Meridionalismo
Vi è ampio dibattito su quale fosse il divario Nord-Sud al momento dell’Unità. Certamente per molti aspetti le due aree erano significativamente diverse. La logistica del Nord era più adatta di quella del Mezzogiorno a profittare delle opportunità di sviluppo che di per sé la massa critica conseguita con l’Unità offriva; sempre il Nord poteva contare su infrastrutture più moderne e su un più articolato mercato dei capitali.
Ma, quale che fosse il divario iniziale, più che il contrasto tra i numeri (Eckaus 1960; Pescosolido 1998; Daniele, Malanima 2007) conta il fatto che esso andò progressivamente aumentando a danno del Sud nel corso del tempo.
Che la questione napoletana fosse la principale sfida per il nuovo Regno era ben presente a Cavour; eloquente la raccomandazione al re la sera prima di spirare:
L’Italia del Settentrione è fatta, non vi sono più né lombardi, né piemontesi, né toscani, né romagnoli, noi siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i napoletani. [...] Bisogna moralizzare il Paese, educare l’infanzia e la gioventù [...] ma non si pensi di cambiare i napoletani coll’ingiuriarli [...] Niente stato d’assedio, nessun mezzo da governo assoluto [...] Io li governerò con la libertà [...] In venti anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio, ve lo raccomando (cit. in De la Rive 1863; trad. it. 1951).
Il 2 agosto 1861, sul giornale francese «La patrie», Massimo D’Azeglio torna sulla questione nella lettera al senatore Carlo Matteucci:
la questione di Napoli – restarvi o non restarvi – mi sembra dipendere soprattutto dai napoletani; [...] occorrono, e pare che non basti, 60 battaglioni per tenere il Regno; [...] bisogna [...] trovare il mezzo per sapere dai napoletani [...] se ci vogliono o non ci vogliono [...]. Agli italiani che, pur restando italiani, non intendono unirsi a noi, non abbiamo il diritto di rispondere con le archibugiate.
In realtà, la linea delle archibugiate prevalse e in pochi anni questo aspetto della Questione fu risolto manu militari (E. Novelli, Diario di guerra, 1860-1861, 1961).
In tale quadro è corretto datare la nascita del meridionalismo agli anni successivi alla ‘normalizzazione’. La ricca analisi critica nella quale si sostanzia l’impegno meridionalista si legittima nel rivendicare l’applicazione dei principi risorgimentali ispiratori del progetto unitario.
L’inchiesta in Sicilia di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti del 1877, i resoconti del viaggio di Giuseppe Zanardelli, le Lettere meridionali del 1878 di Pasquale Villari, e poi gli scritti di Giustino Fortunato aprono il ricco filone del meridionalismo classico, una letteratura critica di analisi sociale che vedrà cimentarsi studiosi delle più diverse ispirazioni ideologiche: dai liberali Antonio De Viti De Marco, Fortunato, Piero Gobetti, Luigi Einaudi, Benedetto Croce, al cattolico Luigi Sturzo, ai radicali e socialisti come Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, o marxisti come Emilio Sereni e Antonio Gramsci. Ovviamente, anche i più accreditati storici, studiosi dello sviluppo italiano, debbono fare i conti con l’ostinata incoerenza tra unità politica e mancata unificazione economica.
Nei primi venti anni, l’abolizione delle barriere doganali con l’adozione della tariffa sabauda, ebbe effetti positivi sull’agricoltura meridionale, mentre penalizzò l’industria del Sud fortemente dipendente dalla protezione statale.
Dal 1887, l’evoluzione favorevole della produzione agricola e dell’indotto manufatturiero locale fu bruscamente interrotta dall’adozione (sostenuta da molti parlamentari del Sud) di una linea fortemente protezionistica tesa a favorire la nascente industria (del Nord) e le produzioni dell’agricoltura estensiva (del Sud). I Paesi concorrenti (in primis la Francia), adottarono simmetriche politiche protezionistiche che penalizzarono le produzioni mediterranee, con il risultato che il Mezzogiorno vide bloccarsi il ‘suo’ motore di sviluppo senza che il nucleo industriale smantellato nel precedente ventennio potesse rientrare in gioco per effetto della protezione doganale. Né la protezione accordata alla produzione del grano compensò il danno alle esportazioni di prodotti mediterranei; essa servì piuttosto a garantire i profitti dell’agricoltura capitalistica al Nord e le rendite dell’agricoltura estensiva agli agrari assenteisti del Sud.
La necessità di promuovere una maggior produttività dell’agricoltura meridionale si sarebbe potuta soddisfare solo modificando le strutture agrarie, promuovendo il progresso tecnico, dando vita a un ingente volume di opere pubbliche. L’inerzia su questo fronte sancisce (con la formula del ‘blocco storico’) il compromesso fra la borghesia (agraria prima e industriale poi) del Nord e i grandi proprietari terrieri del Sud. La questione agraria è la chiave analitica sviluppata da meridionalisti come Sereni e Gramsci, ed è significativo il fallimento, in pieno regime fascista, del progetto di bonifica integrale del Mezzogiorno avviato dal ministro Arrigo Serpieri.
In aggiunta, meridionalisti come De Viti De Marco e Nitti denunciano un aspetto – persistente fino ai giorni d’oggi – rappresentato dagli sfavorevoli effetti redistributivi della politica tributaria e di spesa del governo.
La classe dirigente del Mezzogiorno svolge un ruolo doppiamente funzionale: per un verso nel mondo rurale (tesi gramsciana) bilancia il potenziale rivendicativo della classe operaia del Nord; dall’altro (tesi di Rosario Romeo) assicura al Paese una ‘necessaria’ accumulazione originaria.
Fatta eccezione per le localizzazioni industriali dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), durante il fascismo l’industria del Mezzogiorno resta strettamente legata alle vicissitudini dell’agricoltura e perciò l’insufficiente dinamica di quest’ultima frena lo spirito imprenditoriale, ostacola il sorgere di piccole imprese e di uno strato sociale autenticamente borghese.
In questo contesto al drenaggio di capitali dal Sud via politica fiscale si affiancano le rimesse degli emigranti, decisive per l’equilibrio delle partite correnti nazionali. Il mantenimento delle strutture latifondiste del Sud, il ristagno e la persistente tendenza alla riduzione dei consumi incentivano, infatti, l’emigrazione di massa verso l’estero.
In tal senso non è condivisibile la tesi di Alexander Gerschenkron che il Mezzogiorno abbia avuto un ruolo del tutto marginale ai fini dell’industrializzazione del Paese. Senza considerare che il Meridione è già un mercato interno per l’industria del Nord, pur limitato dallo scarso potere di acquisto. In questa «emarginazione dipendente» vi è chi vede – ancora De Viti De Marco, Salvemini – consolidarsi i tratti di un’economia coloniale.
Dunque, fino al secondo dopoguerra, il Sud non ha un ruolo attivo nello sviluppo economico italiano, assolve invece la duplice funzione di garantire il controllo sociale e di alimentare trasferimenti di risorse finanziarie.
La conseguenza, quale che fosse l’iniziale divario, è una crescente emarginazione produttiva dell’area.
All’«emarginazione dipendente» in economia contribuiscono, tuttavia, anche altri fattori di per sé tutt’altro che negativi.
Pasquale Saraceno (2005, pp. 152-53) oltre alla politica doganale cita lo sviluppo della rete ferroviaria che favorisce i grandi gruppi del Nord interessati ai mercati di sbocco. Le fragili imprese locali subiscono così la concorrenza della componente più dinamica dell’apparato produttivo.
L’avvento dell’energia elettrica (al Nord energia idroelettrica) al Sud – con un potenziale idroelettrico del 10% nazionale – impone il ricorso alle centrali termoelettriche. In assenza di qualsiasi perequazione il prezzo di offerta dell’energia al Nord è «pari alla metà e anche a un terzo dei prezzi correnti nel Sud». Anche grandi eventi – la Prima e la Seconda guerra mondiale – acuiscono il divario di prodotto pro capite (del 43% nel 1944, salito al 53% nel 1951).
I problemi della ricostruzione dell’apparato produttivo e dello Stato democratico impongono scelte di tale rilevanza che la Questione meridionale, pur nell’emergenza del malcontento contadino e bracciantile, non è immediatamente affrontata.
Le risorse accordate dagli Alleati per un ‘primo aiuto’, inizialmente destinate alla riattivazione dell’apparato industriale di Napoli (secondo polo industriale italiano) vengono dirottate al Nord appena si accerta che le fabbriche sono intatte e abbisognano di materie prime e semi lavorati. In pochi giorni, a Milano, Saraceno, con Rodolfo Morandi allora a capo del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) dell’Alta Italia, elabora il nuovo piano.
Fronteggiata l’emergenza, risolta la questione istituzionale (Barucci 1975), occorre dare risposta al movimento dei contadini meridionali che aveva portato, fin dal 1944, all’invasione delle terre incolte dei latifondi e a scontri cruenti tra le forze dell’ordine e le bande manovrate dai proprietari terrieri. Le condizioni drammatiche in cui versa il Mezzogiorno impongono un approccio totalmente nuovo ai problemi del Sud. Si apre la strada alla linea di azione del cosiddetto neomeridionalismo.
Nel 1946 Saraceno dà vita a Napoli alla SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), Morandi ne è il primo presidente. La SVIMEZ è l’influente think tank operativa del neomeridionalismo. Una linea che la Cassa per il Mezzogiorno rafforzerà sul versante agrario negli anni Cinquanta dando vita a Portici, con Ford Foundation e Giannini Foundation, al progetto di Manlio Rossi-Doria per il Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno (Costabile 2004).
È lo stesso Saraceno (2005) a evocare la stretta connessione tra Piano di primo aiuto e neomeridionalismo:
I nuovi meridionalisti passarono pragmaticamente, [...] dai ragionamenti sugli elenchi delle merci da importare per la riattivazione della nostra industria secondo il Piano di primo aiuto [...] allo studio delle politiche e delle relative istituzioni che [...] consentissero la formulazione di sensate alternative a quell’utilizzo. Già nel dicembre 1946 nascerà così la SVIMEZ; presso di essa si concreterà l’idea di intervento straordinario e, in seguito, una serie di prese di posizione che, condivisibili o non condivisibili, appartengono alla tematica dello sviluppo e non a quella dell’assitenza (p. 97).
Rispetto al meridionalismo classico di stampo liberale il «nuovo meridionalismo» sostiene che non è possibile affidarsi all’agire del mercato e propone un intervento dello Stato sistematico di stampo programmatorio che, oltre ad affrontare la questione agraria, punti all’industrializzazione del Sud. È una visione che ha radici nell’impostazione nittiana ora aggiornata così da contribuire all’elaborazione di una ‘teoria’ dello sviluppo economico che farà dell’esperienza italiana un caso di studio. L’intervento attivo dello Stato è centrale (Mezzogiorno e programmazione, 1980), e questa impostazione, lungi dall’essere autarchica o collettivista, è in sintonia con la più accreditata dottrina sull’economia dello sviluppo: Arthur Lewis, Paul Narcis Rosenstein-Rodan, Hollis B. Chenery, Gardner Ackley, Gunnar Myrdal, Jan Tinbergen, direttamente o indirettamente, sono interlocutori, a volte amministratori della SVIMEZ e delle politiche della Cassa per il Mezzogiorno. Questa linea si giovò dell’appoggio decisivo delle autorità statunitensi e della finanza internazionale alla Cassa, istituita nel 1950 sul modello della Tennessee Valley Authority. Le tesi del neomeridionalismo vengono considerate un’appropriata risposta all’emergenza sociale in un momento in cui l’adesione al blocco atlantico da parte dell’Italia veniva fieramente osteggiata da un forte Partito comunista legato all’Unione Sovietica.
Sul versante politico le due riforme strutturali (riforma agraria e Cassa per il Mezzogiorno), decisive per la dissoluzione del vecchio blocco storico, avviano il Paese, con la ‘modernizzazione’ del Sud, verso il miracolo economico degli anni Sessanta. Punti chiave del neomeridionalismo sono: a) riforma radicale in agricoltura e infrastrutturazione del territorio, da affiancare a una politica attiva di industrializzazione per fare uscire il Mezzogiorno dalla sua arretratezza economica e sociale; b) intervento dello Stato volto a modificare le convenienze dei privati così da rendere profittevole la localizzazione di nuovi investimenti al Sud; c) la convinzione che lo sviluppo del Mezzogiorno sia indispensabile per la tenuta e lo sviluppo dell’intera economia e, quindi, che l’intervento pubblico sia nell’interesse generale.
Le imprese a partecipazione statale, in funzione antimonopolista (caso della chimica di base) e strumento diretto di politica industriale, sono – assieme alla Cassa – il braccio operativo di questa strategia.
Il compito di realizzare questi obiettivi è svolto da pochi uomini (i «cento uomini d’acciaio» evocati da Dorso nell’articolo Ruit hora, «Irpinia Libera», 1943, 3). Come sostiene Rossi-Doria nel 1958 in una lettera a Francesco Compagna,
Dal tuo e dal mio scritto come da quelli di Saraceno e così via vien fuori una piattaforma politica per il Mezzogiorno molto concreta. Dobbiamo obbligare tutti uno per uno a prendere netta posizione al riguardo e questo potrà avvenire negli anni prossimi tanto meglio quanto più saremo svincolati dalle attività di partito (Una vita per il Sud. Dialoghi epistolari 1944-1987, a cura di E. Bernardi, 2011, p. 111).
Economisti borghesi come Saraceno e marxisti come Morandi convengono con il ruolo di regista dello Stato che non deve sostituire l’iniziativa privata, ma aiutarla a colmare debolezze strutturali e attivare «fattori di agglomerazione» idonei a far affluire risparmio privato da investire nella produzione. La riforma agraria (Rossi-Doria 1958), assistita dalla tecnostruttura della Cassa, ha il compito di realizzare quel recupero di produttività che renderà possibile liberare forza lavoro dalle campagne senza deprimere – anzi sviluppando sensibilmente – la produzione agricola. Si realizza così la condizione per alimentare – via migrazioni interne – l’occupazione industriale del Settentrione senza tensioni inflazionistiche, avviando in tal modo la transizione verso una compiuta economia di mercato.
Le critiche alle proposte del neomeridionalismo si richiamano – a sinistra – alle analisi di Sereni e di Gramsci. Il Partito comunista, in particolare, ritiene che la soluzione della Questione meridionale non possa avvenire attraverso interventi tecnici che non determinino un radicale mutamento dei rapporti di classe della società meridionale e, più in generale, italiana. Queste posizioni sottovalutano la portata delle discontinuità che le riforme determinavano, sia pur in veste tecnocratica.
Sul versante liberale, l’avversione all’intervento statale impedisce, nell’immediato, di avviare la politica di industrializzazione. Sconfitto nel 1948 il Fronte popolare, l’affermazione della politica economica liberista di Einaudi e Donato Menichella frena ancora le posizioni favorevoli a un più intenso intervento dello Stato. All’industrializzazione del Sud si oppongono gli imprenditori del Nord, contrari al sorgere di concorrenti in un mercato che è loro riserva. È poi condivisa la preoccupazione di creare nel Mezzogiorno «doppioni» di impianti settentrionali. Gli industriali guardano inoltre con timore alla scelta di apertura fatta nel 1957 dal governo italiano sottoscrivendo a Roma il Trattato istitutivo del mercato comune europeo. Dalla risposta a questo timore verrà, a fine anni Cinquanta, il via libera all’industrializzazione del Sud.
L’azione della Cassa si limita inizialmente agli investimenti infrastrutturali pubblici previsti dalla riforma agraria, utile premessa a una futura industrializzazione per la quale si vara un’incentivazione finanziaria rivolta solo alle piccole imprese locali. Questa linea di condotta si ispira alla teoria del big push (infrastrutturazione, preindustrializzazione, incentivi alle imprese locali) di Rosenstein-Rodan che prevede un intervento settorialmente bilanciato per evitare di determinare strozzature che ostacolino un ordinato progresso generale della realtà sulla quale si interviene. Ma la fragile struttura delle imprese meridionali non è in grado di cogliere le opportunità dell’intervento pubblico e il censimento del 1961 registra un sensibile declino manifatturiero. È l’industria del Nord a trarre vantaggio dalla ripresa della capacità di acquisto del Mezzogiorno.
Il mutato quadro internazionale (Trattato di Roma, 1957) e le deludenti performances dell’incentivazione alle imprese locali ridanno fiato all’industrializzazione come strategia di intervento attivo declinata secondo varianti dettate da precise contingenze, tutte comunque in linea con una politica di ‘sviluppo sbilanciato’ che fa affidamento su un intervento ‘esterno’ per avviare un processo di crescita generalizzato.
L’azione neomeridionalista si iscrive nel solco delle politiche attive dell’offerta, tese, cioè, con il concorso dello Stato a rimuovere vincoli e ad attrezzare e potenziare la struttura produttiva. I neomeridionalisti giudicano inadatte al Sud politiche – impropriamente dette keynesiane – tese ad alimentare la domanda aggregata con il sostegno ai redditi di famiglie e imprese: di fronte a carenze di capacità produttiva rimasta inutilizzata non si avrebbero effetti produttivi, e – in un sistema dualistico – l’effetto moltiplicativo favorirebbe l’apparato produttivo settentrionale, consolidando al Sud la già scarsa competitività delle imprese locali.
Sono invece considerati rilevanti (questi sì keynesiani) gli effetti espansivi delle politiche dell’offerta. Sull’opportunità di tale indirizzo si dividerà il campo liberale. Favorevoli economisti ortodossi come Costantino Bresciani Turroni (1957), agnostico un liberista come Epicarmo Corbino; nettamente contrari – e in grado di dilazionarne l’avvio – economisti come Einaudi (Lo scrittoio del Presidente, 1956) che si domanda «esistono oggi in Italia [...] fattori produttivi disoccupati?» e per il quale la disoccupazione involontaria è «un assurdo teorico»: avviata la riforma agraria e la «preindustrializzazione» egli raccomanda di affidare il Mezzogiorno alla cura dei meccanismi spontanei di mercato.
Altra critica riguarderà l’attuazione della politica attiva che attraverso le partecipazioni statali procede con l’avvio di grandi impianti dell’industria di base ad alta intensità di capitale: scelte – si sostiene – del tutto inadatte a una realtà afflitta da eccesso strutturale di mano d’opera (esemplare il dibattito tra Vera Lutz, Augusto Graziani, Luigi Spaventa, Ackley): una critica plausibile in sé e, al contempo, mal posta se si inquadra quell’azione nel giusto contesto di riferimento che non è quello esclusivamente meridionale, bensì quello nazionale.
Dopo meno di due decenni di intervento, il Mezzogiorno risulta ben diverso dall’immagine tramandata dal meridionalismo classico, specie per due tratti caratteristici della società meridionale: il suo ruolo passivo e il suo stato di sostanziale emarginazione.
Per la prima volta dall’Unità, tra il 1957 e il 1974, si realizza un significativo processo di convergenza dell’economia meridionale rispetto alle medie nazionali: dal 53% del 1951 il divario scende al 34% per effetto delle imponenti migrazioni interne e del rapido aumento della produttività.
Per un ventennio protagonista sulla scena economica del Paese, il Sud alimenta il fiume di immigrati che lo sviluppo industriale attrae al Nord. In parallelo l’industrializzazione esterna alimenta il processo di integrazione e di costruzione di un mercato nazionale influendo intensamente su modelli e valori delle società locali via, via omologati a quelli della parte più sviluppata del Paese.
La convergenza si interrompe a metà anni Settanta; riprende – debole e breve – molto dopo, dal 1998 al 2003, ma per il rallentamento dell’economia del Centro-Nord che segue l’avvio dell’unione monetaria e il divario di PIL pro capite si attesta al 40%. La convergenza ‘vera’ è quindi il portato di un’intensa politica dell’offerta che corre sulle gambe dell’intervento infrastrutturale e di fasi (1959-1965 e 1969-1973) di politica attiva di industrializzazione centrata inizialmente sullo sviluppo dei settori di base, oggetto di durissime critiche ma, in realtà, parte fondamentale di una strategia industriale nazionale che utilizza accortamente le deroghe a favore del Mezzogiorno inserite in un paragrafo (redatto da Saraceno) del Trattato di Roma del 1957.
Le già citate resistenze all’industrializzazione propugnata dai neomeridionalisti sono infatti vinte solo dopo l’avvio del Mercato comune europeo, e non è casuale il tipo di industrializzazione realizzato in quella fase. Le partecipazioni statali, infatti, realizzano quell’industria di base che risulterà strategica per i successi delle industrie esportatrici italiane. I benefici della politica regionale (con i contributi a fondo perduto e in conto interessi) inizialmente limitati al sostegno delle piccole imprese, vengono infatti rapidamente estesi a qualsiasi impianto. Si attua una politica di infant industry, formalmente esente da quegli elementi protezionistici ormai impraticabili per il Trattato di Roma (Amato 1972). Le resistenze degli industriali settentrionali sono così superate.
Le esigenze dello sviluppo industriale del Sud sono coincidenti (in una prima fase subordinate) con quelle dell’industria nazionale. Successivamente (dal 1969 al 1973) il Mezzogiorno sperimenta un processo di intensa accumulazione industriale in settori manifatturieri delle seconde lavorazioni (meccanica, elettronica, aeronautica e automobilistica). Si attivano allora quegli effetti indotti vanamente attesi dalla fase degli investimenti nell’industria di base (Del Monte, Giannola 1978). Le imprese locali segnalano una notevole vivacità proprio nei settori nei quali sono più intensi gli investimenti esterni (Giannola 1986). Protagonisti sono ora i gruppi privati e multinazionali e una folta schiera di piccoli e medi imprenditori delle aree forti del Paese.
Per la prima volta, per una stagione brevissima, sviluppo locale e industrializzazione esterna manifestano un’intensa capacità di alimentarsi a vicenda mostrando di poter innescare un circolo virtuoso che dall’economia proietta i suoi riflessi sulla società.
A metà degli anni Settanta il Mezzogiorno può considerarsi un sistema industriale in consolidamento con molti tratti di fragilità e macroscopiche inefficienze, ma con una base identificata di vocazioni e di potenzialità.
Il neomeridionalismo realizza un complesso disegno di respiro nazionale. Sarebbe infatti errato, come si fa solitamente, valutare questa strategia alla luce delle sole vicende meridionali. L’innovazione è invece la capacità di connettere Nord e Sud in un progetto comune decisivo per il decollo dell’economia che si affaccia sul mercato internazionale. Così, duttile, articolato, non privo di contraddizioni, il modello di riferimento, dopo l’inizio ispirato alla filosofia del big push, cambia rapidamente: grandi impianti, dapprima senza forti capacità di attivazione se non a monte (i meno favorevoli per il Sud) per arrivare, infine, secondo l’ottica hirschmaniana di «una cosa che conduce a un’altra» avviano una strategia di sviluppo sbilanciato capace di attivare a monte e a valle ‘filiere’ che cominciano a popolare il territorio. Una strategia centrata sul ruolo trainante e fertilizzante – nel quasi deserto industriale del Sud di allora – della grande impresa.
E la crisi della grande impresa italiana degli anni Settanta sarà fatale per l’azione del neomeridionalismo, sostanzialmente bloccata nel decennio successivo e quasi cancellata dalla deindustrializzazione avviatasi a metà degli anni Ottanta (Giannola 1993). Di questa regressione vanno ricordati due aspetti.
Il primo è la risposta all’esigenza di adattamento strutturale che la crisi energetica del 1974 impone e che interrompe la politica neomeridionalista orientata a realizzare con l’industrializzazione un’effettiva redistribuzione dello sviluppo.
Il secondo è l’illusione (figlia di un malinteso keynesismo) che la costruzione, tardiva, dello stato sociale possa sostituirsi – con i suoi meccanismi redistributivi e di sostegno alla domanda – alle politiche attive con le quali si era affrontato il divario Nord-Sud.
La tesi che dalla domanda possano determinarsi ‘dal basso’ significativi effetti strutturali verrà proposta da allora in poi per il Sud. Lo sviluppo ‘endogeno’ è al centro del dibattito (CENSIS 1981; Mezzogiorno possibile, 1983; Il Mezzogiorno degli anni ’80, 1985; Sylos Labini 1985; Mezzogiorno e meridionalismo, 1987). Il fallimento di questa ‘missione impossibile’ peserà nel giudizio sul Sud visto sempre più come sistema ‘a parte’, sinonimo di assorbimento improduttivo di risorse, in cui si concentrano storture e vizi capitali della società italiana.
Su queste premesse giunge, nel 1992, in piena crisi finanziaria, la precipitosa chiusura dell’intervento straordinario. La disoccupazione passa dal 15% del 1992 al 20% del 1998 (al Nord dal 7% al 6,7%) e il prodotto regionale – fermo fino al 1995 – riprende lentamente con un tasso medio annuo dello 0,9% per l’intero periodo.
Dal 1998 il Sud è affidato alle Regioni con la Nuova programmazione dei fondi europei. La riforma del titolo V cancella nel 2001 il riferimento al Mezzogiorno dalla Costituzione; l’ostinata persistenza del dualismo diviene ufficialmente il problema di un’anonima area ‘sottoutilizzata’.
La parola d’ordine degli anni Cinquanta e Sessanta sul Mezzogiorno è stata modernizzazione e lo sviluppo del mercato ha realizzato, in chiave economica, la modernizzazione (Lewis 1954).
La modernizzazione, a causa dello squilibrio indotto e programmato, mentre rompe l’emarginazione determina e qualifica una condizione di dipendenza economica. Infatti, nella misura in cui si inserisce l’obiettivo del riequilibrio territoriale nel tradizionale schema di Lewis (ovvero nel passaggio della forza lavoro dal settore agricolo tradizionale al settore industriale moderno) e quindi si pone (per una politica di industrializzazione e di sviluppo delle infrastrutture) la necessità di far nascere anche nella realtà arretrata un polo consistente del settore dinamico, la dipendenza è proprio indotta dalle risorse necessarie a promuovere lo sviluppo: si tratta, quindi, di un ingrediente necessario, augurabilmente transitorio, in misura del successo della strategia (Giannola 2011).
Questo punto cruciale incorpora un’inevitabile ambiguità: la dipendenza che occorre programmare per il decollo dell’area arretrata è, a sua volta, uno spazio di potenziale alimentazione delle relazioni clientelari a carattere interpersonale (Costabile, Giannola 1996).
Se in questo interregno precario – condizionato ma non dominato dal clientelismo – si azzerano le risorse per sostenere la politica attiva di sviluppo, la possibilità di riformare la società e le istituzioni viene minata alla base. Ciò, alla lunga, si riflette non solo sulla società locale, ma anche sulla parte avanzata del sistema e la dipendenza da fisiologica diviene patologica (cioè strutturale).
Dalla convergenza di interessi si passa gradualmente a una difficile convivenza che sfocia rapidamente nel conflitto.
Nell’esperienza italiana degli anni Ottanta tre sono i canali che alimentano questa deriva.
In primo luogo, lo sviluppo tardivo dello Stato sociale che ha alimentato un automatico flusso di trasferimenti correnti verso il Sud dove risiede la popolazione a minore capacità fiscale.
Un secondo aspetto è il ruolo del settore pubblico sul mercato del lavoro. Nelle aree depresse, l’espansione più contenuta del resto del Paese produce una lievitazione della quota dei lavoratori del settore pubblico rispetto a quelli del settore privato.
Il terzo canale coinvolge le imprese meridionali con il sistema di fiscalizzazione degli oneri sociali e contributivi iniziato negli anni Settanta. La natura di sussidio di questa misura si afferma proprio negli anni Ottanta quando, finita l’industrializzazione esterna, il sistema di fiscalizzazione va a proteggere le imprese locali.
Tali dinamiche portano allo spiazzamento delle politiche di sviluppo. A parità di risorse, queste sono dirette al sostegno dei redditi e quindi della domanda locale piuttosto che alla promozione dell’offerta e del mutamento strutturale (Trigilia 1992). La dipendenza e la sua patologia vengono sempre più gestite dal ceto politico (Gribaudi 1980; Barucci 2011).
È a questo punto quasi inevitabile imputare all’area debole di adagiarsi nello spreco, nella disoccupazione e nell’assistenza. Una premessa ideale per aprire un contenzioso tra le sezioni sempre più divaricanti della società.
A far deragliare il treno dello sviluppo sono eventi internazionali quali la crisi monetaria, energetica e politica dei primi anni Settanta che sconvolgono la lunga espansione del secondo dopoguerra.
Gli anni del cosiddetto aggiustamento strutturale affidano il Sud al mito autopropulsivo fino alla repentina cancellazione dell’intervento straordinario nel 1992. Si avvia una nuova fase di marginalizzazione del Mezzogiorno il cui ruolo torna a farsi passivo, ingombrante intralcio di un Nord virtuoso. Dal neomeridionalismo si transita a un ameridionalismo, preludio di un vero e proprio antimeridionalismo.
L’aggiustamento strutturale procede – secondo uno schema (legge 675) che replica la vicenda del ‘piano di primo aiuto’ del 1946 – fronteggiando la crisi della grande impresa nelle aree forti e affidando il rilancio dell’economia al decentramento produttivo e all’impetuoso sviluppo del ‘modello distrettuale’. Centrato sulle virtù delle piccole imprese capaci di cavalcare il paradigma della specializzazione flessibile, il successo distrettuale, oltre a indubbi meriti propri, deve molto al non secondario ingrediente protettivo fornito dalla duttile strategia di svalutazioni competitive del cambio praticata dal 1973 fino all’acuta crisi finanziaria del 1992-93.
Quanto al Sud, la sua natura dipendente ne esalta ora il ruolo di mercato di sbocco per le produzioni settentrionali, e affida alle imprese locali un ruolo di subfornitrici (le cosiddette esportazioni interne, spesso sommerse) dei rampanti distretti esportatori settentrionali. Si coltiva l’illusione einaudiana degli effetti strutturali di una politica che esalta la promozione del civismo distrettuale (Dibattito sul Mezzogiorno, «Il Manifesto», 1998, 25 febbraio, 5 marzo, 6 marzo, 7 marzo,10 marzo, 17 marzo, 18 marzo, con interventi di A. Graziani, E. Pugliese, G. Becattini, A. Giannola; cfr. Becattini 2001).
La tesi dello sviluppo endogeno, irrazionale perché irrealistica, è però utile per giustificare lo svuotamento dell’apparato produttivo del Sud di matrice prevalentemente ‘esterna’ che si traduce in un intenso processo di deindustrializzazione e nella dissoluzione pilotata del suo sistema bancario (Giannola 2004).
Il fallimento dello sviluppo autopropulsivo e il peso crescente di sussidi alle imprese sotto forma di fiscalizzazione degli oneri sociale e previdenziali si scontrano ben presto con i vincoli imposti dall’obiettivo di approdo alla moneta unica; la liquidazione dell’intervento straordinario, del 1992, e l’assenza di interventi fino al 1998 corrispondono a un sentire comune al quale dà voce il redivivo Lombardo-Veneto che rivendica il diritto a una ‘riappropriazione’ di risorse proprie fondato su una pretesa impropriamente federalista che riscuote credito anche presso autorevoli meridionali.
Con gli anni Novanta un ameridionalismo imperante abolisce unilateralmente la Questione meridionale: il tema dell’unificazione economica viene esternalizzato, affidato al burocratico rapporto tra Unione Europea e Regioni dell’obiettivo 1 (Agenda 2000; Agenda 2007-2013) che brilla per l’assenza di un disegno capace di raccordare obiettivi locali con una visione di sviluppo complessivo. Ciò ha reso sterile la riscoperta delle politiche riproposte dal 1998.
L’esperienza della Nuova programmazione (Barca 2009), apprezzabile per il suo intento pedagogico e perché ribadisce la necessità di un intervento e il suo carattere di straordinarietà, sia pure gestita da operatori ordinari, è fallimentare rispetto all’obiettivo di attivare l’uso delle ‘risorse immobili’ del territorio. Una conseguenza attesa, in assenza di un disegno strategico, di un’azione che invece si perde nel labirinto di progetti locali senza porsi il problema di come, quali e quanti debbano essere gli obiettivi di sistema in base ai quali condizionare gli interventi.
Intanto, caduto nel 1998 lo scudo valutario, il sistema produttivo nazionale inizia a mostrare la corda anche nelle sue punte avanzate. L’impasse dell’industria manifatturiera, al Sud e al Nord, emerge con evidenza impietosa dal confronto con il resto d’Europa. Prima della crisi finanziaria del 2008, nel periodo 2001-2007, a fronte del +14% tedesco, del +7% francese e del +8% dell’UE a 15, il tasso cumulato di crescita del prodotto manifatturiero italiano è -1,5 al Nord e -2,6 al Sud. E la flessione anche maggiore della produttività del lavoro (-1,6 al Nord e -2,1 al Sud) concorre a un costo del lavoro per unità di prodotto che, nonostante la vistosa riduzione dei salari reali, è significativamente in crescita in entrambe le circoscrizioni, laddove negli altri Paesi e nella zona Euro è in flessione.
Nonostante le sconsolanti evidenze, la necessità di definire una comune linea di azione è tutt’altro che condivisa. Si fa strada al contrario l’idea che la via di uscita sia sganciare dalla locomotiva del Nord il vagone del Sud. Gli anni che si concludono con la celebrazione del 150° anniversario dell’Unità sono all’insegna di un crescente antimeridionalismo ben sintetizzato nella relazione di accompagnamento del disegno di legge sul federalismo fiscale del Consiglio Regionale della Lombardia: «Oggi i nostri cittadini pagano le tasse, creano ricchezza ma i trasferimenti vanno ad altri. Questo rischia di compromettere non solo la locomotiva lombarda ma l’intero sistema economico italiano» per concludere, citando Lincoln, «La Lombardia è stanca di correre con le catene ai piedi [...] non si può rinforzare il debole indebolendo il più forte». Questa deriva disgregatrice viene da lontano e cancella anche il ricordo ormai remoto dei quindici anni di sana modernizzazione.
Il dualismo (il cui accentuarsi venne considerato dal meridionalismo classico un portato del processo unitario dell’Italia) reso ‘proattivo’ dalla capacità di azione del neomeridionalismo, negli ultimi vent’anni viene agitato a prova del ruolo parassitario e frenante di un Sud beneficiario di esorbitanti flussi di traferimenti. Di qui la pericolosa scorciatoia che si propone di arrestare per via fiscale il ‘declino’ imputato al gorgo meridionale che ingoia e sperpera fiumi di trasferimenti ‘impropri’.
È stato ampiamente argomentato (SVIMEZ 2002; Giannola 2002) come i trasferimenti ‘impropri’ al Sud siano un luogo comune da sfatare.
In realtà i trasferimenti (stimati con la usuale proxy delle importazioni nette sul prodotto regionale lordo) si sono ridotti fin dall’inizio degli anni Novanta con la fine dell’intervento straordinario. La spesa pubblica ordinaria pro capite si è contratta al Sud; la spesa pubblica in conto capitale è su valori effettivi, decrescenti nel tempo, ben inferiori all’obiettivo proclamato del 45% e anche alla quota di popolazione.
Lungi da essere ‘impropri’, i flussi finanziari, nulla hanno a che fare con Settentrione o Meridione ma semplicemente (e in misura inadeguata) ottemperano al principio costituzionale per il quale ogni cittadino, in quanto contribuente, fa fronte ai suoi doveri ed è titolare del diritto di fruire di servizi pubblici indipendentemente dal censo e – a maggior ragione – dalla residenza.
A ciò si aggiunge un trasferimento di risorse a danno del Mezzogiorno, mai contabilizzato, che l’analisi dei residui fiscali (differenza tra il totale delle entrate e delle uscite della pubblica amministrazione) documenta. Infatti, fin dall’inizio degli anni Novanta, i corposi surplus primari finalizzati all’obiettivo di stabilizzare il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo alimentano una redistribuzione finanziaria occulta. Essa è destinata ad accentuarsi nella prospettiva del bilancio in pareggio e dell’impegno alla riduzione del rapporto debito/prodotto.
Non per caso il valore delle importazioni nette meridionali cade di oltre sette punti percentuali da quando si realizzano effettivamente significativi surplus primari.
Questi aspetti – in genere ignorati – rinverdiscono tesi ben note di esponenti di spicco del meridionalismo classico come De Viti De Marco e Nitti.
Una contabilità dei trasferimenti ‘effettivi’ dovrebbe registrare inoltre anche il costo sotteso all’emigrazione di forza lavoro formata nel Mezzogiorno; provocatoriamente Rossi-Doria proponeva una valutazione in termini di prezzo al chilo del bestiame applicata al peso degli emigrati.
Il meridionalismo classico di analisi e di denuncia ha fatto da apripista al neomeridionalismo di analisi e di proposta. Un percorso che ha reso il Sud per vent’anni protagonista attivo dello sviluppo italiano, dando la prima risposta concreta all’assillo di Cavour sull’incompiuta unità del Paese.
Una fase troppo breve; sul dualismo è poi calato il silenzio. La Questione meridionale è stata affidata negli anni Ottanta e Novanta alle consolatorie prescrizioni del modello autopropulsivo e, dal 1998, alla Nuova programmazione che si arena in un didascalico localismo senza progetto.
La crisi che imperversa dal 2008 fa seguito a un decennio di lento declino di un’Italia intenta a coltivare la questione settentrionale dalla quale distilla ipotesi che teorizzano percorsi differenziati e giunge a prospettare una possibile separazione del Paese.
Fedele alla sua tradizione unitaria, l’azione meridionalista svolge una funzione di controinformazione quanto mai opportuna, riaffermando – ora come allora – che recuperare il ruolo attivo del Mezzogiorno è un vitale interesse nazionale.
La lunga parentesi ameridionalista e/o antimeridionalista del recente passato, le emergenze presenti, le drammatiche vicende degli ultimi mesi del 2011 e del 2012 impegnano a formulare una proposta di crescita capace di rendere sostenibile la stabilizzazione finanziaria che annuncia lunghi anni di austerità.
In questa prospettiva si impone la necessità di misurarsi con i problemi che il mercato globale pone alla nostra economia. A tal fine, occorrono coraggio e visione pari a quelli che nel secondo dopoguerra avviarono, con il contributo decisivo del Sud, il miracolo economico. La sfida per il meridionalismo è di riuscire, nonostante la forza politica ben più esigua del passato, a riaprire un dialogo per far intendere che il cuore di un realistico progetto di crescita del Paese, ora, sta a Sud.
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