Messa alla prova e particolare tenuità del fatto
A pochi anni dall’entrata in vigore della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto e della messa alla prova per adulti, l’ambigua disciplina predisposta per tali istituti ha reso più volte necessario l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione e della Corte costituzionale. Nonostante l’autorevolezza ed il considerevole numero di pronunce rese, l’assetto dei due istituti è ancora oggetto di discussione dottrinaria e di soluzioni non unanimi in giurisprudenza.
A fronte del rilevante impatto pratico degli istituti della messa alla prova per adulti (artt. da 168 bis a 168 quater c.p.; artt. da 464 bis a 464 novies e art. 657 bis c.p.p.) e della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (131 bis c.p.)1, che costituiscono nel nostro ordinamento penale forme di risposta al reato diverse da quella sanzionatoria, l’interpretazione delle relative discipline non è stata sempre agevole. Sebbene i meccanismi della sospensione del procedimento finalizzata a consentire all’imputato di seguire un programma di recupero, il cui esito favorevole determina l’estinzione del reato, e il giudizio di non adeguatezza della pena, in presenza di condotte caratterizzate da particolare tenuità, non siano meccanismi estintivi del reato sconosciuti all’ordinamento penale – vigendo nel procedimento minorile la messa alla prova per minorenni ed operando, nei procedimenti dinanzi al giudice di pace, la causa di non punibilità di cui all’art. 34, d.lgs. 28.8.2000, n. 274 – la natura anfibia, sostanziale e processuale, dei due istituti, ha generato numerosi dubbi presso gli interpreti.
Le pronunce che saranno illustrate si aggiungono a quelle già rese negli anni precedenti dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale, il cui frequente intervento attualizza il mai sopito dibattito sulla necessità che il legislatore intervenga con disposizioni estremamente dettagliate e precise soprattutto laddove ambisca a regolamentare istituti a prevalente vocazione deflattiva. Di seguito si dirà delle decisioni espresse dalle Corti nel corso del 2018, dando poi sinteticamente conto degli aspetti tuttora controversi di entrambe le discipline prese in esame.
Sull’istituto della messa alla prova, nell’anno 2018, si segnalano due interessanti decisioni della Corte costituzionale.
Unitamente alla sentenza del 6.7.2016, n. 201 – con cui la Consulta ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 460 c.p.p., nella parte in cui non imponeva che il decreto penale contenesse l’avviso della possibilità, in sede di opposizione, di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova – le recenti pronunce della Corte ricostruiscono l’istituto della messa alla prova e lo accreditano in punto di legittimità costituzionale.
Con la decisione n. 141 del 20182, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 517 c.p.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24, co. 2, Cost., nella parte in cui non prevedeva che l’imputato, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, potesse esercitare la facoltà di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.
A tal fine la Corte, dopo un accurato excursus delle pronunce e dei principi già enunciati in tema di accesso ai riti alternativi del giudizio abbreviato e del patteggiamento in caso di nuova imputazione e di contestazione tardiva di una circostanza aggravante, enfatizzando l’intrinseca dimensione processuale della messa alla prova, ha indicato la necessità che l’imputato non sia discriminato nell’accesso alla procedura né dall’errore in cui è incorso il pubblico ministero nella individuazione del fatto e del titolo del reato, o per l’omessa contestazione di una circostanza aggravante, risultante o meno dagli atti d’indagine, né dalla circostanza che, in maniera fisiologica, in base alle risultanze dell’istruzione dibattimentale, vi siano state nuove contestazioni, poiché è evidente che la modifica dell’imputazione, oltre ad alterare in modo significativo la fisionomia fattuale del tema d’accusa, può avere riflessi di rilievo sull’entità della pena irrogabile e, di conseguenza, sull’incidenza quantitativa dell’effetto premiale connesso al rito speciale. Pertanto, dopo aver ribadito che l’accesso al rito alternativo dopo l’inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un’economia processuale, anche se attenuata, e che in ogni caso le ragioni della deflazione processuale debbono recedere di fronte ai princìpi posti dagli artt. 3 e 24, co. 2, Cost. – perché «l’esigenza della corrispettività fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa» – ha ritenuto che nel caso di contestazione suppletiva di una circostanza aggravante l’omessa previsione nell’art. 517 c.p.p. della facoltà per l’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova si risolvesse, come già affermato per il patteggiamento e per il giudizio abbreviato, in una violazione degli indicati parametri costituzionali.
È infatti nel diritto di difesa che la “nuova” facoltà trova il suo fondamento, perché, se la richiesta dei riti alternativi costituisce una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio di tale diritto, occorre allora che l’accesso al rito sia consentito anche riguardo all’imputazione che, per effetto della contestazione suppletiva, deve effettivamente formare oggetto del giudizio. La seconda decisione della C. cost., 21.2.2018, n. 913, presenta profili di grande interesse poiché – nell’analizzare le numerose questioni di legittimità poste dal giudice remittente – ha, di fatto, tracciato le coordinate applicative essenziali dell’istituto. In merito alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 464 quater, co. 1, c.p.p. in riferimento agli artt. 3, 111, co. 6, 25, co. 2, e 27, co. 2, Cost. – nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente per ogni decisione di merito da assumere nel procedimento speciale di messa alla prova, proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari – la Consulta ha deciso per l’inammissibilità. La Corte precisa che la questione è stata posta senza tenere conto della praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, diversa da quella prospettata e coerente con la cornice nel cui ambito si colloca la norma censurata, per effetto della quale è possibile applicare analogicamente l’art. 135 disp. att. c.p.p. (d.lgs. 28.7.1989, n. 271), al pari di quanto accade per il caso della domanda di giudizio abbreviato. Anche in caso di istanza di sospensione del procedimento per messa alla prova, è dunque consentita al giudice dibattimentale l’acquisizione del fascicolo del pubblico ministero, ai fini della decisione. Infondate sono state ritenute, invece, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464 quater e 464 quinquies c.p.p., che, ad avviso del rimettente, prevedendo l’irrogazione e l’espiazione di sanzioni penali in mancanza di una decisione di condanna, definitiva o non, contrasterebbero con l’art. 27, co. 2, Cost. Sul punto la sentenza, dopo aver specificato che la possibilità di chiedere i riti speciali, e in particolare il patteggiamento o la messa alla prova, costituisce una delle facoltà difensive e che appare illogico considerare costituzionalmente illegittimi per la violazione delle garanzie riconosciute all’imputato procedimenti diretti ad assicurargli un trattamento più vantaggioso di quello del rito ordinario, chiarisce che il trattamento programmato non è una sanzione penale eseguibile coattivamente, ma un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso. Infondata è stata considerata anche la terza questione di legittimità costituzionale, relativa ai commi due e tre dell’art. 168 bis c.p., che violerebbero l’art. 25, co. 2, Cost., nella parte in cui sancisce il principio di tassatività e determinatezza delle previsioni sanzionatorie, in quanto consentirebbero l’irrogazione di pene indeterminate, potendo il trattamento cui l’imputato viene sottoposto risolversi in vincoli conformativi e ablatori la cui misura temporale e la cui qualità non è predeterminata ma rimessa alla libera scelta delle autorità procedenti (prima l’ufficio locale di esecuzione penale che predispone il programma di trattamento, e poi il giudice che tale programma convalida o modifica). In proposito si è precisato che la durata massima del lavoro di pubblica utilità risulta indirettamente dall’art. 464 quater, co. 5, c.p.p., e, in mancanza di una sua diversa determinazione, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento. Si è aggiunto che, in ogni caso, in relazione agli aspetti qualitativi del trattamento, esso, per la finalità special-preventiva e risocializzante che deve perseguire, deve essere ampiamente modulabile, «tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati oggetto dell’imputazione, sicché, considerata anche la sua base consensuale, non se ne può prospettare l’insufficiente determinatezza in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.». Da ultimo, la Corte ha ritenuto infondate anche le questioni poste in relazione al comma 4 dell’art. 464 ter c.p.p., nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di trattamento, che, ad avviso del remittente contrasterebbe con il principio di soggezione del giudice alla legge (art. 101 Cost.), con il principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), e con le direttive del giusto processo (comma 2 dell’art. 111 Cost.). In relazione al valore da attribuire alla volontà dell’imputato la Consulta ha evidenziato che, basandosi l’istituto della messa alla prova sulla sola richiesta dell’accusato, è evidente che ogni integrazione o modificazione del relativo programma, ritenuta necessaria dal giudice, non può prescindere dal consenso dell’interessato. Qualora, infatti, il giudice consideri il programma proposto inidoneo a perseguire le finalità del trattamento, l’imputato deve poter scegliere se accettare le integrazioni o le modificazioni indicate oppure proseguire il giudizio nelle forme ordinarie: ciò non menoma le prerogative dell’autorità giudiziaria e non integra quindi la violazione dell’art. 101 Cost., dato che la facoltà è conforme al modello legale del procedimento. Il riferimento al parametro dell’art. 97 Cost. è stato poi ritenuto inconferente, posto che, per costante giurisprudenza costituzionale, esso è riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, non all’attività giurisdizionale in senso stretto. Infondata è stata ritenuta anche la censura di violazione dell’art. 111, co. 2, Cost., in quanto il comma 4 dell’art. 464 ter c.p.p., oltre ad essere funzionale alle peculiari caratteristiche dell’istituto in esame, non comporta, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, alcun dispendio di tempi e risorse processuali. Il consenso infatti è richiesto per le integrazioni e le modificazioni che il giudice ritenga di apportare prima della sospensione del procedimento e dell’ammissione alla prova dell’imputato, e quindi prima che sia svolta qualsivoglia attività processuale. Peraltro si evidenzia, in relazione al principio di ragionevole durata del processo, come la giurisprudenza costituzionale abbia ripetutamente affermato che – alla luce del richiamo al connotato di ragionevolezza che compare nella stessa formula costituzionale – possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza, mentre la norma censurata è necessitata dalla struttura del rito speciale, che si basa sulla volontà dell’imputato ed è diretto, tra l’altro, a semplificare il procedimento, riducendone anche i tempi.
In relazione all’istituto della particolare tenuità del fatto va segnalata la sentenza con la quale le Sezioni Unite della Corte di cassazione4 hanno escluso che fosse qualificabile «come abnorme e, pertanto, ricorribile per cassazione, il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, non accogliendo la richiesta di emissione di decreto penale di condanna, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero, affinché questi valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, ex art. 131 bis cod. pen.». Dopo un’accurata disamina dei caratteri del provvedimento abnorme, la Corte esclude che il provvedimento di restituzione possa essere ritenuto tale sulla base di una serie di osservazioni. L’abnormità è stata esclusa da un punto di vista strutturale, in quanto il potere conferito al giudice per le indagini preliminari dall’art. 459, co. 3, c.p.p., non è circoscritto alla sola applicazione della pena pecuniaria ed alla sua misura, ma è esteso anche a tutti gli altri presupposti condizionanti l’ammissibilità del rito, ivi compreso l’effettivo disvalore del comportamento antigiuridico. Si aggiunge che il provvedimento di restituzione è addirittura obbligato poiché, in presenza di un disvalore minimo del fatto, la decisione di non punibilità, atteso il carattere sostanziale della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p., non può essere deliberata ai sensi dell’art. 129 c.p.p., ma necessita del contraddittorio tra le parti. La Corte esclude, inoltre, che la restituzione determini anomalie funzionali, non essendo in grado di provocare alcuno stallo processuale irrimediabile, poiché rimane in capo alla pubblica accusa il potere di esercitare nuovamente l’azione penale. Meritevole di cenno è anche la decisione della Sezione III della Cassazione5, la quale, pronunciatasi in relazione al procedimento di competenza del tribunale, ha delineato con chiarezza le ragioni per le quali sussiste l’interesse dell’imputato a impugnare la sentenza che esclude la punibilità del reato ai sensi dell’art. 131 bis c.p. In proposito la Corte ha evidenziato che tale decisione ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651 bis c.p.p.); è soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale (art. 3, lett. f), d.P.R., 14.11.2002, n. 313), e può ostare alla futura applicazione della medesima causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131 bis, co. 3, c.p.
Nella recente giurisprudenza di legittimità sono comunque sorti contrasti in merito all’interpretazione di alcuni profili ulteriori della disciplina degli istituti in esame.
In relazione all’istituto della messa alla prova, le Sezioni Semplici della Corte di cassazione6 non concordano sulla possibilità per l’imputato, qualora il giudizio di primo grado sia celebrato nelle forme del rito abbreviato, di dedurre, in sede di appello, il carattere ingiustificato del diniego da parte del giudice di primo grado della richiesta di sospensione con messa alla prova, poiché la speciale causa di estinzione del reato in esame viene considerata in alcuni casi compatibile, in altri incompatibile con ogni tipo di giudizio di merito, ivi compreso quello effettuato nelle forme del giudizio abbreviato.
In primo luogo la giurisprudenza e la dottrina sono divise in ordine alla possibilità di dedurre per la prima volta mediante ricorso per cassazione la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, nel caso in cui la disposizione che ha introdotto tale istituto fosse già in vigore alla data della deliberazione della sentenza di appello7. Inoltre la difficoltà di delineare con chiarezza il concetto di abitualità, che costituisce il presupposto ostativo dell’applicazione della speciale causa di non punibilità in esame, ha determinato un persistente contrasto giurisprudenziale ed un fervente dibattito dottrinario sulla conciliabilità tra il nuovo istituto ed il riconoscimento della continuazione tra reati: le opposte letture si fondano sulla differenza di significato attribuita al terzo comma dell’art. 131 bis, e sul riconoscimento o sulla negazione del carattere di abitualità al reato continuato8.
1 I dati statistici dimostrano una forte diffusione dei due strumenti deflattivi.
2 C. cost., 11.7.2018, n. 141.
3 C. cost., 21.2.2018, n. 91.
4 Cass. pen., S.U., 18.1.2018, n. 20569.
5 Cass. pen., 22.11.2017, n. 18891 (dep. 3.5.2018).
6 Cass. pen., 15.2.2018, n. 29622; in senso difforme Cass. pen., 28.3.2017, n. 22545.
7 Cass. pen., 21.3.2018, n. 23174; in senso difforme Cass. pen., 16.12.2016, n. 7606 (dep. 17.2.2017 ).
8 Cass. pen., 29.3.2018, n. 19159 secondo cui il reato continuato configura un’ipotesi di “comportamento abituale” per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, essendo il segno di una devianza non occasionale; in senso difforme Cass. pen., 31.5.2017, n. 35590.