meridionalismo
Insieme degli studi storico-economici sulle cause del sottosviluppo del meridione d’Italia e sulla possibilità di una rinascita politica ed economica del Mezzogiorno.
A partire dagli anni 1870, emerse nell’Italia unificata la consapevolezza di una questione meridionale (➔ meridionale, questione) che attirò l’attenzione di numerosi studiosi e uomini politici, fra cui G. Fortunato, N. Colajanni, G. Salvemini, F.S. Nitti, A. De Viti De Marco. L’analisi della situazione era molto chiara a tutti, ma assai diverse erano le interpretazioni delle cause. Fu tuttavia solo quando del problema delle arretrate condizioni di molte aree del meridione si interessarono uomini politici come G. Zanardelli e G. Giolitti che qualche provvedimento iniziò a profilarsi. La ‘legislazione speciale’ varata in età giolittiana si ispirava all’idea nittiana dell’utilizzo delle risorse idriche dell’Appennino a scopi di migliore distribuzione dell’acqua nel Mezzogiorno (anche per irrigazione) e a scopi di produzione di energia elettrica (il carbone bianco). A questa linea si aggiunse anche il sostegno all’industrializzazione di Napoli, una grande città che non vedeva concretizzarsi quella modernizzazione industriale, che invece si stava diffondendo altrove. A Bagnoli venne localizzata una nuova moderna fabbrica siderurgica, completata tra il 1910 e il 1911. Nitti era convinto che per fare progredire il Mezzogiorno occorresse allontanarsi dall’uniformità legislativa e attivare politiche di intervento su larga scala.
I due provvedimenti che il governo fascista ritenne potessero avere ricadute positive per il Mezzogiorno non si rivelarono affatto significativi: la ‘battaglia del grano’ e la ‘bonifica integrale’. La prima ritardò il trend verso la specializzazione colturale (frutta, verdura, olio, vino), più adatta a valorizzare l’agricoltura meridionale di quanto non potesse fare la produzione estensiva di grano nelle poche pianure del Sud; la seconda, che sulla carta poteva davvero essere benefica, si scontrò con la scarsa volontà dei latifondisti meridionali di costituire consorzi di bonifica, cosicché solo il 12% della spesa totale per la bonifica fu destinata al Mezzogiorno, anche perché il regime si rifiutò di usare l’arma dell’esproprio, come A. Serpieri aveva reclamato. Ma altre ragioni si aggiunsero ad allargare di molto il divario fra Centro-Nord e Sud in periodo fascista. Durante la Prima guerra mondiale lo Stato italiano aveva dovuto investire nel triangolo industriale per produrre armamenti; finita la guerra, si dovette procedere a una serie di salvataggi di imprese, sempre localizzate nel triangolo. Seguì la crisi del 1929, che rese necessario un grosso intervento pubblico attraverso l’IMI e l’IRI (➔) per sostenere la base industriale del Paese, sempre nella sua localizzazione storica. La Seconda guerra mondiale vide di nuovo lo Stato italiano impegnato nella spesa bellica e poi nella ricostruzione. Tutte queste vicende convogliarono una quantità massiccia di spesa pubblica in appoggio all’industria fuori dal Mezzogiorno, rendendo necessario durante la ricostruzione il disegno di una nuova legislazione speciale per il Sud.
Alla fine del 1946, un gruppo di personalità prevalentemente legate agli ambienti dell’IRI (P. Saraceno, F. Giordani, D. Menichella, R. Mattioli) fondò la SVIMEZ (➔), un’istituzione che si proponeva di elaborare interventi di rilancio dell’economia meridionale basati sulle esperienze americane del New deal (➔). Nel marzo 1950 venne presentato un disegno di legge di creazione di un ente straordinario, a cui Menichella diede il nome di Cassa per il Mezzogiorno (➔). La legge fu approvata nel 1951 e le prime attività furono rivolte all’agricoltura (acquedotti e sistemi di irrigazione), per dare man forte alla legge di riforma agraria approvata nel 1949 (che provvedeva all’eliminazione dei latifondi). Solo verso la fine degli anni 1950, la Casmez iniziò a occuparsi di industrializzazione. L’approccio seguito fu quello di attirare al Sud grandi impianti delle imprese di Stato e private, con generosi contributi in conto capitale. Gli anni fino alla metà del decennio 1970 sono gli unici in cui il divario Nord-Sud ha accennato, sia pure lentamente, a colmarsi. Le crisi petrolifere, gli errori commessi nell’eccessivo aumento di capacità dell’industria pesante, insieme con la china assistenzialistica e clientelare imboccata dagli interventi della Casmez, fermarono però questo trend, che sembrava per la prima volta positivo. Inizialmente parve che il problema fosse la Casmez e se ne tentò una riforma a metà degli anni 1980 (Agensud), ma poi si arrivò alla sua chiusura nel 1992. A contrastare gli effetti negativi di questa diminuzione dell’intervento speciale stava solo la copertura nazionale del welfare, che portò al Sud consistenti trasferimenti, di carattere però esclusivamente assistenziale.
A partire dal 1993, si è lavorato nel Mezzogiorno attraverso la politica regionale dell’Unione Europea, che ha usato strumenti come i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti d’area, ma gli ingenti flussi di sussidi che hanno raggiunto il Sud Italia, combinati con un decentramento che responsabilizzava maggiormente gli enti locali, in particolare le amministrazioni regionali, non hanno in generale sortito un cambiamento di passo: clientelismo, inefficienze, sfrangiamento delle iniziative, incapacità gestionali nell’uso delle nuove infrastrutture prodotte sono tutti fenomeni che si sono moltiplicati, suggerendo amare riflessioni a più di un osservatore (fra cui, in modo sistematico, l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, ➔ SVIMEZ). Fra le regioni meno sviluppate dell’Unione Europea, quelle del Sud Italia sono fanalino di coda nella performance, fra le poche che non hanno dimostrato capacità di convergenza. Le spiegazioni di questo grave insuccesso delle politiche ‘meridionalistiche’ puntano alla carenza di capitale sociale (➔), all’origine anche della diffusione della criminalità organizzata, e all’intervento assistenzialistico dello Stato centrale, che disincentiva responsabilità e imprenditorialità.