Mercatura
Mercatura, con il variabile significato di ‘commercio’, ‘merce trafficata’, ‘professione mercantile’, è termine già proprio del diritto romano, ma giunge alle scritture bassomedievali per il tramite della mediazione testuale operata dal Corpus iuris di Giustiniano (530 circa; Codex 1, 3 2) e dal discontinuo stratificarsi del diritto canonico, ricapitolato poi, verso il 1140, a Bologna, dal Decretum Gratiani. L’originario significato di ‘traffico di merci’ viene progressivamente trasformato e arricchito da una serie di attributi giuridici e morali che, gradualmente, lo trasformano in una definizione alquanto duttile dello scambio economico, inteso sia come attività effettiva sia come tecnica intellettuale e contabile che la razionalizza.
Fino almeno al 12° sec., la mercatura praticata dai mercatores continua ad apparire nei testi diplomatici e cronachistici come un’attività di cui sono professionisti personaggi dall’identità tutto sommato incerta, bisognosi di guadagnarsi la vita al di fuori dei rassicuranti circuiti domestici segnati dall’appartenenza a una terra, a una villa, a un castello, caratterizzabili insomma quali pauperes, ossia come ‘poveri’ di potere e stabilità, cioè di inserimento certo nella ‘famiglia’ garantita dal potere di un signore. Dalla seconda metà del 12° sec., invece, si moltiplicano gradualmente le testimonianze della mercatura come attività sistematica di chi, dedicandosi professionalmente agli scambi, si impone come protagonista di un’economia, locale o sovralocale, sempre più qualificabile allo stesso tempo come cultura tecnicamente specifica. Mercatura diventa dunque, a Bologna, nelle prime codificazioni del diritto canonico e nel sistematico lavoro di rielaborazione del diritto romano, complementare a mercatores.
L’ambiguità di queste figure, e dell’ambiente mercantile che le contiene e le definisce, si chiarisce nel contesto di ridefinizione degli equilibri fra poteri ecclesiastici e laici europei, dalla fine dell’11° sec. alla prima metà del 13°, in primo luogo a partire dal contrasto fra mercatura empia e sacrilega dei beni economici sacri e mercatura legittima e utile dei beni economici profani. I mercatores attenti alla distinzione fra beni sacri e profani e consapevoli della commerciabilità di questi ultimi soltanto cominciano a essere mostrati già nel trattato Adversus simoniacos (1057) di Umberto di Moyenmoutier, cardinale di Silvacandida, come professionisti autorizzati, di contro alla illegalità palese dei mercatores simoniaci che trafficano illegalmente le res sacrae, mentre, in una importante lettera al re di Francia Filippo I, nel 1073 papa Gregorio VII afferma la propria giurisdizione sui mercanti italiani che legittimamente percorrono il territorio francese, stabilendone così la perfetta legalità e, al tempo stesso, l’immunità rispetto alle pretese fiscali del sovrano.
Attraverso questa rielaborazione politica ed ecclesiologica, mercatura diviene parola spettante non soltanto all’ambito economico nel senso odierno di ‘commercio’, ma anche caratterizzante un ambito degli scambi il cui significato è riscontrabile tanto dal punto di vista giurisdizionale quanto da quello teologico. Per meglio comprendere la natura polisemica che mercatura viene ad assumere nell’Occidente cristiano a partire dal 12° sec., è tuttavia necessario ricordare che la nozione stessa di scambio denotata da questa parola era stata profondamente rielaborata, oltre che dal latino imperiale tardoantico, dal latino teologico patristico e poi altomedievale: a significare nello stesso tempo lo scambio quotidiano praticato sui mercati e lo scambio metafisico operatosi nell’incarnazione divina.
La natura ambigua di mercatura discendeva, dunque, in primissimo luogo, dalla duplicità del suo uso, in se stesso rinviante a una duplice considerazione del gioco economico degli scambi. Il fatto che il mercator terreno di tutti i giorni, operante una mercatura dall’eticità incerta, potesse trasfigurarsi nel mercator celestis, il Cristo, protagonista di uno scambio di ben altra portata, aveva imposto sin dai primi secoli del Medioevo una ridefinizione della parola e del concetto stesso di commercio (Herz 1958; Bogaert 1973; Todeschini 1994) che, mentre da un lato ne accentuava il significato sacro, dall’altro, per contrasto, stabiliva la necessità di chiarirne e specificarne i connotati quando questa parola-concetto faceva riferimento alla dimensione del quotidiano e dell’utile privato o pubblico.
Se la mercatura, nell’ambito della quale, in quanto concreta e dura realtà dei mercati cittadini o rurali dei secc. 12° e 13°, il mercator si inscriveva, ben difficilmente poteva essere considerata anche solo lontanamente paragonabile alla perfezione dello scambio effettuato dal Christus mercator, era purtuttavia sempre più vero che il commerciante attivo sulle piazze dei mercati cristiani aveva tutto da guadagnare, sia in termini di reputazione sia in termini monetari, dal fatto di non essere inteso come una replica del pessimus mercator per eccellenza, Giuda l’Iscariota.
D’altra parte, le pratiche commerciali e gli spazi che, almeno a partire dall’11° sec., le definivano, i mercati e le fiere (mercata, nundinae), erano con sempre maggior chiarezza contrassegnati, dal diritto e dalle legislazioni locali, come organizzazioni complessive politicamente regolamentate e costituite sia dalla mercatura sia dalle aree giurisdizionali che la contenevano e la delimitavano (Guerreau 2001; Arnoux 2010). In questa prospettiva, tanto politica quanto teologica, mercatura si affermava dunque, soprattutto fra l’11° e il 12° sec., come definizione di un sistema di relazioni legalizzato dal potere di un sovrano o di un signore territoriale, ma al tempo stesso essa appariva il luogo giuridico, fisico e morale all’interno del quale l’arricchimento, ossia la gestione della necessità e la valutazione dell’utile, si manifestava come momento centrale di un’amministrazione dei contesti sociali tanto civica quanto religiosa.
La legalizzazione dei mercati nella forma di giurisdizioni concesse da sovrani e signori a poteri subalterni, in moltissimi casi ecclesiastici o monastici (come appare chiaramente dai diplomi regi e imperiali dei secc. 11°, 12° e 13°), illustra ulteriormente la specificità culturale politico-religiosa che le pratiche dello scambio commerciale e i loro protagonisti assunsero nell’Europa cristiana caratterizzata, a un tempo, dalla riforma della Chiesa e dalla ‘rivoluzione commerciale’. Essere ‘mercanti’ ed esperti di mercatura rinviava di necessità, soprattutto dalla fine dell’11° sec., a un’appartenenza sempre più netta, definita in primo luogo dall’area giurisdizionale alla quale si faceva riferimento in quanto abitatori o frequentatori di un mercato o di una fiera, dunque dalle regole scritte e non scritte che erano proprie di quell’ambito, ma in secondo luogo dalla condivisione, oltre che di alcune nozioni contabili e giurisprudenziali, di una cultura essenzialmente fondata su una nozione di patto e di giuramento la cui portata civica e religiosa appariva del tutto identica all’importanza attribuita all’identità riconoscibile e affidabile di coloro che agivano sui mercati.
Soprattutto a partire dal tratto cronologico 1140-1180, e cioè dall’epoca che vede la prima codificazione precisa di norme economiche in ambiente canonistico e civilistico, il termine mercatura e tutta la costellazione concettuale che lo circonda si precisano sempre più velocemente, alla luce dei ragionamenti teologico-giuridici e delle legislazioni concernenti la parola usura e la contrattualistica alla quale essa allude secondo i giuristi, i teologi e i legislatori. Sebbene, nell’alto Medioevo, la prassi creditizia fosse apparsa, sia nella lettera dei contratti sia nell’accezione giuridica, difficilmente distinguibile da quella commerciale, e anzi le dinamiche dello scambio e quelle del mutuo vengano documentate come abitudini economiche strettamente legate (Bougard 2010), dal 12° sec. in avanti si assiste a una divaricazione tra le definizioni riguardanti, da un lato, lo scambio commerciale e, dall’altro, il prestito a interesse.
Mercatura e usura tendono a differenziarsi nel sistema documentario, tanto giuridico o teologico quanto contrattuale, fino a essere, soprattutto dal Duecento, nettamente contrapposte in quanto ambiti tipizzati da un lucro perseguito, nel caso di mercatura, in accordo con il diritto di natura, e dunque legittimo e politicamente utile seppure talvolta moralmente viziato, e invece al contrario, nel caso di usura, indubbiamente contro natura, e pertanto moralmente e socialmente dannoso. Questa opposizione, già ben visibile nelle definizioni canonistiche dell’usura enunciate dai Concili II (1139) e III Lateranensi (1179), e ribadite poi fra Due e Trecento da altri fondamentali Concili come il IV Lateranense (1215), il II di Lione (1274) e quello di Vienne (1311), stabilisce con crescente chiarezza la differenza di fondo esistente fra usura come abitudine economica specificamente deviante e anzi identificabile come ereticale, e mercatura come abitudine economica quotidiana caratteristica dei laici cristiani e in quanto tale, seppure spesso macchiata da abusi, indiscutibilmente riconosciuta come settore decisivo dell’ordine sociale. Stando alla terminologia dell’epoca, la varietà delle pratiche che compongono la mercatura e finanche gli eventuali ‘vizi dei mercanti’ che ne offuscano la legalità si contrappongono all’irrimediabile profondità della ‘voragine’ dell’usura, intesa dunque come l’abisso senza fondo all’interno del quale sparisce ogni forma di economia razionale.
Mercatura appare dunque, ben prima della comparsa sulla scena storica delle potenti corporazioni mercantili due-trecentesche e dell’Arte della mercatura, intesa come raggruppamento professionale di coloro che facevano e programmavano il mercato in quanto élite commerciale, finanziaria e imprenditoriale, come realtà terminologica e categoria del discorso economico in se stessa desumibile da una lunga tradizione del discorso teologico-economico cristiano occidentale. Da questo punto di vista il binomio mercatura-mercatores sembra essere qualcosa di culturalmente più complesso, e di meno avventuroso nel senso individualistico del termine, di quello che la storiografia del Novecento ha spesso immaginato e descritto.
Benché si possa certamente ricostruire la fortuna mercantesca di individui e famiglie sui territori italiani e non, soprattutto dalla fine del 12° sec. a tutto il 13°, risulta ormai ben evidente che questi itinerari, in grado di condurre alla ricchezza e al potere pubblico tanti gruppi familiari nel giro di poche generazioni, vennero svolgendosi sullo sfondo economico e culturale determinato da un approccio alla ricchezza di origine commerciale e allo scambio in quanto origine dei mercati, come quello che la società cristiana occidentale aveva determinato sulla base politica costituita dalla pluralità e dalla conflittualità dei poteri territoriali. Un modello di crescita che, per es., rimase invece estraneo alla società cristiana greco-bizantina, organizzata piuttosto, dal punto di vista economico, sino alla fine quattrocentesca dell’Impero romano d’Oriente, secondo quadri dello sviluppo fortemente determinati dal centralismo governativo e da una nozione di scambio solo debolmente connessa, diversamente da quanto avveniva in Occidente, a modelli sociali orientati in senso teologico e salvifico (The economic history of Byzantium, 2002; Patlagean 2007).
Se mercatura potrà apparire a mercanti e umanisti come una tecnica raffinata del tutto affine nella sua finezza intellettuale all’arte politica, soltanto una volta affermatasi concretamente e definitivamente, fra Tre e Quattrocento, la sua natura di arte governativa del mercato, è tuttavia chiaro che essa risulta comunque da subito, sin dalla prima fase della sua storia civica, fra 12° e 13° sec., la prima delle professioni e la sola che, coniugando commercio e finanza, ovvero importazione-esportazione di merci e cambio delle valute, appare ai contemporanei, in tutta la sua rischiosità, nettamente distinta da qualsiasi altra attività artigianale e ‘meccanica’.
Nel vero il danaio è molto difficile a trafficare et conservare et è molto nelle mani della fortuna, et sono pochi che’l sappino ghovernare. Ma chi possiede copia di denari et sappi trafficagli, si dice essere signore degli artigiani, perch’egli è nervo di tutti e’ mestieri; et in tutte le fortune adverse, in tutti gl’esilii et cadimenti, come dà il mondo, quelli che si truovano avere denari, quanto sofferano minori necessità che quelli si truovano copiosi di terreni! (G. Rucellai, Il zibaldone quaresimale, cit. in Tognetti 2009, p. 79).
Questa rappresentazione quattrocentesca di Giovanni Rucellai della mercatura come ‘nervo’ di ogni altra attività economica e del denaro come forma preferibile di ricchezza sarà in effetti resa possibile, oltre che dall’effettivo potere raggiunto a Firenze dall’Arte mercantesca, dalla tradizionale consapevolezza occidentale cristiana del ruolo che il commercium giocava nell’organizzazione sociale e politica. L’abilità nel ‘trafficare’ il denaro, riconosciuta come caratteristica esclusiva dei mercatores provetti, poteva farne i protagonisti di una nuova economia, innanzi tutto perché in questa competenza si continuava a ritrovare un’eco della sentenza affermata dal Cristo e trasmessa innumerevoli volte, per secoli, dai più autorevoli rappresentanti della cultura cristiana:
Estote prudentes nummularii; [...] Omnia probate, quod bonum est, tenete, ab omni specie mala abstinete vos («comportatevi come cambiavalute avveduti; [...] verificate tutto, trattenete ciò che è buono: astenetevi da qualunque genere di cosa cattiva») (cit. in Agrapha, 1906, p. 133).
La trasformazione di mercatura da mestiere in qualche modo sospetto, ma tanto più inteso come socialmente utile quanto più garantito istituzionalmente dalla protezione dei poteri territoriali e consacrati, ad Arte di cui, pubblicamente, si riconosceva e si esaltava la funzionalità all’edificazione del pubblico benessere, del ‘bene comune’, si compie tra i secc. 12° e 13°. Si potrebbe ben riconoscere nella canonizzazione da parte di papa Innocenzo III di un mercante benefattore dei poveri, Omobono di Cremona, avvenuta nel 1199 (Vauchez 2001), la prima e più chiara dichiarazione ufficiale del mutamento definitivo della condizione sociale dei mercatores, e l’inizio di quella integrazione di mercatura al mondo dei poteri governativi che, due secoli dopo, farà dei Medici, banchieri e mercanti, i signori di Firenze.
Nell’epoca che vede il principio di questa codificazione delle attività mercantili come attività di cui tutta la comunità non poteva che profittare, comincia anche a chiarirsi la gamma di strumenti culturali e scritturali che i mercatores devono possedere per fare realmente parte dell’universo, come si vedrà, alquanto esclusivo della mercatura. È infatti fra il 12° e il 13° sec., anche se più decisamente dopo il 1250 e la riapparizione delle coniazioni auree a Firenze, Venezia e Genova, dopo la comparsa, cioè, sulla scena dei mercati di monete in grado di funzionare concretamente come valute forti e monete di conto, che il nuovo protagonismo sociale dei mercatores è definito sempre più nettamente dal possesso di una serie di saperi tecnici, in ogni caso connessi alla scrittura e al calcolo.
Il primo e più basilare di questi strumenti è costituito dalla registrazione notarile delle transazioni contrattuali: ossia dal ricorso alla scrittura notarile per affermare la legittimità degli scambi effettuati, così da poter poi formare progressivamente un archivio non soltanto dei contratti perfezionati ma anche delle situazioni in cui è stata verificata la propria accertabile credibilità.
L’abitudine di registrare i contratti, e dunque di servirsi dell’instrumentum notarile per attestare la validità del proprio agire economico e per inserire nel circuito della fides publica (Schulte 2003), ordinandoli e nominandoli secondo la logica di precisi formulari, gli accordi di vendita, di acquisto, di locazione, di mutuo, di associazione commerciale e così via, la creazione dunque di quel mondo cartaceo ufficializzato dal sigillo notarile, ma prolungato dall’infinita serie epistolare di cui fra Due e Trecento i mercanti sono massimamente protagonisti, indica subito, dal primo Duecento italiano, l’accorparsi di un ceto il cui primo obiettivo è, dichiaratamente, la certificazione degli scambi, e cioè la loro schematizzazione legale, al di là di quella che nella realtà poteva essere la loro oggettiva imprecisione formale.
Com’è stato acutamente sottolineato (Santarelli 1984), il fatto stesso che contratti come quello di deposito fossero rappresentabili in termini notarili solo faticosamente e per mezzo della categoria della ‘irregolarità’, rese possibile alla cultura mercantile la progressiva definizione di nuove figure contrattuali, come quella del deposito fruttifero. È dunque il ricorso alla scrittura notarile, ma anche e più generalmente alla scrittura, a costituire il primo grande passaggio dalla pratica economica magmatica e consuetudinaria alla burocratizzazione degli scambi e dei rapporti di mercato che condurrà, gradualmente, fra Due e Trecento, alla mercatura come Arte.
Tra le scritture di tipo notarile, e accanto alla registrazione dei più vari tipi di contratto, certamente la più specificamente connessa al definirsi della mercatura come professione regolatrice dei mercati e dei rapporti fra valute è quella chiamata lettera di cambio. Benché questo tipo di registrazione di un accredito sia spesso troppo frettolosamente considerato un antecedente della moderna cambiale, è necessario tuttavia precisarne le caratteristiche e l’ambiguità formale e culturale.
Il cambio ‘per lettera’, già attestato nelle fiere del 12° sec., si afferma però come strumento vero e proprio della transazione finanziaria e mercantile dalla seconda metà del Duecento, e consiste a prima vista nel trasferimento di una somma di denaro da una piazza di mercato all’altra e da una valuta all’altra, per via scritturale, in una dichiarazione di accredito, dunque, emessa da parte di un soggetto economico attivo su più mercati a vantaggio di un proprio corrispondente (cliente o rappresentante) attivo su un’altra piazza (de Roover 1953). Certamente questa tecnica di trasferimento del denaro, trasformato in valore attestato da una scrittura, ebbe lo scopo di facilitare lo spostamento di capitali e di semplificare le operazioni di pagamento a distanza; tuttavia, soprattutto fra Due e Trecento, il significato della lettera di cambio assunse altri e più complessi significati.
In primo luogo, fu per mezzo di questo tipo di scrittura tecnica che il prezzo delle monete in corso cominciò a essere definito e contrattato, e dunque a divenire un oggetto economico in se stesso valutabile da specialisti dei mercati e, insieme, delle scritture; in secondo luogo, lo spostamento, da un luogo all’altro e da una valuta all’altra, di una certa quantità di capitale, e la sua attestazione per iscritto, fece del denaro un oggetto virtuale, il cui valore esisteva e si manteneva al di là della sua tangibile fisicità: la nozione stessa di dialettica creditizia poté a questo punto chiarirsi, assumendo un significato contrattuale in se stesso derivante dalle differenze vere o presunte tra valori delle monete, ben lontano insomma da quello realizzato dalla semplice, concreta e immediata vendita del denaro, così come si manifestava nel prestito a interesse ovvero nell’usura.
Dato che nella sua sostanza il cambio per lettera era ben più che un contratto inteso, semplicemente e moralisticamente, a dissimulare l’usura, come a volte si è sostenuto, la lettera di cambio mise nelle mani dei mercatores una possibilità di gestire le relazioni creditizie a partire dal valore ipotetico del denaro e non dal denaro come moneta metallica.
Se la scrittura, soprattutto nella forma della registrazione notarile, è la base della cultura tecnica dei mercanti dal Duecento, e se la lettera di cambio rappresenta la forma più nuova e specializzata di questa scrittura, è però chiaro che la logica scrittoria, in tutto il suo peso di metodo memorialistico mirato a definire un’affidabilità economica, si realizzò soprattutto, fra Tre e Quattrocento, nelle registrazioni contabili delle compagnie commerciali. Fu qui che la mercatura, in quanto arte dell’equilibrio fra entrate e uscite, fra perdite e profitti, definì gli schemi di una memoria economica in grado, in certa misura, e ben prima dell’apparizione della ‘partita doppia’, di fare tutt’uno con le memorie mercantili intese come ricordi di una famiglia e di un’azienda. La moltiplicazione dei registri contabili delle maggiori compagnie italiane, verificabile dal Tre al Quattrocento, illustra con evidenza la crescita più, forse, che di una razionalità contabile astratta, in qualche modo ‘preistorica’ rispetto alla contabilità commerciale e alla ragioneria moderne, di una volontà mercantile e bancaria di testimoniare, a uso della città in cui la compagnia si radicava, la propria attività, rendendola fisicamente visibile e rintracciabile per mezzo di sistematiche, quotidiane ricapitolazioni, messe in inchiostro sul bianco dei fogli, delle operazioni effettuate, dei creditori e dei debitori con i quali si era in contatto, delle polizze assicurative in atto, di quanto si era guadagnato o sborsato.
Alla fine del Trecento, uno tra i più ricchi archivi di mercatura sopravvissuti, quello della compagnia Datini di Prato, ci offre, nella fase culminante della produzione di scritture contabili, una serie imponente di registri. A titolo di esempio, si può ricordare il gruppo di registri che sintetizza lo stato di salute dell’azienda, come il Libro debitori e creditori (o Libro grande, o Quaderno dei cambi), il Libro di mercanzie, il Libro dell’entrata e uscita. Ritroviamo poi alcuni registri analitici, come il Memoriale, il Quaderno di cassa, il Quaderno di spese di mercanzie, il Quaderno di ricevute e mandate di balla, il Quaderno di spese di casa e il Quaderno delle ricordanze. E ancora, una quantità di registri più specifici, il cui fine era quello di memorizzare la situazione economica dell’impresa in termini il più possibile minuziosi; fra questi, il Libro di possessioni, che ricapitolava il patrimonio immobiliare della compagnia, il Libro dei ma’ debitori, che elencava i debitori di cui si disperava di recuperare i crediti, il Quaderno di sicurtà, che conteneva le notizie relative ai contratti di assicurazione allorché la compagnia se ne assumeva la gestione, il Quaderno dei carichi di nave e valute di mercanzia, che teneva il conto di tutti i carichi di merce in partenza e di quelli in arrivo, e il Quaderno dei cambi, il cui fine era la registrazione degli affari finanziari praticati per mezzo di lettere di cambio (Melis 1991; L’Archivio di Francesco di Marco Datini, 2004).
Questo continuo scrivere, questa, insomma, fascinazione per il potere della scrittura come testimonianza, e il conseguente desiderio di avere le ‘scritture’ sempre in ordine e recuperabili (ciò che Francesco di Marco Datini, scrivendo nel 1397 a un suo corrispondente, sintetizzava dicendo di non voler «razolare ongni iscrittura» ogni qual volta ne ricercasse una in particolare), dipendevano in effetti tanto dalla necessità di una contabilità ordinata per compagnie mercantili le cui attività si diversificavano sempre più, ampliando dunque a dismisura il senso di mercatura, quanto dal costruirsi bassomedievale di un’immagine cetuale che, almeno a partire dal Duecento, faceva delle pratiche mercantili dei mercatores, ossia della loro ‘arte’, l’essenza di un’identità civica rispecchiata in ogni sua sfaccettatura appunto dalle ‘scritture’.
Libri, registri, memoriali, quaderni, ma anche zibaldoni, ricordanze, disposizioni testamentarie, sembravano in grado di fissare sulla carta o sulla pergamena ogni frammento del mosaico costituito dalle attività di mercatura, concretizzavano la volontà dei mercatores di ricompattare il quotidiano, disordinato e multiforme affaccendarsi, nell’immagine di un ordine e di una razionalità auspicati per la loro somiglianza con l’ordine virtuoso del mondo che, in definitiva, i protagonisti della mercatura ritenevano di poter produrre a partire dall’incremento dei propri profitti e dall’amplificazione della gloria delle loro famiglie.
L’apparizione, nel contesto delle registrazioni contabili mercantili – dal Duecento –, della cosiddetta partita di ‘messer Domineddio’, ossia di una sezione dedicata alle somme spese per ragioni di carità e per donazioni a chiese e a enti ecclesiastici, come anche il moltiplicarsi, due-trecentesco, delle registrazioni notarili di lasciti determinati dalla volontà di restituire i cosiddetti male ablata, ottenuti per via di transazioni creditizie intese come usurarie, mostra con chiarezza che il sistema delle registrazioni contabili faceva coincidere senza contraddizione le ragioni di quanto oggi si chiama ‘utile’ economico con le ragioni di un utile derivante dal comportamento morale o da una reputazione di moralità.
Se la scrittura è il primo ‘strumento’ del mercante, e del mercante-banchiere in particolare, il prodotto più articolato e specifico di questa competenza, elaborato sino a divenire ‘memoria’, è senz’altro, dal secondo Duecento, la ‘pratica di mercatura’ ovvero il manuale sulle cui pagine, fra Due e Trecento, il mercante fissava le usanze commerciali delle varie piazze, l’andamento dei prezzi, i cambi delle valute e le abitudini economiche dei diversi Paesi, ma anche, dalla fine del Trecento, una più complessa analisi e descrizione della propria esperienza economica. I manoscritti finora rintracciati (e solo in parte editi), contenenti questo tipo di rielaborazione dell’esperienza commerciale e finanziaria dei mercatores, comprendono prevalentemente testi di area veneziana, pisana, genovese, senese, fiorentina e majorchina, e sono prodotti in un arco di tempo che, dal 1270 circa, raggiunge la seconda metà del Quattrocento (Spufford, in Kaufmannsbücher und Handelspraktiken, 2002).
Una prima tipologia, più antica ma persistente sino all’avanzato Quattrocento, è quella dei testi che si presentano in una veste essenzialmente pratica, che contengono cioè informazioni estremamente concrete e specifiche su prezzi, tassi di cambio, costo delle transazioni da un mercato all’altro e descrizioni delle usanze di piazza, così da apparire nella forma del manuale fatto per l’uso immediato: come nel caso della pisana Memoria de tucte le mercantie [che] caricano le navi in Alexandria (1278), della veneziana, trecentesca, Tarifa zoè noticia dy pexi e mexure di luogi e tere che s’adovra mercadantia per el mondo, ma anche della Pratica della mercatura composta verso il 1340 dal fiorentino Francesco Balducci Pegolotti, del manuale di mercatura composto a Genova da Saminiato de’ Ricci verso il 1396, o di El libro di mercatantie et usanze de’ paesi, il cui manoscritto fu copiato ed esteso a partire dal 1458 da Giorgio di Lorenzo Chiarini per conto di un altro mercante fiorentino, Ricciardo di Vieri del Bene (cfr. Borlandi 1963; Spufford, Weissen, entrambi in Kaufmannsbücher und Handelspraktiken, 2002).
In tutte queste opere, che derivano senza soluzione di continuità, direttamente o indirettamente, da quanto gli autori, spesso anonimi, avevano sperimentato durante la loro vita di commercianti, cambiavalute e finanzieri, la mercatura, o la mercatanzia, ci appaiono come un insieme di pratiche e di usi, difficilmente riassumibile in una sintesi: l’andamento tutto analitico dei testi, mentre da un lato dà voce alla vita contrattuale e valutaria dei mercati, dall’altro la rappresenta come una sequenza di gesti non riducibili a una norma o a un sistema di norme. È, palesemente, la consuetudine oppure il raffronto fra differenti logiche di codificazione a produrre regole intese esplicitamente, dagli autori dei testi, come di continuo riscrivibili, dinamiche in se stesse, come appunto il gioco dei prezzi, il rapporto fra le valute e le ‘tariffe’ doganali.
Contemporaneamente, in questa manualistica affiora nettamente il discorso collettivo di un gruppo in formazione, quello dei mercatores raccolti in compagnie, evidentemente orientato nel suo insieme a costruire un sistema di informazioni scritte, e che dunque è possibile scambiare, ma soprattutto trasmettere (Sapori 1967). È questo l’aspetto, forse, più economicamente rilevante prodotto da questa tipologia testuale, dal punto di vista di una storia della razionalità economica. Vi affiora, di fatto, la consapevolezza ormai chiara che potere economico e competitività significano, di giorno in giorno, informazione e cioè conoscenza rapidamente rinnovata delle situazioni commerciali, del gioco dei prezzi e delle dialettiche del cambio.
Al di là dell’apparente disordine o dell’apparente casualità che governano questi testi, inesorabilmente ripetitivi e risolutamente non narrativi, in essi si afferma con assoluta chiarezza la volontà economica di un ceto (ormai entrato, dalla fine del Duecento al Quattrocento, in una dimensione governativa e politicamente egemone) di affermare il controllo di un patrimonio di saperi la cui possibile trasmissione diventa, a questo punto, una garanzia essenziale di mantenimento dei ruoli conquistati dai protagonisti dell’Arte della mercatura nelle città a forte sviluppo economico.
Saminiato de’ Ricci, sul finire del Trecento, ragionando, per es., sui modi corretti e profittevoli del cambio, ossia sulle Regole da tenersi nel rimettere e trar denari, è esplicito:
Questo quaderno ti mostra assai chiaro il forte di quello ài da seghuire. Leggi spesso quello che al continuo ti bisongna più che niuna altra choxa, cioè le fiere e lle stagioni ove si vuole trovare chon denari a tempi, aciò ti vaglino bene, e così ti guarda dal contradio, cioè di non trovarti debito: il più delle volte n’aresi picchiate. E richordoti non sia mai vagho di rimetter i denari in luogho dove sia gran charestia, inperò dove è il gran charo de’ denari, ivi si mandono i denari contanti (cit. in Borlandi 1963, p. 138).
Giovanni di Bernardo da Uzzano, nel suo Libro di gabelle (composto verso il 1425, probabilmente a Firenze), è ancora più diretto:
Chi vuole essere buono cambiatore, conviene primamente avere termini e usanze delle lettere e come si paga in tutte le terre, ed esserne bene avvisato (cit. in Weissen, in Kaufmannsbücher und Handelspraktiken, 2002, p. 68).
In altre parole, il fine di questi manuali, al di là della comunicazione specificamente informativa che indubbiamente contengono (ma la cui portata non dev’essere sopravvalutata), è, dal punto di vista strettamente economico, spiccatamente educativo. L’obiettivo sostanziale è di istruire figli, eredi, confratelli e soci, a proposito dell’importanza addirittura vitale di essere informati, di essere al corrente, di minuto in minuto, dell’andamento dei mercati.
È qui, nei manuali italiani di mercatura due-quattrocenteschi, che il monopolio dell’informazione economica comincia ad apparire limpidamente nei termini di un elemento decisivo del gioco degli scambi, come un fattore determinante del profitto e la prima, più profonda radice di un’identità civica e intellettuale apertamente orientata a proporsi come soggetto dominante tanto dal punto di vista economico quanto da quello politico.
La cultura del mercante dei secoli XIV-XV sembra essere dunque una specificazione propria del nuovo tipo di impresa, del nuovo soggetto economico, quell’azienda che impone e consente all’imprenditore di raccogliersi esclusivamente nella direzione e nello studio dei fenomeni. Essa è conoscenza sistematica e razionale, know how […], informazione. Parallela all’accumulazione del capitale, ma in fondo consustanziale ad essa, è l’accumulazione delle conoscenze, che in questi secoli noi vediamo verificarsi dovunque operano i mercanti fiorentini: e i viaggi transoceanici di Da Verrazzano, Colombo, Vespucci, e le scoperte geografiche saranno appunto il frutto di questa duplice accumulazione (Del Treppo 1978, p. 36).
La manualistica mercantile esprime, insomma, al di là del catalogo di conoscenze sperimentate, un approccio metodologico all’organizzazione dello spazio politico previsto ormai come ambito che l’azione economica modificherà egemonizzandolo: «Attraverso l’informazione il grande mercante modella plasticamente lo spazio in cui opera» (Melis 1973; Del Treppo 1978, p. 37). La connessione diretta di questo sistema di informazioni a un’impostazione dei rapporti sociali che privilegia, seleziona e definisce il soggetto umano secondo la sua maggiore o minore capacità o attitudine di essere «tutto disposto alla bottega», ossia totalmente dedito agli affari e alla produzione (Del Treppo 1978, p. 31), appare chiara tanto nei manuali di mercatura quanto negli epistolari mercantili tre e quattrocenteschi, in testa a tutti quello di Francesco di Marco Datini (Melis 1962).
Questo orientamento culturale, che fa della mercatura una componente tutt’altro che neutra della storia sociale e politica italiana fra Tre e Quattrocento, ma anzi la colloca in primo piano sia dal punto di vista di una storia della razionalità economica, sia dal punto di vista di una storia dell’organizzazione del lavoro, sia dal punto di vista di una storia della trasformazione delle forme governative, è tuttavia meglio percepibile a considerare il rilievo che la mercatura come ‘arte’, ma anche come stile esistenziale, viene assumendo dal Tre al Quattrocento nelle memorie mercantili (Bec 1967; Mercanti scrittori, 1986; Ugolino di Niccolò Martelli, Ricordanze, 1989), e nelle ricapitolazioni della ‘filosofia’ imprenditoriale dell’epoca, ben esemplificate dai quattro Libri della famiglia (1443-41) del fiorentino Leon Battista Alberti, dal libro Della mercatura et del mercante perfetto (1458) del raguseo e cioè ‘veneziano’ Benedetto Cotrugli (o Kotruljević), nonché dal suo trattato De navigatione (1464-65).
È in effetti in queste forme molto particolari di scrittura mercantile, spesso sbrigativamente catalogate come ‘umanistiche’ o ‘precapitalistiche’, che la mercatura medievale viene definitivamente rappresentata come forma del discorso civile inerente nello stesso tempo all’accumulo di una ricchezza, ovvero di un patrimonio familiare o interfamiliare, e al precisarsi di un’organizzazione o di una riorganizzazione del governo delle realtà politiche all’interno delle quali l’azienda dei mercanti-banchieri viene a trovarsi.
In queste scritture il mercator appare, tridimensionalmente, come il protagonista di un mondo che, dal cielo dell’astrologia alla città pragmaticamente gestita dalle Arti maggiori o dai governi che a esse si rifanno, agisce nei campi, intesi come strettamente interdipendenti, della parola, della dialettica e della retorica, del calcolo, della morale, della religione e del diritto commerciale. L’arte di mercatura sarà dunque, secondo Cotrugli, meglio praticata da chi nasce sotto un certo pianeta:
Mercurio sexto pianeto sta in ciaschaduno signo XXXVIII giorni, compie lu cursu suo in CCCXXX giorni; fa li homini belli, parlaturi, mercanti, procuratori, iudici et advocati, et tractatori d’ogni cosa (Il trattato ‘De navigatione’, a cura di P. Falchetta, «Studi veneziani», 2009, 57, f. 56v).
Ma, d’altra parte, fare mercanzia in modo adeguato dipende nello stesso tempo dall’appartenenza civica e politica di chi arma una nave e di chi la fa navigare, sì che, sempre secondo Cotrugli, da questo punto di vista, e cioè per motivi ‘politici’, i mercanti genovesi, le cui navi sono armate, gestite e fatte navigare da genovesi, sono commercialmente più efficienti dei veneziani:
[Il padrone di una nave] deve essere participe della nave, non postizo, et in quisto Gienovesi mi pareno observanti, et loro accusano lo stile et lo ordine Venetiano, ch’è raro vel nunquam andò patroni si non postizi, et lo più delle volte foristeri. Et come nello armare delle galee tanto in guerra quanto in mercantia Veneciani sondo ordinatissimi et regulatissimi, coscì nello mandare le loro navi sondo inordinati, havendo patroni postizi et marinari et officiali de mille viscovati. Laudo multo in questo la consuetudine de Genuesi che li padroni delle loro navi o sondo gintil hommini, o populani Gienuesi, et li marinari et officiali Gienuesi da entro o de fora, in modo che lo patrone à grandissima cura de la nave et de la robba, et quando è ad uno bisogno, sondo tucti de uno animo et un sangue, et per consequens virilmente defende l’uno ad l’altro, et dessenno oppressi o vincitori tucti quanti sondo in uno grado, che dove guardi de navi che ando varietà de passioni li hommini de quella (Il trattato ‘De navigatione’, cit., f. 31v).
Custodia e cura della ‘robba’, ma anche della reputazione dell’esperto nell’arte della mercatura e della finanza, significano per Cotrugli (come per Alberti) sia avvedutezza nella gestione delle entrate e delle uscite, ossia razionalità della spesa, sia attenzione ai significati che, nella città e nel mercato, un certo criterio di spesa viene ad assumere.
Che diremo di chi compera grano a buon mercato in tempo della ricolta per tenerlo et venderlo a buon pregio? Rispondo: si può fare in cinque modi, et alchuna volta è peccato et altra no. E primo, pro commune bene, et questo fe’ Josep, che comperò grano per poter supplire in tempo di carestia. Secondo per provvedere la casa per sua bisogni, per tema che poi non venghi più caro, et poi liene avanza et vendelo più caro perché tanto valeva al mercato. Terzo, per pietà, che del guadagno provegghi i poveri. Quarto per exercitare iusta mercantia, non che intenda indurre carestia, ma che exerciti l’arte sua. Quinto, per avaritia, che ‘l vende più caro non pensando altra utilità e necessità, o per fare carestia, che congregato il grano siano constrecti comperare da lui a pregio a sua volontà (Il libro dell’arte di mercatura, a cura di U. Tucci, 1990, p. 198).
D’altronde, la capacità di distinguere fra i significati morali e civili delle logiche contrattuali coincide con un’abilità a distinguere, tanto etica quanto economica, fra chi è degno o indegno della fiducia del mercante. L’habitus selettivo si presenta a Cotrugli come quello che più profondamente qualifica il mercator professionista:
Guarda non credere a signori, preti et frati, scolari, doctori, genti d’arme, li quali per essere loro fuori d’ogni consuetudine di maneggiare danari et per consequens pagare ad altri, et di sua natura la pecunia è boccone ghiotto; et come l’à, l’huomo che non è uso a spenderla le dà tanta suavità al’animo che non la può gittare da sé et per consequens non la sa pagare. Che li mercanti anche fariano il simile se non fussi che al continuo danno et ricevono moneta, et quello dare si li convertisce in uso, il perché numerano dando et ricevendo et sanza alcuna passione, quia ab assuetis non fit passio, secondo sententia del Philosopho (p. 155).
La differenza, e siamo al cuore dell’identificazione del mercante come esperto dell’arte di mercatura, fra chi sa investire e cioè spendere in una prospettiva internazionale, e chi non sa farlo per mancanza di professionalità o per insufficienza di capitali, si afferma come assolutamente basilare:
Et nota che quando vedi che uno vuole da te credenza d’una mercantia che non è di suo mestieri et non è mercante gienerale che sia uso a comperare d’ogni specie di mercantia, et potissime quando sapessi che la vuole per rivendere, non liela vendere, però che lui compera per perder d’essa, et de contro alla honestà; secundario, perdendo lui, di che ti pagherà? (p. 155).
La mercatura come arte della spesa e dell’investimento appropriato, riservata a gruppi sociali dotati di mezzi e di competenze del tutto speciali, si rivela in definitiva fondata su di una tecnica affine a quella necessaria per l’arte del governare:
Diverso debbe essere l’ordine nel governarsi secondo diverse facultà et capitali che l’homo ha, però che altrimenti si debbe governare un riccho molto et altrimenti uno riccho mezzanamente, et altrimenti uno povero, perché alcuni sono acti al governo di molti danari, alcuni di poco, alcuni sono buoni a essere famigli delli altri, però che quelli che sono ricchi et hanno il governo di molte cose et grandi, debbono stare con l’intellecto sublevato et investigare le cose alte, et per ragione, che si dice gran nave gran travaglio (p. 158).
Ugolino di Niccolò Martelli, Ricordanze. Dal 1433 al 1483, a cura di F. Pezzarossa, Roma 1989.
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Il trattato “De navigatione” di Benedetto Cotrugli (1464-65). Edizione commentata del ms. Schoenberg 473 con il testo del ms. 557 di Yale, a cura di P. Falchetta, «Studi veneziani», 2009, 57, pp. 15-335.
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