a dispetto di innumerevoli richiami e giudizi, i mercanti di Venezia continuassero a offrire anche partite di merce cristiana.
Su chi prendesse parte a questi traffici transmediterranei nel secolo VIII, veniamo a sapere qualche cosa soltanto dal testamento del doge Giustiniano Particiaco rogato nell'829 (4). Questi, membro della famiglia che dall'inizio del secolo IX era alla guida del Dogado, deteneva ricche proprietà nelle isole, ma disponeva pure delle somme investite nelle commende marittime, fatto salvo il ritorno delle navi salpate per il viaggio ("laboratoriis solidis, si salva de navigatione reversa fuerit"). In totale il capitale così impiegato ammontava a 1200 libbre. Evidentemente l'investimento marittimo era consuetudine dei ceti superiori veneziani. Un'indicazione sulle forme di questa partecipazione la fornisce il patto stipulato da Lotario I con Venezia nell'84o, un articolo del quale si riferisce al capitale commerciale (De quibuslibet commendationibus [...> si quis aliquid dederit ad negotiandum). Prassi comune, il capitale - in qualsiasi forma - veniva affidato dall'investitore a un'altra persona affinché lo impiegasse commercialmente.
Per quanto l'importanza della flotta si fosse accresciuta, l'entità dei movimenti durante il secolo IX lascia appena intravedere il rigoglio venturo della mercatura veneziana a lunga gittata. Molto più immediati erano i contatti con i vicini adriatici e con la terraferma. I contrasti con gli Slavi sulla Narenta e le deportazioni schiavistiche sono i fattori caratterizzanti i rapporti con la sponda orientale dell'Adriatico. Una lega contro gli Slavi fu presumibilmente il motivo che indusse Venezia a concludere il primo patto, giunto fino a noi, con i sovrani del Regnum Italiae. In seguito all'accordo intercorso fra Lotario I e il doge Pietro Tradonico, gli abitanti del Dogado e quelli della fascia costiera dal Friuli alle Marche confermarono con giuramento una serie di disposizioni intese a organizzare le relazioni di confine (5). Vi si stabiliva che il commercio dovesse essere esercitato sul piede della piena parità, senza reciproci intralci; quanto al ripaticum (il diritto dovuto per l'approdo) e all'imposta sul transito, gli importi relativi vennero fissati in tariffe che si rifacevano a consuetudini consolidate. Che poi fosse regolamentato giuridicamente il diritto di pignoramento era nell'interesse stesso dei mercanti. Ma a svelare il lato oscuro del commercio veneziano, il traffico di schiavi per l'appunto, provvedono le molteplici disposizioni in difesa dei prigionieri e il divieto di creare eunuchi. Entrate in vigore queste norme, Lotario I provvide a confermare l'anno seguente (841) i possedimenti veneziani nel suo Regno sulla base dei principi sanciti dalla pace di Aquisgrana (6).
Il quadro degli scambi con l'Occidente poggiava ora, in virtù della recente regolamentazione, su di un fondamento giuridico che si dimostrò solido. I Veneziani non soltanto erano presenti nell'immediato entroterra fino al Friuli e lungo l'Adige, ma anche nella valle del Po, nel Mantovano e soprattutto a Pavia. Operando su quei mercati Venezia aveva però bisogno delle monete d'argento in uso nel mondo occidentale durante l'età carolingia sicché, per sostenere il proprio commercio, procedette a battere moneta: conii d'argento che, intonati al sistema monetario dei vicini paesi di terraferma e recando nel diritto il simbolo dell'imperatore d'Occidente, portavano nel rovescio l'iscrizione della zecca veneziana. Si trattava di monete esclusivamente destinate alla circolazione in continente giacché sul mare avevano corso la moneta d'oro bizantina o monete arabe. L'adozione dell'iscrizione imperiale nasceva senza dubbio dalla necessità di conformare nelle caratteristiche esteriori i propri conii a quelli abitualmente circolanti in Occidente, ciò che non implicava il riconoscimento della supremazia dell'imperatore. Le amichevoli relazioni con il Regnum Italiae indussero Ludovico II a confermare il patto con Venezia nell'856, nuovamente rinnovato nell'880 da Carlo III. Quest'ultima stesura ne ampliò la validità in terraferma fino a Padova, Ferrara e Monselice. Nello stesso anno apprendiamo che nell'ambito di una controversia religiosa il doge, facendo leva sul blocco commerciale, era in condizione di costringere il patriarca di Aquileia a mostrarsi conciliante verso il patriarca di Grado (7): il commercio come arma politica dunque, capace di influenzare il corso delle dispute dottrinali. Si comprende con ciò come il doge potesse tenere quattro banchi di vendita nel porto di Pilo per i quali non pagava alcuna tassa - caso esemplare del tenore dei rapporti con l'entroterra più prossimo. Approfittando della confusione regnante nell'Impero carolingio al tramonto, i Veneziani si assicurarono ulteriori privilegi per il futuro. Ebbe un immediato e positivo riflesso sull'andamento degli scambi il fatto che Berengario I nell'888 fissasse il ripaticum nella misura del quadragesimum, vale a dire il 2,5 per cento; e altri vantaggi portò l'esenzione d'imposta a favore dei proprii negociatores ducali ovviamente non tutto il movimento commerciale nel Regnum Italiae veniva assolto da mercanti liberi da gravezza. Da quanto s'è detto appare chiaro come nel secolo IX Venezia sapesse garantire i propri interessi più in Occidente che nel Mediterraneo.
Nell'ultimo quarto del secolo i Veneziani si preoccuparono di escludere dalla val Padana i principali concorrenti nel commercio fluviale. Fin dall'inizio del secolo VIII i Longobardi avevano fatto di Comacchio la loro principale base commerciale che, affacciata sul Po di Primaro, poteva reggere degnamente il confronto con Venezia. Passata sotto la mano feudale del papa, il doge Giovanni Partecipazio cercò di riscattare la città per consegnarla alla propria famiglia, ma il tentativo diplomatico fallì, e anzi nella circostanza suo fratello venne ferito a morte per mano del conte comacchiese minacciato. La campagna di guerra che ne seguì, contro Comacchio e Ravenna, non diede esito definitivo; solo nel 933, dopo un rinnovato saccheggio e la minaccia d'incendiare la città, l'antagonista comacchiese potrà dirsi definitivamente debellato (8). D'ora in poi Venezia non dovrà temere altro concorrente nell'alto Adriatico.
Il secolo X, segnato dalla persistente minaccia degli Ungari, significò per l'Occidente un periodo di profondo declino; Venezia tuttavia, grazie alla propria posizione insulare, fu quanto meno risparmiata da conflitti. Nonostante le fonti sul commercio all'ingrosso mediterraneo si presentino come sempre esigue, ci è ora possibile fare qualche affermazione su basi più sicure. Venezia era diventata l'intermediaria fra Bisanzio e l'Occidente: concreta manifestazione di questo suo ruolo era il via vai di legazioni straordinarie che di norma facevano tappa in laguna. Tutto ciò supponeva evidentemente collegamenti marittimi permanenti. Nel 960, con ogni probabilità su sollecitazione bizantina, venne fatta proibizione ai mercanti veneziani di portare corrispondenza dal Regnum Italiae, dalla Baviera o dalla Sassonia a Bisanzio (9); quei mercanti veneziani che a Costantinopoli - stando agli scritti di Liutprando da Cremona - formavano, accanto agli Amalfitani, la colonia più folta (1). Sempre nel 960 il commercio di schiavi fu interdetto del tutto, pure se rappresentava una delle principali fonti di entrata; il divieto - naturalmente vano - chiamava in causa la rete di scambi veneziana nel Mediterraneo: "Chiunque sia capitano [nauclerus> sulle nostre navi, non imbarcherà schiavi a bordo della sua nave né a Venezia né in Istria e neanche in Dalmazia". Vietati inoltre i traffici da Pola verso l'Adriatico e viceversa nonché i maneggi con mercanti ebrei o greci, il documento menzionava infine espressamente Benevento: anche qui la nuova norma avrebbe avuto efficacia giuridica.
Un altro documento, del 971, testimonia quanto Venezia si fosse data da fare fino ad allora sul versante del commercio con gli Arabi e contemporaneamente del palese rischio politico ad esso connesso (11). Forniture veneziane di armi e di legname per le costruzioni navali avevano portato a contrasti con Bisanzio, dietro le cui pressioni Venezia si degnò di garantire che per l'avvenire non avrebbe approvvigionato i Musulmani di metalli, armi, lance, scudi o spade né di legnami adatti alla cantieristica nautica. Nondimeno abbiamo notizia di diverse navi veneziane, con carichi di tal sorta, avvistate lungo le coste del Nordafrica.
Risale infine al 992 il primo accordo - pervenutoci in pessimo stato di conservazione - fra Venezia e la corte imperiale di Costantinopoli (12). Venezia si era lamentata perché l'importo dei diritti doganali esatti ad Abido, sui Dardanelli, era man mano cresciuto fino a toccare la somma di 30 nomismata. Oltre a motivi di natura fiscale, le ragioni dell'aumento vanno forse ricercate nel progressivo raffreddamento dei rapporti tra Venezia e l'Impero d'Oriente. Come che sia, il patto sanciva, in forma di privilegio concesso da Bisanzio, che in futuro i Veneziani contribuissero 2 nomismata appena per le importazioni e 15 per le esportazioni. Il testo non lascia dubbi sul fatto che si trattasse del ripristino di un antico diritto; e inoltre affidava gli affari veneziani al controllo di una particolare corte di giustizia. Per impedire che altri potessero usufruire di tali agevolazioni era comunque fatto divieto ai Veneziani di regolare lo sdoganamento di merci appartenenti a mercanti dell'Italia meridionale alle tariffe previste dalla convenzione stipulata. In compenso - ed è questo il nocciolo politico dell'accordo - Venezia si impegnava a prestare aiuti navali nel Mezzogiorno d'Italia.
La potenza di Venezia, accresciuta sotto la guida dei dogi della famiglia Candiano, si riverberava sull'Adriatico, nelle relazioni con le controparti commerciali di sempre. Già in epoca romana l'Istria era stata legata a Venezia, e anche successivamente aveva seguitato a essere per gli interessi veneziani un territorio di grande importanza in ragione soprattutto delle importazioni di legname e di generi di prima necessità, nonché come base d'appoggio per la navigazione adriatica. Ma intorno agli anni trenta del secolo X nacquero delle contese, le cui cause permangono alquanto oscure ma i cui esiti mettono in chiaro la portata raggiunta dall'attività mercantile marciana. Fu dapprima Capodistria a doversi sottomettere, assoggettandosi inoltre alla fornitura annuale di cento anfore di vino destinate ai dogi (13). Il tenore dei contrasti con la penisola istriana andava dal mancato rimborso di finanziamenti erogati da prestatori veneziani all'aumento unilaterale di dazi e di tasse, e perfino alla cattura di navi che innalzavano il vessillo di San Marco. Il doge poté ristabilire i propri privilegi e la sicurezza per gli imprenditori veneziani utilizzando lo strumento del blocco commerciale. La conferma della supremazia di Venezia obbligò il margravio d'Istria, i vescovi della penisola e i rappresentanti di Pola, Cittanova, Pirano, Muggia, Trieste e Caorle ad accettarne le condizioni (14). Tuttavia la completa normalizzazione dei rapporti nella regione era lungi dall'essere stata conseguita se già nel 976 si procedette a un nuovo accordo - anch'esso conservatoci - con Capodistria: la città non solo rinnovava le antiche obbligazioni, ma assicurava ai Veneziani la totale esenzione dai gravami fiscali ivi vigenti (15).
Le fonti tacciono del tutto sul commercio con il Regnum Italiae per la prima metà del secolo X e soltanto con Ottone I, a merito del quale va ascritta una rinnovata solidità dell'esercizio del potere, si perviene nuovamente a relazioni documentabili. Nel dicembre del 967, pur confermando i patti trascorsi, l'imperatore si rifiutò di sottoscrivere la serie dei privilegi che Venezia era riuscita ad accaparrarsi negli ultimi decenni (16). Ciò nonostante la ratifica delle convenzioni rappresentò per Venezia un grande successo. I rapporti peggiorarono sotto Ottone II, che per parte sua preparava la completa sottomissione dello Stato lagunare. Ma dopo la sconfitta patita da parte dei Saraceni, nel 983 l'imperatore era pronto a rinnovare gli accordi. Per i mercanti veneziani l'importante era l'estensione dell'efficacia delle disposizioni intorno ai loro traffici a tutti i territori del Regnum Italiae, superando la precedente limitazione che la circoscriveva alle sole regioni confinanti con il Dogado. E di rilievo capitale fu poi il divieto opposto all'appropriazione dei relitti giunti fino a riva, secolare fòmite di dissidi. Vennero infine introdotte pene specifiche per chi causasse tumulti sulle piazze di mercato. Dal confronto con un imperatore mostratosi fino a quel momento tanto ostile, Venezia era uscita brillantemente salvaguardando al meglio i propri interessi. Furono tuttavia le interne inquietudini di Venezia medesima a provocare un repentino cambiamento dello scenario: Ottone II stabilì il blocco commerciale contro il territorio lagunare ma non riuscì a coglierne i frutti perché ne fu impedito dalla morte. Un evento, quello del blocco, che ben dimostra come all'epoca Venezia dipendesse in gran parte dagli approvvigionamenti dall'entroterra.
Regnando Ottone III, alcuni vescovi confinanti continuarono la lotta, ma la stessa corte imperiale era disposta alla pace tanto che nel 992 si giunse a una ulteriore conferma dei patti. Contro i vescovi, Venezia agì sottoponendoli al blocco del sale - una chiara dimostrazione del già operante monopolio nel settore. Gli allevamenti deperirono per carenza alimentare e i vescovi si videro costretti alla trattativa. Allora Venezia era innanzitutto preoccupata di conferire stabilità ai propri affari in terraferma. Nel 996 Ottone III acconsentì a che venissero costruiti tre porti a San Michele al Quarto e sul Piave; l'anno seguente il doge rilevò dal vescovo di Ceneda la concessione su metà del porto di Settimo sulla Livenza per venticinque anni. L'accordo fu poi rinnovato nel 1001 e la costruzione delle stazioni fluviali venne ultimata (17); Venezia ottenne inoltre la totale franchigia sul sale ducale fino alla quota di venti moggia per ciascun punto di vendita a Villanova sulla Livenza.
Fondamentale per la delineantesi politica commerciale veneziana nella terraferma veneta fu il contratto concluso dal doge Pietro II Orseolo con il vescovo Rozone di Treviso nell'anno 1000 (18). Non solo Treviso comunicava direttamente con la laguna attraverso il Sile, ma qui confluivano alcune strade importanti. Crocevia commerciale, Venezia vi ottenne la partecipazione al porto cittadino: contro il pagamento di un canone annuo in monete d'oro bizantine ovvero monete d'argento occidentali, al doge era riconosciuto un terzo del gettito proveniente dal dazio e dalle tasse fluviali. I Veneziani potevano piazzare i propri banchi di fronte a quelli dei Trevigiani concorrendo fino a un terzo del numero complessivo dei punti di vendita. Circolazione, approdi e partenze erano liberi fin tanto che avvenissero per ragioni di mercato. In merito alla presenza veneziana a Treviso disponiamo del rendiconto di un gastaldo ducale, cui era tra l'altro affidata la sovranità fiscale sui mercanti soggetti al suo controllo. I Veneziani erano tenuti alla contribuzione del quadragesimum (2,5 per cento) sul sale, libero invece il doge di farne venire in regime di piena esenzione trecento moggia l'anno. Il vescovo di Treviso - che tratteneva per sé le quote saldate dai mercanti germanici, qui menzionati per la prima volta in veste di "partners" commerciali dei Veneziani - prometteva di tutelare i cittadini di San Marco presenti sulla piazza, mentre il doge si impegnava a non decretare l'embargo commerciale salvo che l'intera giurisdizione trevigiana venisse attaccata. Nel complesso il documento delinea un quadro attendibile dei rapporti commerciali di Venezia con l'entroterra negli anni intorno al Mille.
Con la diminuita pressione della corsa saracena s'incamminò nel secolo XI l'espansione veneziana in tutto il bacino del Mediterraneo. In forza del privilegio del 992 Venezia era adeguatamente attrezzata per il commercio con l'Impero bizantino, cui si affiancavano gli scambi con l'Egitto. Qui, infatti, le spezie d'Oriente alimentavano un mercato senza dubbio meno gravato dagli oneri finanziari. Cogliamo in tutta pienezza il peso internazionale ormai raggiunto dai traffici marittimi veneziani da una relazione del 1017 di Thietmar von Merseburg, ove è riportata la notizia del naufragio di quattro grandi navi veneziane cariche di spezie (19). Evidentemente le conseguenze del disastro si risentivano fin nella Germania settentrionale.
Se fino al cadere del primo millennio è giocoforza accontentarsi di fonti indirette, dal secolo XI i documenti di commercio iniziano a essere tramandati mettendoci in grado di porre qualche punto fermo riguardo all'organizzazione della vita commerciale di Venezia. Notiamo in primo luogo che quasi ogni carta è stata redatta a Rialto; Torcello, che nella prima fase dello sviluppo veneziano era stato il porto principale, deve ora cedere il passo al nuovo centro realtino. Le forme assunte dai rapporti commerciali sono molteplici. Già un documento del 976 riguardante Waldrada, la vedova del doge, enumera tra i di lei beni "collegantia, rogadia, commendatione, prestito atque negociis" (20). Questo elenco, sempre formalmente riprodotto nei rogiti ove si trattasse di dividere un patrimonio, indica tutte le possibili varianti del contratto commerciale al di fuori dell'ambito della famiglia; d'altronde le fonti documentali del secolo XI lasciano chiaramente intendere il ruolo centrale dei legami familiari in funzione economica: basti pensare a quell'autentica impresa permanente rappresentata dalla fraterna compagnia - unione di fratelli fondata soprattutto allo scopo di assicurare la gestione in comune e continuativa dell'eredità paterna - divenuta un caposaldo del commercio veneziano.
Accanto all'impresa familiare esisteva poi a Venezia la colleganza, primario istituto societario detto commenda nelle altre città marinare. Molto si è discusso sulle possibili origini di tal forma contrattuale e su forme ad essa parallele, senza tuttavia giungere a conclusioni definitive. La più antica carta pervenutaci nella quale è menzionata la colleganza risale al 1073, ma già a partire dal secolo X la sappiamo costantemente presente nelle formule usuali contenute nei documenti. Nel secolo XI la colleganza consisteva in un contratto stipulato fra un socio investitore (socius stans) e un socio percettore (socius procertans), che partecipavano alla costituzione di un capitale volto al finanziamento di imprese commerciali, il primo per i tre quarti e il secondo per un quarto. Entrambi si accollavano il rischio delle eventuali perdite, il cosiddetto periculum maris et gentis, in proporzione alla quota investita e con lo stesso criterio veniva ripartito il guadagno, calcolato al rientro della spedizione. La colleganza si rivelò uno strumento assai flessibile, capace di attagliarsi alle più diverse esigenze. Era senz'altro possibile, ma non necessario, nominare nel testo contrattuale il porto di destinazione; d'altro canto la durata del vincolo fra i soci era suscettibile di estendersi nel tempo e non solo a un singolo viaggio. Riflessi ragguardevoli ebbe la colleganza sull'assetto medesimo della società veneziana. Un mercante poteva suddividere il capitale da investire partecipando a colleganze diverse, con navi e rotte diverse, e accettare egli stesso somme altrui per finanziare viaggi in proprio. A chi preferiva non spingersi fuori del Dogado era egualmente consentito di impiegare il proprio denaro nel commercio, e fu questa una delle condizioni affinché il contrasto sempre latente fra proprietari terrieri e mercanti non volgesse mai in antagonismo politico. In questo modo anche singole famiglie potevano radunare il loro capitale facendolo fruttare sul mare. Insomma, la colleganza era un istituto che si prestava a tutte le soluzioni e divenne perciò, accanto alla fraterna compagnia, la forma più frequentata dell'investimento commerciale marittimo.
Strettamente imparentato con la colleganza era un'altro genere di contratto chiamato a Venezia commendatio, tanto imparentato che da più parti si è potuto definire l'una e l'altro quali varianti della commenda. Con la commendatio il socius stans metteva a disposizione il capitale per intero riservandosi i tre quarti del guadagno. Questa forma contrattuale, che nel tardo secolo XII avrebbe completamente sostituito la colleganza, nell'XI era ancora marginale. Il vantaggio che essa offriva era di rendere più semplice al mutuatario che aveva condotto la spedizione la liquidazione di quanto dovuto al mutuante, senza dover calcolare gli importi a saldo di molteplici investitori. Di più, la commendatio era il tipo di patto societario meglio rispondente al caso in cui l'affare fosse finanziato e regolato da merci e non già in denaro. Ma questo tipo di investimento in commenda, usualmente praticato a Genova, a Venezia restava confinato al campo delle eccezioni, ciò che spiega perché ci siano noti i mercanti veneziani ma non - almeno in linea generale - le mercanzie da essi trattate.
Le fonti giuridiche veneziane fanno costante menzione della rogadìa quale istituto commerciale, la cui forma resta tuttavia oscura giacché la stipula avveniva per lo più oralmente. Certamente si trattava di un contratto di commissione secondo il quale trasporto e commercializzazione delle merci venivano effettuati contro il pagamento di un tariffa.
Già nei documenti commerciali più antichi, accanto alla colleganza compare il prestito marittimo (prestitum maris). Derivante dal diritto romano, esso trasferiva interamente sul prestatore l'onere della perdita eventuale ma fruttava - in ciò risiede la differenza rispetto alla colleganza - un utile percentuale fisso; erogato per il singolo viaggio, consentiva di lucrare fino al 50 per cento dell'investimento originario.
Se nel secolo XI il prestitum maris è solo una fra le molteplici destinazioni possibili del capitale di rischio, nella seconda metà del XII diventerà il tipo più frequentato di impiego nel commercio per mare.
S'affiancava infine a questi istituti specialmente intesi al finanziamento delle imprese marittime il mutuo comune (mutuum). Ancorché raramente finalizzato ai contratti marittimi, poteva comunque essere adottato allo scopo con un rendimento nell'ordine del 20 per cento stabilito dalla consuetudine giuridica veneziana. A fronte dell'esposizione venivano di solito presi in garanzia cauzionale saline o appezzamenti cittadini, precauzione che indica nel mutuo comune una forma di finanziamento affatto diversa dal prestitum maris, desunzione romanistica richiedente al prestatore l'accollo di ogni possibile rischio. Altra particolarità del secolo XI è poi il nolo per l'uso dell'ancora, definitivamente uscito di scena nel secolo seguente. Poiché la proprietà di un'ancora in ferro rappresentava una voce importante del patrimonio privato che non tutti i navigatori veneziani potevano permettersi, le ancore venivano per l'appunto noleggiate in cambio di un canone fisso, rappresentante il prestito. Era il beneficiario del credito ad assumersi di solito i rischi eventuali.
I documenti commerciali del secolo XI dimostrano che buona parte dell'interscambio marittimo veneziano gravitava sull'Impero bizantino. Che esistesse un regolare flusso di traffici con Costantinopoli non stupisce, data l'importanza della capitale come emporio; inoltre citate sono Durazzo - principale terminale adriatico di Bisanzio verso l'Europa, là dove finiva la via Egnatia -, Corinto e Tebe. Alla periferia dell'Impero, anche Antiochia è nominata, mentre i porti di Tripoli e Alessandria erano gli scali usuali in territorio musulmano. La Dalmazia pure figura come meta commerciale dei Veneziani. Tra le merci, a Costantinopoli si trattavano i tessuti e successivamente i formaggi, ad Alessandria, invece, l'allume, indispensabile alla produzione tessile.
L'espansione mercantile di Venezia, incessante lungo tutto il secolo XI, ottenne una definitiva sanzione giuridica quando Alessio I Comneno - l'eversore dell'ultimo dinasta orientale espresso dalla famiglia dei Ducas -, dinanzi alla pressione dei Normanni installati nell'Italia meridionale, si trovò nella necessità di negoziare un'alleanza difensiva (21). Allorché Roberto il Guiscardo lanciò l'attacco contro il primario nodo strategico di Durazzo, Venezia era la sola potenza a disporre di una flotta in grado di intervenire prendendolo alle spalle. In questi frangenti, forti del disperato bisogno di aiuto navale dei Bizantini, i Veneziani si assicurarono una serie di importanti privilegi che ne avrebbero rafforzato la presenza commerciale in tutto il territorio imperiale.
Non solo veniva conferito con piena titolarità al doge il rango di protosebastos e de-voluta alla Chiesa veneziana una ragguardevole somma annua in oro, ma la stessa basilica di San Marco avrebbe ricevuto ogni anno un contributo prelevato pro capite nella misura di tre nomismata dagli Amalfitani che tenessero bottega nell'Impero. Ma al di là di queste liberalità onorifiche, decisamente più sostanziali risultarono le agevolazioni commerciali. All'epoca già esisteva una colonia veneziana a Costantinopoli raggruppata intorno alla chiesa di San Acindino cui venne concesso il forno che sorgeva nei pressi; i Veneziani ottennero inoltre botteghe ottimamente situate sul Corno d'oro, un fondaco nonché tre scale di approdo. Prese così forma un insediamento stabile in posizione assai favorevole al centro della zona portuale. Anche al trove nell'Impero, a Durazzo, i Veneziani ricevettero un quartiere proprio, adiacente alla chiesa di Sant'Andrea. A Durazzo terminava l'itinerario che, attraverso la via Egnatia, collegava Costantinopoli alle sponde dell'Adriatico: pare dunque che Venezia utilizzasse lo scalo anche come punto d'appoggio per le flotte attive in quelle acque. Si ricorda, durante l'assedio messo da Roberto il Guiscardo, la difesa di una parte della città organizzata dai cittadini di San Marco ivi residenti.
Ma soprattutto ai Veneziani fu concesso di commerciare liberamente e in totale franchigia in numerosi centri dislocati un po' dappertutto nei territori imperiali. L'elenco di questi luoghi, da intendersi esclusivamente quale enumerazione delle stazioni di libero commercio, ci fornisce una mappa complessiva degli interessi veneziani nelle terre bizantine. Nel Nord della Siria, regione a quel tempo certamente già passata in mano musulmana, erano Laodicea e Antiochia, quest'ultima perduta all'Impero fin dal 1048; in Cilicia, che nel secolo XI ancora non rivestiva il ruolo economico poi raggiunto nel XIII, si trovavano Mamistra, Adana e Tarso; in Panfilia Satalia, sulla costa della Caria Strobilos e lungo il versante occidentale dell'Asia Minore Efeso, Chio e Focea. Efeso ben presto scivolò nell'anonimato, e mentre Focea era ancora in attesa di guadagnare in prestigio commerciale grazie alle più tarde - esportazioni di allume alla volta di Genova, Chio - universalmente nota per il proprio mastice - era importante scalo intermedio sulla rotta da Costantinopoli alla Siria. In Asia Minore, poi, i Veneziani erano liberi di fare affari senza essere gravati da alcuna tassa in una serie di città costiere e, d'altro canto, l'entroterra non attirava la loro attenzione.
Nella porzione europea dell'Impero l'elenco si apre con Durazzo, della quale abbiamo già avuto modo di apprezzare l'importanza. Seguono Valona, dirimpetto a Otranto, affacciata sul punto più stretto dell'Adriatico, e Corfù, da tempo scalo praticato lungo gli itinerari della navigazione veneziana. Una fertile regione, ricca di uliveti, trovava sbocco nei porti di Modone e di Corone, sul promontorio sud-occidentale del Peloponneso; ma ad accrescere la rilevanza di quelle stazioni concorreva il fatto che proprio qui si bipartivano le rotte navali, l'una verso l'Egeo e Costantinopoli, l'altra verso la costa siriana e Alessandria. Il porto di Nauplia serviva l'Argolide e la locale produzione agricola e alimentare, mentre Corinto, a guardia dell'istmo omonimo, era sito di grande valore strategico. I documenti esistenti attestano che anche Tebe, pur discosta dal mare, intratteneva rapporti commerciali con Venezia, i cui mercanti, soprattutto interessati ai prodotti dell'industria serica, si erano insediati nella zona imponendovi una supremazia che solo successivamente i Genovesi avrebbero provato a scalzare. L'Attica si proponeva ai flussi mercantili per mezzo del porto di Atene e Negroponte, in Eubea, costituiva una tappa del viaggio per Costantinopoli. Prima dell'affermazione commerciale di Halmyros, da Demetriade - al centro del golfo di Volo - si avviava l'esportazione tessalica. Percorrendo la via Egnatia si incontravano l'emporio ragguardevole di Tessalonica e le piazze minori di Crisopoli e Peritherion. La lista del privilegio menziona infine alcune località poste a corona di Costantinopoli, prima fra tutte Abido, sui Dardanelli, passaggio obbligato per le navi dirette alla capitale; insignificanti Rodosto, Eraclea, Apros e Selimbria; la città di Adrianopoli qualche richiamo dovette esercitare sui Veneziani, ma solamente per la propria dimensione metropolitana. In ultimo e sopra ogni altra sede commerciale, il privilegio di Alessio nomina Costantinopoli, cuore amministrativo ed economico dell'Impero. Si evince in tutta chiarezza dal documento l'estensione degli interessi veneziani in area bizantina, innanzitutto concentrati negli scali marittimi; e con altrettanta chiarezza si comprende, stante il numero dei porti citati, come il fulcro del commercio marciano vada individuato nella costa greca piuttosto che in quella dell'Asia Minore. Merita inoltre attenzione l'assenza dalla lista delle piazze privilegiate delle tre grandi zone di Creta, di Cipro e del mar Nero. Mentre permangono oscuri i motivi dell'esclusione delle due isole, riguardo al mar Nero le ragioni sono manifeste: lo scambio delle merci provenienti dall'Oriente doveva avvenire nella capitale e non disperdersi lungo le sponde di quel bacino donde invece giungevano gli approvvigionamenti indispensabili alla capitale - un traffico, quest'ultimo, che non aveva bisogno dei Veneziani. In ogni modo, il privilegio del 1082 sta alla base della penetrazione commerciale di Venezia nell'Impero. Facendo appello alla forza navale di San Marco in funzione antinormanna, Bisanzio aveva messo nelle mani degli uomini d'affari veneziani strumenti economici che nessun altro mercante attivo in terra imperiale possedeva. Erano i Veneziani a concludere le transazioni di maggiore entità, sempre più limitando il campo d'azione della concorrenza, specie di quella amalfitana.
Al principio del secolo XI Venezia aveva rafforzato le proprie posizioni anche in Dalmazia. La crociera effettuata nell'anno Mille da una flotta guidata personalmente dal doge Pietro II Orseolo a costeggiare la sponda orientale dell'Adriatico sortì l'esito dapprima di indurre le città istriane al riconoscimento della supremazia veneziana, quindi di sottomettere il litorale dalmata fino a Curzola. Non fu un successo di lunga durata, neppure sotto il profilo politico, ma mise in chiaro come Venezia reclamasse per sé il controllo sull'Istria e sulla Dalmazia, regioni commercialmente evolute nonché tradizionali serbatoi del mercato schiavistico veneziano (22).
Dopo la morte di Ottone III, che un rapporto d'amicizia legava al doge Pietro II Orseolo, subentrò una fase di arretramento nei rapporti con il Sacro Romano Impero. L'imperatore Enrico II rinnovò il patto con Venezia, ma non si interessò mai al Regnum Italiae (23). Ciò nonostante, possediamo notizie dell'epoca che rendono esplicita testimonianza dello sviluppo di relazioni commerciali stabili. Oltre agli scambi con i vicini più prossimi in terraferma - in primo piano il sale e beni primari -, un volume crescente di prodotti orientali di lusso s'indirizzava dalla laguna alla Padania. Un placito dei primi anni del secolo XI stabilisce che ai mercanti di Venezia sia consentito di vendere le loro costose sete esclusivamente a Pavia, capitale del Regnum Italiae, e alla fiera di Ferrara, la più prestigiosa dell'Italia settentrionale (24). Circa la posizione occupata dai Veneziani a Pavia, le Honorantiae civitatis Papiae - appunto risalenti all'inizio del secolo - recano preziose informazioni. Ospiti fissi della città e soggetti a gravezze assolte con prestazioni in natura, parte a favore dei vicari della Camera imperiale, parte in favore di un monastero locale, sono gli unici, insieme agli Amalfitani, a rifornire la piazza di mercanzie d'Oriente; e destinano i proventi delle vendite all'acquisto delle derrate alimentari che difettano alla scarsa produzione della striscia lagunare (25).
Ma regnando Corrado II il sistema dei rapporti commerciali con il Regnum Italiae rovinò completamente. Poppone, patriarca di Aquileia, combatteva contro Grado, sua rivale in questioni religiose, e dunque anche contro Venezia: fu nelle turbolenze e nelle vicissitudini belliche di questi tempi che finirono dissipati gli antichi principi di buon vicinato (26). Soltanto nel 1055 Enrico III rinnovò, nelle forme tradizionali, i patti con Venezia. Quantunque non si abbiano notizie di mercanti veneziani nel periodo contrastato della lotta per le investiture, va da sé che l'ambiziosa corrente di traffici marittimi con Bisanzio e con i territori musulmani esigeva uno sbocco occidentale per le merci condotte dal Levante. In occasione della conferma dei patti, Enrico IV introdusse nel 1095 una fondamentale clausola al passo riguardante il diritto di commercio. D'ora in poi sarebbe stata valida la disposizione seguente: "i soggetti del doge hanno il permesso di viaggiare per terra e sui fiumi di tutto l'Impero; allo stesso modo la nostra gente può andare per mare fino a voi, ma non oltre [per mare usque ad vos et non amplius>". Il diritto a commerciare reciprocamente, ma anche liberamente e illimitatamente, si trasformava così nel diritto di scarico, trasbordo e scalo esercitato da Venezia, limitando ai sudditi del Regnum Italiae - tenuti a esercitare autonomamente le proprie attività solo fino alla piazza realtina - l'adito diretto agli scambi nell'Adriatico: insomma, il commercio marittimo doveva restare prerogativa esclusiva dei Veneziani. Il testo dell'accordo accoglieva un principio lungi per il momento dal trovare esecuzione, ma che si sarebbe realizzato nei secoli XII e XIII.
Ora come in passato Venezia doveva rivolgersi alla terraferma, in primo luogo per sovvenire al proprio fabbisogno alimentare: una dipendenza resa manifesta dal trattato concluso nel 1099 dal doge con Imola (27). L'Emilia e la Romagna erano tradizionali zone cerealicole nonché produttrici di ogni sorta di generi alimentari; non per nulla i maggiori monasteri veneziani, primo fra tutti quello di San Giorgio Maggiore, possedevano terreni agricoli in quei luoghi. Venezia, che evidentemente si adoperava per attirare verso il proprio mercato le derrate che le erano indispensabili, riconobbe a Imola l'importazione esente da tasse di cereali, carne secca e vino, concedendole altresì la libera esportazione di qualsiasi merce acquistata in laguna e dei ricavi delle vendite effettuate. La penuria veneziana di beni di prima necessità non potrebbe essere meglio documentata.
Alla vigilia della prima Crociata - dalla quale i rapporti di forza nel mondo mediterraneo sarebbero usciti rivoluzionati - Venezia aveva già alle spalle un secolo di continua ascesa. Le attività mercantili si erano spostate decisamente dal commercio terrestre con il Regnum Italiae a quello marittimo: non solo i Veneziani godevano a Bisanzio di privilegi inimmaginabili per i mercanti delle altre nazionalità, ma vantavano inoltre legami di lunga data con i paesi islamici. Fu però con l'avvio dell'epopea crociata che si aprì per Venezia la fase della definitiva affermazione quale potenza commerciale europea.
Per la verità, la prima Crociata fu un'impresa che Venezia inizialmente non appoggiò, troppo rilevanti essendo i suoi interessi nell'Impero d'Oriente, il quale si trovava ora alle prese con l'arrivo imminente degli eserciti occidentali e soprattutto guardava con sospetto ai nemici di un tempo, i Normanni. Per di più i Fatimidi - padroni dell'Egitto e di una parte della Siria, i cui domini costituivano l'obiettivo della spedizione - rappresentavano, accanto ai Bizantini, la più importante controparte commerciale dei Veneziani. Venezia dunque temporeggiò finché fu sicura che la Crociata si sarebbe conclusa con un successo. Soltanto nel 1100 inviò una flotta per partecipare alla spartizione del bottino, tanto più che anche Genovesi e Pisani avevano fatto la loro comparsa sul teatro degli scontri (28). La forza navale veneziana, circa duecento navi, che si presentò davanti a Giaffa, fu un sostegno gradito ai crociati, e anzi Goffredo di Buglione strinse con essa un patto offensivo volto alla conquista di Haifa e poi di San Giovanni d'Acri e di Tripoli. La contropartita mostra chiaramente quale fosse lo scopo precipuo dell'intervento di Venezia: che le fossero assegnati un fondaco e una chiesa in ogni città sottratta ai Musulmani. Nella confusione che seguì all'improvvisa morte di Goffredo, pur con il felice esito dell'attacco ad Haifa, non si venne ad accordi, ulteriori. I Veneziani, lasciata una colonia nella città conquistata, presero la via del ritorno, né si parlò più delle pretese inizialmente accampate. I Genovesi invece si trattennero in Terrasanta, dove diedero manforte alle conquiste, culminate con la presa di San Giovanni d'Acri nel 1104., ottenendo in compenso una posizione di preminenza rispetto ai Veneziani. La colonia che questi ultimi avevano insediato ad Haifa si spostò a San Giovanni d'Acri senza: peraltro riuscire a crescere e a rafforzarsi. Nel 1100 un'altra squadra navale veneziana si presentò nelle acque della Terrasanta e fu artefice della sconfitta della flotta fatimide, ma solo dal 1119, in adesione alla richiesta di aiuto del re di Gerusalemme Baldovino II, si avviò una grande campagna militare. Nel 1122 il doge Domenico Michiel allestì una flotta che, forte di oltre cento navi, si fermò ad occupare Rodi e l'anno seguente giunse nella zona di operazioni. Ma Baldovino era nel frattempo caduto nelle mani dei Musulmani; fu perciò il patriarca Guarimondo, in rappresentanza del re prigioniero, a concludere un patto con i Veneziani (29). Due importanti centri, Tiro e Ascalona, erano ancora in possesso dei Fatimidi. Venezia risolse di mettere l'assedio a Tiro, ma avanzava richieste assai pesanti: un quartiere, una chiesa, uno stabilimento termale e un forno in ogni città del Regno di Gerusalemme, esenzione da qualsivoglia tassa o dazio, adozione delle proprie unità di misura nelle negoziazioni. Ancora, possedimenti a San Giovanni d'Acri e, una volta conquistata, un terzo della città di Tiro, dove ogni anno sarebbero state messe a disposizione di Venezia 300 monete d'oro provenienti dalla rendita reale; interdetta inoltre al sovrano la facoltà di diminuire a favore di altri le tasse vigenti senza il consenso dei Veneziani. In cambio alla Camera regia sarebbe andato un terzo degli utili ricavati da Venezia nel trasporto dei pellegrini. Quando, due anni più tardi, Baldovino II venne liberato e dovette confermare il patto, impose la cancellazione della clausola che gli precludeva di ridurre a piacimento le gravezze dei mercanti stranieri e pretese che i Veneziani si impegnassero nella difesa del Regno. Nondimeno, appare evidente come fossero le brame commerciali a motivare l'aiuto politico-militare di Venezia, che certo non aveva in Palestina lo stesso ruolo egemone raggiunto nell'Impero bizantino dopo il 1082, ma che, a far data dal 1123, va comunque annoverata fra le potenze commerciali operanti in quello scacchiere. Alla fine l'accanita resistenza di Tiro venne sopraffatta e la città espugnata; la flotta marciana poteva ora far rotta verso la madre-patria, né altra forza navale ed è un dato oltremodo significativo partecipò ancora a imprese crociate per tutto il corso del secolo XII: guadagnati privilegi mercantili e punti d'appoggio a Tiro e a San Giovanni d'Acri, l'interesse veneziano per l'avventura di Terrasanta si era dissolto. D'altronde per Venezia la Crociata era a tutti gli effetti un'operazione mercantile, e possibilmente di portata non troppo vasta, da compromettere l'economia degli scambi con Alessandria. Nel 1143 i Veneziani ottennero infine dal Principato di Antiochia il riconoscimento scritto delle proprie prerogative commerciali (30). Fermo restando lo ius naufragii, cosicché nessun cittadino di San Marco potesse venire incolpato di pirateria verso un suddito antiochiese, l'incidenza del prelievo fiscale sulla mercatura fu mantenuto entro i limiti in vigore al tempo della reggenza di Tancredi e, al fine di razionalizzare la riscossione dei dazi nel porto di Simeon, il carico di due asini venne equiparato a quello di un cammello; possedimenti veneziani ad Antiochia furono confermati il fondaco, le case che lo contornavano e l'annesso giardino. Rileviamo una volta di più, se ce ne fosse bisogno, la preponderanza delle ragioni economiche alla base della presenza di Venezia in Terrasanta.
La situazione attuale delle fonti non consente una valutazione esaustiva dell'interscambio presso le diverse stazioni veneziane nel Levante, tuttavia la menzióne del porto d'arrivo in molti documenti commerciali - ancorché non in tutti - può contribuire a delineare un quadro sufficientemente indicativo. Dal 1099 al 1171 Costantinopoli compare quindici volte, San Giovanni d'Acri ventuno e quattordici in tutto gli altri scali negli Stati crociati; quanto ad Alessandria, è citata trentotto volte mentre Damietta cinque (31). Risalta appieno il notevole sviluppo dei traffici con i territori soggetti al controllo latino, ma non tanto da sopravanzare il volume di affari con l'Egitto fatimide. Qui stanno le difficoltà della politica commerciale veneziana: è che Venezia manteneva stretti rapporti con entrambe le parti in conflitto e, poiché la fornitura di armi rappresentava il più pingue capitolo dell'esportazione; la Repubblica lagunare rischiava di trovarsi presa fra due fuochi. In questo contesto era l'Egitto a lucrare i maggiori vantaggi dal movimento delle merci provenienti dall'Asia - le più richieste - che vi giungevano e vi ripartivano gravate del dazio imposto dai Musulmani; e ugualmente concorrenziali erano le esportazioni di Costantinopoli, che acquistava le spezie nelle regioni rivierasche del mar Nero. Non così gli Stati crociati, dove la tassa d'importazione, di norma fissata al 10 per cento, costituiva un cespite di entrata cui nessuno intendeva rinunciare: motivi fiscali, dunque, pregiudicavano la posizione economica della Terrasanta.
A questo si aggiungevano ancora le difficoltà intrinseche alla natura degli scambi. Oltre ai pellegrini, i Veneziani portavano in Palestina soprattutto armi, metalli, legname e cavalli, imbarcando per il ritorno prodotti locali quali vetro, stoffe preziose e zucchero nonché sete d'Oriente e spezie. Ma se l'importazione negli Stati crociati consisteva essenzialmente in carichi voluminosi, l'esportazione delle merci di pregio non bastava a riempire la stiva delle navi. Divenne perciò prassi comune che una parte soltanto della flotta prendesse direttamente la via del ritorno, mentre i vascelli restanti bordeggiavano lungo le coste dell'Asia Minore alla volta di Costantinopoli ovvero puntavano su Alessandria, per fare altri carichi. Gli itinerari marittimi verso le due principali destinazioni del commercio veneziano, Egitto e Impero bizantino, prevedevano ora, prima di giungere alla meta rispettiva, una deviazione attraverso la Terrasanta.
Dopo i privilegi del 1082, il commercio veneziano con l'Impero bizantino aveva conosciuto un costante incremento (32), coinvolgendo oltre al doge e ai mercanti perfino e sempre di più la Chiesa. Ma le relazioni amichevoli un po' alla volta si guastarono. Oggetto del contendere furono dapprima le ambizioni veneziane sulla Dalmazia, che Bisanzio considerava parte integrante dei propri domini; e, a rendere vieppiù accesa la questione, fin dagli esordi del nuovo millennio gli Ungari non nascondevano mire analoghe. A tutto ciò si sommò, a partire dalla prima Crociata, l'impegno esplicito di Genova e soprattutto di Pisa nel Mediterraneo orientale, in un'area in cui nel secolo XI Venezia non doveva temere la concorrenza di alcuno. Il patto stretto fra Pisa e Bisanzio nel 1111 venne probabilmente recepito da Venezia come un pericolo; e con l'avvento sul trono d'Oriente di Giovanni II Comneno (1118-43) i rapporti con Costantinopoli peggiorarono rapidamente. Per precauzione, lanciando la campagna bellica in Terrasanta che avrebbe portato alla sottomissione di Tiro, il doge aveva richiamato tutti i sudditi residenti in terra bizantina e nessuno è possibile documentarne dal 1121 al 1129 nei luoghi imperiali; poi tutto il corso della spedizione fu punteggiata di scontri armati dai quali non la Repubblica e tanto meno l'Impero poterono trarre profitti decisivi. Si pervenne così alla pace nel 1126, ciò che comportò per Venezia la ratifica dei benefici erogati da Alessio nel 1082. Unica nuova introduzione sembra essere l'esenzione dalla tassa di negoziazione (kommerkion) estesa agli operatori greci al pari dei Veneziani con i quali concludessero transazioni commerciali. Resta tuttavia il dubbio se non si trattasse, piuttosto che di una misura originale, della ripresa di una disposizione caduta in disuso nel tardo periodo alessiano. Forte dei rinnovati privilegi, il commercio veneziano nell'Impero bizantino non cessò di espandersi. I rapporti migliorarono a tal segno che l'imperatore concesse l'adito in totale franchigia anche alle piazze di Creta e di Cipro, a suo tempo negato da Alessio. A parte gli attriti del periodo 1121-26, nella prima metà del secolo XII gli scambi veneto-bizantini si articolarono dunque sulla base dei presupposti fissati nel secolo precedente.
Ancora più vivaci erano le correnti di traffico transmediterranee con l'Egitto - per quanto al riguardo le notizie scarseggino. Beniamino da Tudela nomina i Veneziani al primo posto fra i mercanti stranieri sul suolo egiziano (33). Fra le esportazioni, i metalli e il legname - merci strategiche per l'industria degli armamenti e le costruzioni navali avevano tradizionalmente un posto di primo piano, ma pure i carichi di schiavi prendevano la via di Alessandria o di Damietta. L'attività tessile cotoniera, che si sarebbe sviluppata in Italia nella seconda metà del secolo XII, nei primi cinquant'anni era ancora secondaria; perciò le importazioni si concentravano sui prodotti orientali, le spezie e le sete che arrivavano sul mercato egiziano via mare - trasporto più conveniente nonostante i gravami fiscali imposti dalle autorità locali. Pepe, verzino, cannella, radice di galanga, noce moscata, incenso, gommalacca e svariate altre merci dall'Asia, cotone, lino e allume - materie prime indispensabili all'industria tessile europea - dall'Egitto stesso: merci tutte che si incamminavano verso l'Occidente per il tramite dei mercanti veneziani. Si considerino oltre a ciò le linee di commercio vigenti fra l'Egitto e Costantinopoli e si comprenderà perché proprio Alessandria divenne il polo di attrazione primario per gli uomini di affari di Venezia.
Già dal secolo XII ci sono pervenute informazioni fondate sulla consuetudine invalsa nel traffico marittimo veneziano di allestire regolari convogli commerciali, le "mude", alla volta degli scali principali (34). Fissate due partenze l'anno, in primavera e in agosto, le navi svernavano sulla sponda opposta del Mediterraneo; a ciascuna scadenza due flotte prendevano il largo: l'una faceva rotta verso la Romania toponimo con il quale si solevano indicare le regioni soggette dell'Impero bizantino -, l'altra si separava dalla prima all'altezza di Corone e Modone e, toccando Creta e Cipro, dirigeva sulla Terrasanta e l'Egitto. Era questo un commercio che, venuto sviluppandosi dalla prima Crociata, interessava ogni ceto della popolazione marciana, i nuovi ricchi non meno delle antiche famiglie detentrici del potere nel Dogado, come attestano i documenti coevi. Fu così che nella prima metà del secolo XII le famiglie Ziani e Mastropiero, protagoniste della ribalta politica nel cinquantennio successivo, edificarono le proprie fortune. Nel testo della Translatio sancti Nicolai prima metà del secolo XII, appunto - ben si esprime la consapevolezza di questi mercanti, l'orgogliosa fiducia in se stessi. Quando san Nicola, patrono dei naviganti, apparve ai marinai nel mezzo di una tempesta il prete di bordo dichiara: "Santo Padre, siamo Veneziani e come i nostri padri per fare commercio percorriamo regioni disparate" (35).
Di ritorno dai viaggi, i mercanti offrivano i loro articoli all'emporio realtino, per la prima volta menzionato in un documento nel 1097 (36). Rialto divenne il centro di transito di tutte le merci, riducendo l'importanza dell'offerta veneziana nell'Italia settentrionale direttamente a Pavia o alla fiera di Ferrara. Se Venezia si volgeva decisamente al commercio marittimo a lunga gittata, affidando il trasporto oltre Rialto ai clienti occidentali, ciò non significa che si disinteressasse della sicurezza dei mercati di destinazione. Per la verità nei primi quarant'anni del secolo XII non incontrò soverchia fortuna in Istria e Dalmazia, dove i contrasti con il re d'Ungheria probabilmente influirono alquanto sul tenore degli scambi. Parallelamente tuttavia, allo scopo di rassodare l'ormai irrinunciabile aspirazione al dominio sul "golfo" adriatico, Venezia seppe muoversi felicemente nell'Italia centrale e meridionale: nel 1122 la flotta veneziana, al comando dello stesso doge, Domenico Michiel, veniva a un accordo con la città di Bari (37); nel 1136 Venezia sosteneva entrambi gli imperatori, d'Oriente e d'Occidente, contro i Normanni del Meridione e nel 1137 era dalla parte di Lotario III quando costui attaccò Ancona. Una concorrente che avrebbe potuto danneggiare i traffici veneziani nell'Adriatico fu ridotta in condizione di non nuocere, Ancona, che soprattutto vocata al commercio delle derrate alimentari tentava di ritagliarsi uno spazio proprio nell'ambito dell'interscambio con il Levante bizantino. E venne inoltre, a concludere questo periodo che gettava le fondamenta della supremazia veneziana nel golfo, un patto con Ruggero II di Sicilia (38) che riconosceva gli interessi veneziani nell'Adriatico. Non per nulla allora presso la corte normanna il mare Adriatico venne indicato come golfo di Venezia. All'indomani della prima Crociata Venezia si fece assai più attiva nell'Italia settentrionale: già nel 1102 era al fianco della marchesa Matilde di Toscana durante l'assedio di Ferrara. Posta all'imboccatura del delta del Po, la città aveva raccolto l'eredità di Comacchio, annientata nel secolo X, ergendosi ad arbitro del transito fluviale verso la Padania. L'episodio del 1102 fissa la data iniziale di una sequenza di misure tese a cancellare la minaccia ferrarese dalla più importante via commerciale dell'entroterra.
Un altro trattato, nel 1107 con Verona, mette in chiaro le linee di fondo della politica di Venezia a sostegno dei propri interessi economici in terraferma (39). Oggetto di questo, che è il più antico patto di reciprocità stipulato fra due città del quale si conservi l'originale, è un'alleanza politica, ma vi vengono altresì messi in luce nodi di natura squisitamente commerciale. È, anche in questo caso, la sicurezza dei canali di vendita l'obiettivo della manovra: Verona s'impegnava a rendere agibile e tranquillo ai mercanti l'itinerario lungo l'Adige fino a Cavarzere, al confine con il Dogado veneziano; mutue obbligazioni sanzionavano lo statuto di questa via d'acqua, seconda solo al Po negli scambi con l'entroterra. Le garanzie formali inquadravano l'ambito dell'accordo: ogni eventuale querela - possibilità sempre incombente - doveva essere dibattuta entro il termine di trenta giorni. Fu stabilito un nuovo ordinamento doganale che, in sostituzione del dazio previsto nei patti con i sovrani del Regnum Italiae, vale a dire il quadragesimum esatto nella misura del 2,5 per cento, fissava la tariffa base in 12 denari, moneta veronese, per milliarium di merce, ridotta a 2 denari per le balle di pellami, andandone invece esenti l'oro, l'argento, le monete e le pezze di seta. Sicurezza delle vie commerciali, certezza di un procedimento equo nelle controversie, stabile regime fiscale: sono queste le linee portanti della politica commerciale veneziana nell'Italia settentrionale. Ma solo con la seconda metà del secolo XII Venezia si sarebbe data una attenta e mirata strategia di alleanze nella zona. Nel 1100 insorse una vertenza con Padova, al centro della quale era il Brenta, altra direttrice fluviale verso l'entroterra. Nell'arco di un decennio l'azione dei Veneziani era stata dettata dall'esigenza di procurarsi dei punti d'appoggio sui tre fiumi di maggior rilievo economico, il Po, l'Adige e - per l'appunto - il Brenta. Del resto gli imperatori d'Occidente si preoccupavano sempre meno del Regnum Italiae, catturata la loro attenzione dalla lotta per le investiture e da ben altre cure politiche. Enrico V, nel 1116, e Lotario III, nel 1136, rinnovarono i patti con Venezia, formalità che non ebbero apprezzabili influenze sugli assetti commerciali.
Tacciono le fonti sui mercanti e l'organizzazione della mercatura; con ogni probabilità le merci sulle quali si incentravano i traffici marittimi andavano vendute nell'Italia settentrionale e in Germania. D'altra parte il bacino occidentale del Mediterraneo non era in questa fase campo d'azione del commercio veneziano, troppo lontana la Francia e ancor più l'Inghilterra; non restavano, in quanto mercati, che i territori del Sacro Romano Impero.
Sul piano della monetazione, fin dall'inizio Venezia si trovò nel mezzo di mondi affatto differenti (40). Dai tempi della riforma carolingia in Occidente veniva coniata esclusivamente moneta d'argento e frazioni di essa; non così a Bisanzio, che disponeva di una moneta d'oro ancora basata sul sistema introdotto da Costantino il Grande; quanto agli Arabi, utilizzavano moneta propria. Con la pace di Aquisgrana tra i Franchi e Bisanzio (812), Venezia venne riconosciuta all'Impero d'Oriente; pur teorica, questa appartenenza la poneva nell'area di diffusione della moneta bizantina e non c'è dubbio che il commercio marittimo si regolasse in quella divisa. E però i primi conii a recare l'iscrizione di "Venecia" comparvero sotto il regno di Ludovico il Pio: monete d'argento con il nome del re franco assimilabili per peso e titolo a quelle in corso nell'Impero d'Occidente. La stessa prassi di conio si rifaceva ai modelli e al sistema occidentali, facendoli propri: sorse una zecca locale che batteva denari a formare in misura di 12 un solido e di 240 una lira. Subito affiora una domanda circa i possibili riflessi di questo atteggiamento sul terreno del diritto pubblico. La coniazione rappresentava un privilegio al quale Bisanzio mai rinunciò, né sussiste alcun fondato motivo per ritenere che nel secolo IX i Veneziani avessero cessato di vedere nell'imperatore bizantino la suprema autorità, basti pensare alla datazione dei documenti secondo il calendario costantiniano. E va parimenti esclusa qualunque forma di subordinazione dell'Impero orientale all'occidentale. Unica valida supposizione è che l'attività di conio, lungi dall'ammantarsi di significati politici, avvenisse tenendo d'occhio le contingenze locali. In altre parole, tutto quell'entroterra dal quale il Dogado acquistava il proprio sostentamento eseguiva i conteggi utilizzando le monete d'argento, che di conseguenza si dovettero diffondere in laguna per le normali transazioni di ogni giorno.
Già all'epoca di Lotario I si rileva un sensibile peggioramento qualitativo della moneta d'argento veneziana, il cui valore di conio venne evidentemente fissato in tre quarti del valore di quella franca, proporzione che si manterrà a tutto il secolo X. Ma poiché dalle carte coeve si evince la frequenza sulla piazza della moneta d'oro araba ("mancuso"), dallo stabile rapporto di cambio nei confronti della lira veneziana, se ne deduce l'insorgenza in qualche misura del regime di bimetallismo nella vita economica di Venezia.
Nel secolo X appaiono nuovi conii di denaro. Una serie di monete porta l'iscrizione "Christe salva Venetias"; sembrerebbe perciò superato il problema del riconoscimento di una qualsiasi superiore autorità. Ma, nell'opinione di Roberto Cessi, la formula "Deus conserva Romano imp." si riferisce all'imperatore bizantino. Ai tempi dei re nazionali Venezia avrebbe rinunciato a battere moneta con il nome di tali sovrani, che spesso avevano poca influenza. In ogni modo la moneta veneziana venne ufficialmente riconosciuta in Occidente nel 924 grazie al patto con Rodolfo (febbraio 924): "numorum monetarum [...> secundum quod eorum provintie Duces a priscis temporibus consueto more habuerunt".
Si colloca al volgere del secolo X il fondamentale riallineamento del valore del denaro veneziano rispetto alla moneta imperiale, abbassato a un mezzo. I primi conii del genere esibiscono la dicitura "Christus imperat", abbandonando quindi la consuetudine di nominare un sovrano. Successivamente altre monete recarono i nomi degli imperatori Corrado II, Enrico III, Enrico IV ed Enrico V. Nel corso del secolo XI il denaro veneziano non cessò di svalutarsi, fenomeno sul quale influì in modo determinante l'altrettanto costante svalutazione della moneta imperiale; non solo, occorre ricordare inoltre la pressione esercitata dalle monete d'oro bizantine e arabe, da sempre divise dominanti nel settore del commercio internazionale. Non per nulla, allo scopo di conservarne l'uniformità, dalla fine del secolo X Venezia vigilava affinché il rapporto di cambio con la moneta bizantina restasse nei limiti di 2 lire contro I iperpero (41).
Apprendiamo da un documento del 1112 che nel frattempo il sito preposto alla produzione monetaria era stato venduto. Se ciò implicasse la rinuncia alla monetazione autoctona non ci è dato di sapere. Le fonti menzionano, ora come prima, monete locali, tuttavia per il corso di decenni non vengono più nominate monete veneziane. Quando poi nella seconda metà del secolo entreranno in scena i nuovi conii recanti il nome del doge, si collocheranno in una categoria del tutto diversa. A favore della tesi della sospensione parla oltretutto il fatto che ora i documenti restituiscono un quadro nel quale il denaro di Verona si sostituisce sempre più alla moneta veneziana; e che in materia monetaria a Venezia rimanessero in auge gli usi occidentali, lo dimostra un documento del 1123: vi si indica come unità di misura del metallo nobile il marco di Colonia, del resto unità di misura dell'argento cui in Occidente si faceva comunemente riferimento. In definitiva le prime coniazioni veneziane, dal secolo IX fino all'inizio del XII, ebbero valore appena relativo nel contesto economico, tanto più che il commercio marittimo veniva regolato pressoché esclusivamente in moneta d'oro araba o bizantina; erano i mercati italiani e le necessità quotidiane ad assorbire il circolante battuto dalla zecca marciana, com'è ampiamente dimostrato dalla facilità con cui Venezia poté rimpiazzarlo con i pezzi di provenienza veronese. Se lo Stato marciano ha un posto nella storia monetaria del Medioevo, lo deve alle coniazioni introdotte dopo la metà del secolo XII e poi al nuovo grosso e al ducato d'oro (42).
Avviatosi modestamente, come possiamo dedurre dalle indicazioni risalenti alla seconda metà del secolo VIII, il commercio veneziano venne sviluppandosi enormemente fino alla metà del XII. Venezia possedeva una flotta che incuteva rispetto; i suoi mercanti occupavano una posizione preminente nelle regioni dell'Impero bizantino ed erano degnamente e permanentemente rappresentati in Terrasanta e soprattutto in Egitto; buona parte delle mercanzie di provenienza orientale transitavano per l'emporio realtino. In forza di tutto ciò, Venezia intraprese in terraferma una politica volta a rendere sicuri e attivi i canali di vendita. Un'evoluzione notevole, ma non più che la premessa di una ascesa ulteriore, e di ben maggiore portata, ormai imminente.
Traduzione di Maria Tonetti
1. Le note a questo saggio si limitano all'essenziale. Sempre valido Ludo Moritz Hartmann, Die wirtschaftlichen Anfänge Venedigs, "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 2, 1904, pp. 434-442. Wilhelm Heyd, Histoire du commerce du Levant au moyen âge, I-II, Leipzig 1885-1886. Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, pp. 74-77, 169-181, 357, 368, 448, 449-502. Di fondamentale importanza inoltre Adolf Schaube, Handelsgeschichte der romanischen Völker des Mittelmeergebiets bis zum Ausgang der Kreuzzüge, München 1906. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978.
2. Roberto Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, pp. 127- 130.
3. Charles Verlinden, L'esclavage dans l'Europe médiévale, II, Italie - Colonies italiennes du Levant - Levant latin, Gent 1977 e Johannes Hoffmann, Die östliche Adriaküste als Hauptnachschubbasis für den venezianischen Sklavenhandel bis zum Ausgang des 11. Jahrhunderts, "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 55, 1968, pp. 165-181.
4. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, I-II, a cura di Roberto Cessi, Padova 1940-1942: I, pp. 93-99 nr. 53. Gino Luzzatto, Les activités économiques du Patriciat vénitien, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 125-165.
5. M.G.H., Leges, II, Capitularia regum Francorum, 1837, pp. 130-136 nr. 233.
6. Ibid., pp. 136-137 nr. 234.
7. Documenti, II, pp. 20-21 nr. 15.
8. La cronaca veneziana del Diacono Giovanni, a cura di Giovanni Monticolo, in Cronache veneziane antichissime, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), pp. 127 e 133.
9. Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero. 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale Germanico, Roma 1985, P. 132. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig, I-II, Wien 1856-1857 (ristampa Amsterdam 1964): I, pp. 17-25 nr. 13 = Documenti, II, pp. 70-74 nr. 41 (vi si trova pure la documentazione in merito al divieto del commercio di schiavi).
10. Liutprandus Cremonensis, Relatio de legatione Constantinopolitana, cap. LV, a cura di Johannes Becker, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum, XLI, 19152, p. 205.
11. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 25-30 nr. 14 = Documenti, II, pp. 86-91 nr. 49.
12. Franz Dölger, Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches von 565-1453, I, München 1924, nr. 781. Agostino Pertusi, Venezia e Bisanzio nel secolo XI, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979 2, pp. I 95- 198. Ralph Johannes Lilie, Handel und Politile zwischen dem byzantinischen Reich und den italienischen Kommunen Venedig, Pisa und Genua in der Epoche der Komnenen und Angeloi (1081-1204), Amsterdam 1984, pp. 1-8.
13. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 5-10 nr. 10 = Documenti, II, pp. 52-55 nr. 35. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 162 ss.
14. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 10-16 nr. 11 = Documenti, II, pp. 55-59 nr. 36.
15. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 31-35 nr. 15 = Documenti, II, pp. 105-108 nr. 56.
16. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 29-34.
17. Documenti, II, pp. 156-158 nr. 78, 185-187 nr. 90.
18. Ibid., II, pp. 182-184 nr. 89; G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 170- 171.
19. Thietmar Von Merseburg, Chronicon, VII/76, a cura di Robert Holtzmann, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum. Nova Series, IX, 1935, p. 492, 1-2.
20. Documenti, II, pp. 99-104 nr. 54. Sui contratti commerciali esiste una letteratura sterminata. Significativi per il commercio veneziano sono: Gino Luzzatto, Capitale e lavoro nel commercio veneziano, e La commenda nella vita economica dei secoli XIII e XIV con particolare riguardo a Venezia, entrambi in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, rispettivamente alle pp. 86-116 e pp. 59-79. John H. Pryor, The Origins of the Comenda Contract, "Speculum", 52, 1977, pp. 5-37 offre una letteratura più aggiornata. I documenti sono raccolti nei Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Torino 1940 e Idd., Nuovi documenti del commercio veneto dei secoli XI-XIII, Venezia 1953.
21. Franz Dölger, Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches von 565-1453, II, München 1925, nr. 1081. Silvano Borsari, Il crisobullo di Alessio I per Venezia, "Annali dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici", 2, 1970, pp. 111-131. R.J. Lilie, Handel und Politik, pp. 8-16.
22. Ernesto Sestan, La conquista veneziana della Dalmazia, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 19792, pp. 159-174.
23. G. Rösch, Venezia e l'Impero, p. 37.
24. Cronache veneziane antichissime, pp. 178-179 nr. 3.
25. Die "Honorantiae civitatis Papiae", a cura di Carlrichard Brühl- Cinzio Violante, Wien-Köln-Graz 1983, pp. 19 ss.
26. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 37-38.
27. Cartularium Imolense, a cura di Serafino Gaddoni - Goffredo Zaccherini, II, Imola 1912, pp. 131 ss. nr. 733. Walter Lenel, Un trattato di commercio fra Venezia e Imola, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 16, 1908, pp. 62 ss. (pp. 62-67).
28. Steven Runciman, L'intervento di Venezia dalla prima alla terza crociata, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 19792, pp. 231-240. Joshua Prawer, I veneziani e le colonie veneziane nel regno latino di Gerusalemme, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, 1/2, Firenze 1973, pp. 625-656.
29. Reinhold Röhricht, Regesta regni Hierosolymitani, I, Innsbruck 1893, nr. 102 = G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 79-89 nr. 40. La conferma di Baldovino II: R. Röhricht, Regesta, I, nr. 105. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 90-94 nr. 41.
30. R. Röhricht, Regesta, I, nr. 197. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 102-103 nr. 46.
31. S. Runciman, L'intervento, p. 238.
32. Silvano Borsari, Il commercio veneziano nell'impero bizantino nel XII secolo, "Rivista Storica Italiana", 76, 1964, pp. 982-1011. Id., Per la storia del commercio veneziano col mondo bizantino nel XII secolo, ibid., 88, 1976, pp. 104-126. R J. Lilie, Handel und Politik, pp. 17-22. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 95-98 nr. 43.
33. A. Schaube, Handelsgeschichte, pp. 21 ss., 147. Maria Nallino, Il mondo arabo e Venezia fino alle crociate, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 19792, pp. 199-208. Subhi Y. Labib, Handelsgeschichte Agyptens im Sätmittelalter, 1171-1517, Wiesbaden 1956, pp. 3-63.
34. Gino Luzzatto, Navigazione di linea e navigazione libera nelle grandi città marinare del medioevo, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 53-57.
35. Anonymi Historia de translatione sancti Nicolai, in Recueil des historiens des croisades. Historiens occidentaux, V, Paris 1895, p. 282 (pp. 253-292): "Venefici sumus et causa negotii, sicut patres nostri, regiones plurimas peragramus".
36. Roberto Cessi - Annibale Alberti, Rialto. L'isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934.
37. Giovanni Monticolo, Il testo del patto giurato dal Doge Domenico Michiel al comune di Bari, "Nuovo Archivio Veneto", 18, 1899, pp. 96-140.
38. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, p. 101 nr. 45. Walter Lenel, Die Entstehung der Vorherrschaft Venedigs an der Adria, Strassburg 1897, pp. 27 ss. Roberto Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953. David Abulafia, The Trio Italies. Economic Relations between the Norman Kingdom of Sicily and the Northern Comunes, Cambridge 1977, pp. 76 ss.
39. Carlo Cipolla, Note di storia veronese. Trattati commerciali e politici del secolo XII inediti o imperfettamente noti, "Nuovo Archivio Veneto", 15, 1898, pp. 298 ss. nr. I (pp. 288-352). G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 81 e 116.
40. Nicolò Papadopoli, Le monete di Venezia, I, Venezia 1893. Roberto Cessi, Problemi monetari veneziani fino a tutto il secolo XIV, Padova 1937.
41. Luise Buenger-Robbert, The Venetian Money Market 1150-1229, "Studi Veneziani", 13, 1971, p. 92 (pp. 3-121). Per le monete bizantine: Michael F. Hendy, Coinage and Money in the Byzantine Empire, 1081-1261, Washington 1969 (Dumbarton Oaks Studies, 12). Tommaso Bertelé, Moneta veneziana e moneta bizantina, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, pp. 9 ss., 32 ss. (pp. 3-147).
42. R. Cessi, Problemi monetari, p. 4 nr. 2.