«Messa alla prova»: gli interventi delle Sezioni Unite
Si debbono alle Sezioni Unite due importanti decisioni che hanno esaminato funditus l’ambito applicativo della probation e la disciplina dei rimedi impugnatori avverso l’ordinanza che accoglie o rigetta la richiesta ammissiva. In entrambe le occasioni la ratio decidendi muove da una chiara presa di posizione in ordine alla natura, alle funzioni ed alle finalità dell’istituto.
La disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova per imputati maggiorenni reca numerose lacune normative che hanno determinato l’insorgere di questioni ermeneutiche e di contrasti giurisprudenziali. Si debbono alle Sezioni Unite due importanti decisioni che hanno avuto ad oggetto, rispettivamente, l’ambito applicativo della probation e la disciplina delle impugnazioni.
Con la sentenza Sorcinelli, depositata il 1° settembre 20161, il Collegio esteso ha affermato che, ai fini dell’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina della probation, il richiamo contenuto nell’art. 168 bis c.p. alla pena edittale non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.
Con la sentenza Rigacci, depositata il 29 luglio 20162, il Collegio esteso ha affermato che l’ordinanza di rigetto dell’istanza di ammissione alla messa alla prova non è autonomamente impugnabile, ma è appellabile unitamente alla sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 586 c.p.p., in quanto l’art. 464 quater, co. 7, c.p.p., nel prevedere il ricorso per cassazione, si riferisce unicamente al provvedimento con cui il giudice, in accoglimento della richiesta dell’imputato, abbia disposto la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Un primo nodo esegetico, sorto dopo l’entrata in vigore della l. 28.4.2014, n. 67, ha riguardato il tema della rilevanza delle forme di manifestazione del reato. Come è noto, nell’individuare i reati ai quali la probation risulta applicabile, l’art. 168 bis, co. 1, c.p. utilizza un criterio composito. Da un lato, la norma disciplina direttamente il quantum di pena, riferendosi ai soli limiti edittali senza alcuna menzione delle circostanze, né alcun rinvio alle norme che ne prevedono la rilevanza. Da un altro lato, la disposizione ricordata richiama l’art. 550, co. 2, c.p.p. che declina nominatim le fattispecie per le quali si procede con citazione diretta a giudizio.
Malgrado la chiarezza del tenore letterale della norma, la giurisprudenza si è divisa in ordine all’interpretazione della stessa. In particolare ci si è chiesti se, nella determinazione del limite edittale fissato dall’art. 168 bis c.p., debba tenersi conto delle circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.
Un primo indirizzo ha optato per la soluzione positiva constatando che il legislatore – nell’ambito degli istituti, processuali o sostanziali delineati attraverso il riferimento quantitativo ai limiti edittali – ha sempre preso in considerazione le circostanze ad efficacia e ad effetto speciale (es. artt. 4, 278, 379, 550, co. 1, c.p.p.; 157, co. 2 e 131 bis c.p.). Secondo l’orientamento in parola, tale conclusione sarebbe stata rafforzata dal rilievo che l’art. 550, co. 2, c.p.p., richiamato dall’art. 168 bis c.p., fa riferimento ad alcune fattispecie aggravate che, dunque, di per sé esulerebbero dall’ambito applicativo dell’istituto se si utilizzasse il mero criterio quantitativo3.
Un secondo orientamento, invero maggioritario, ha escluso la rilevanza delle circostanze facendo leva sul tenore letterale dell’art. 168 bis, co. 1, c.p. che disciplina autonomamente il criterio quantitativo senza dare alcun rilievo alla contestazione di qualsivoglia aggravante4.
Le Sezioni Unite, chiamate a risolvere il contrasto, hanno ritenuto di condividere questa seconda esegesi.
Il Supremo Collegio ha preso le mosse dall’argomento letterale rilevando come l’art. 168 bis, co. 1, c.p. non rechi lacune che impongono il ricorso ad altri criteri ermeneutici: la norma, laddove impiega il criterio quantitativo, sceglie consapevolmente di sterilizzare la rilevanza di qualsivoglia circostanza, comune o speciale. Ad avviso delle Sezioni Unite, il legislatore era del tutto libero di effettuare una simile opzione giacché nel sistema non esiste un criterio normativo unitario in base al quale determinare la pena ai fini dell’applicazione di istituti processuali. Gli artt. 4 e 278 c.p.p. sono norme speciali, che dettano una disciplina non omogenea in relazione ad istituti non sovrapponibili (competenza e misure cautelari). Di esse, dunque, è interdetta ogni forma di applicazione estensiva in assenza di esplicite indicazioni.
Per gli Ermellini, ogni tentativo di ricercare una rigorosa e indefettibile coerenza del sistema in materia è destinata all’insuccesso, in quanto i criteri per la selezione dei reati attraverso il riferimento alla quantità di pena sono influenzati dagli istituti a cui si riferiscono e sono utilizzati, di volta in volta, in base a valutazioni discrezionali del legislatore. Anche a voler ammettere che la maggior parte delle disposizioni del codice tenga conto, per la determinazione della pena ai più diversi fini, delle circostanze aggravanti per le quali è stabilita una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale, non per questo deve ritenersi che da esse emerga una regola generale e, soprattutto, che tale regola risulti inderogabile in via legislativa. In realtà, si tratta semplicemente di una “linea di tendenza”, che non assurge a criterio generale. A conferma di tale rilievo, le Sezioni Unite hanno richiamato la stessa l. n. 67/2014 in cui soltanto nella delega in materia di pene detentive non carcerarie compare il rinvio all’art. 278 c.p.p.
In tale contesto sistematico, il tenore letterale dell’art. 168 bis c.p. risulta ancor più nitido: la norma non evoca l’art. 550, co. 1, c.p.p.; non richiama l’art. 4 c.p.p. e non menziona alcuna circostanza aggravante, limitandosi a rinviare espressamente al solo co. 2 dell’art. 550 c.p.p. per delineare le fattispecie di reato per le quali la messa alla prova è in astratto consentita5.
Una ulteriore conferma di tale conclusione si trae dall’iter parlamentare che ha registrato la caduta dell’originario riferimento agli accidentalia delicti6. Dunque, soltanto le ipotesi in cui si ritiene di configurare una fattispecie autonoma esulano dall’ambito applicativo del rito in esame7.
Merita precisare che, per la Cassazione, dalla tecnica normativa utilizzata nella costruzione dell’art. 168 bis c.p. si ricava pure un argomento testuale nel senso che l’ambito applicativo della messa alla prova non coincide con il perimetro operativo del procedimento con citazione diretta a giudizio dinanzi al tribunale monocratico ma si applica anche a fattispecie incriminatrici che richiedono l’udienza preliminare o che rientrano nelle attribuzioni del collegio8. Ciò che rileva, ai fini dell’applicazione del nuovo rito speciale, è esclusivamente il perimetro quantitativo e qualitativo tracciato dall’art. 168 bis c.p. Un argomento decisivo in tal senso si evince dalla norma che fissa i termini per la richiesta di accesso alla probation laddove essa fa riferimento alla formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare (art. 464 bis, co. 2, c.p.p.).
Dopo aver terminato l’accurato esame del dato letterale, le Sezioni Unite sono scese al cuore del problema ed hanno affermato che una corretta esegesi non può prescindere dalla natura e dalla funzione della messa alla prova. Si tratta di un istituto con funzione specialpreventiva, che anticipa ma non esclude il trattamento sanzionatorio, in tal modo soddisfacendo anche esigenze di prevenzione generale9. Una simile caratteristica rende plausibile una applicazione della probation anche a reati ritenuti astrattamente gravi. Un’esegesi che tendesse a restringere l’ambito applicativo della messa alla prova finirebbe per attribuire ad essa una mera funzione premiale. Al tempo stesso, l’ampliamento della cornice operativa rende l’istituto competitivo rispetto ad altri istituti come la sospensione condizionale della pena o l’estinzione per particolare tenuità del fatto.
Naturalmente, anche nell’interpretazione del Collegio esteso, la gravità del reato non risulta irrilevante: per quanto tale aspetto non debba essere enfatizzato praeter legem nel momento dell’astratto rilievo dei criteri di ammissibilità, esso risulta rimesso alla valutazione del giudice circa l’idoneità del programma trattamentale e la prognosi di esclusione della recidiva.
Come si è accennato, il secondo nodo esegetico ha avuto ad oggetto il regime delle impugnazioni. Ai sensi dell’art. 464 quater, co. 7, c.p.p., contro l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova possono ricorrere per cassazione l’imputato ed il pubblico ministero, anche su istanza della persona offesa. Quest’ultima può impugnare autonomamente per omesso avviso dell’udienza o perché, pur essendo comparsa, non è stata sentita. La norma sopra ricordata stabilisce espressamente che l’impugnazione non sortisce effetto sospensivo rispetto al procedimento10. Nel silenzio della legge, deve ritenersi che i motivi siano tutti quelli previsti dall’art. 606 c.p.p. con conseguente preclusione delle doglianze di merito11.
La genericità del disposto normativo, che non distingue tra l’ordinanza di accoglimento e quella di rigetto, ha determinato l’insorgere di un acceso contrasto giurisprudenziale, poi risolto dalle Sezioni Unite. Le complicazioni sono derivate dalla necessità di coordinare la disciplina del ricorso per cassazione sia con la possibilità di riproposizione dell’istanza prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, riconosciuta in caso di rigetto nel corso dell’udienza preliminare (art. 464 bis, co. 9, c.p.p.) e in ipotesi di reiezione della richiesta presentata nel corso delle indagini preliminari (art. 464 ter, co. 4, c.p.p.), sia con la regola generale dell’impugnazione differita stabilita dall’art. 586 c.p.p. Al tempo stesso, la questione ha risentito del dibattito sorto in relazione alla messa alla prova minorile. A fronte del non chiarissimo disposto dell’art. 28 del codice del processo penale minorile; infatti, si è affermato un orientamento secondo cui le ordinanze aventi contenuto negativo non possono essere impugnate in via diretta, bensì soltanto unitamente alla sentenza con il meccanismo differito ex art. 586 c.p.p.12
In merito alla messa alla prova per adulti, un primo orientamento – con decisioni piuttosto apodittiche – ha sostenuto che contro l’ordinanza reiettiva emessa dal giudice del dibattimento dovesse essere esperito appello unitamente alla sentenza ai sensi dell’art. 586 c.p.p.13
Un secondo orientamento ha optato per l’esperibilità del ricorso diretto in cassazione a prescindere dal contenuto dell’ordinanza negli ovvi limiti dell’interesse ad impugnare14.
Come si è accennato, sulla spinosa problematica si sono pronunciate le Sezioni Unite accogliendo il principio dell’impugnazione differita del provvedimento di rigetto unitamente alla sentenza.
Il Supremo Collegio ha preso le mosse dall’art. 464 quater, co. 7, c.p.p. chiarendo che la norma consente l’impugnazione diretta ed autonoma del provvedimento di accoglimento dell’istanza dell’imputato, mentre il dubbio si pone esclusivamente per l’ordinanza di rigetto.
Ad avviso degli Ermellini, dalla struttura complessiva dell’art. 464 quater c.p.p. non si desume che il richiamo dell’ordinanza di cui al co. 7 debba intendersi come riferito sia al provvedimento ammissivo che a quello reiettivo. Per contro, è giustificabile una lettura che divarichi le due situazioni giacché dell’ordinanza reiettiva si occupa solo il successivo co. 9, a mente del quale l’imputato può riproporre l’istanza respinta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento. La circostanza che il co. 7 menzioni l’imputato, tra i soggetti legittimati al ricorso per cassazione, non risulta dirimente poiché può certo sussistere un interesse di tale soggetto a contestare l’ordinanza ammissiva (si pensi ai profili attinenti alla volontarietà dell’istanza; alla correttezza della qualificazione del fatto; al provvedimento di modifica o integrazione del trattamento senza consenso).
Al tempo stesso, non risulta decisiva la previsione secondo cui l’impugnazione non sospende il procedimento (art. 464 quater, co. 7, c.p.p.). Tale norma nella sua genericità potrebbe, infatti, riferirsi sia al procedimento di cognizione in corso, giustificando dunque il ricorso immediato anche per l’ordinanza di rigetto, sia esclusivamente al sub-procedimento di messa alla prova, non ostando alla soluzione dell’impugnazione differita del rigetto. Ad avviso del Collegio esteso, tuttavia, la prima soluzione appare errata, giacché sortirebbe conclusioni paradossali: in caso di rigetto impugnato in cassazione, il procedimento principale proseguirebbe e un eventuale accoglimento dell’impugnazione determinerebbe una regressione del rito che, nel frattempo, potrebbe essersi concluso con la condanna dell’imputato. Una simile disciplina, oltretutto derogatoria rispetto all’art. 588 c.p.p., determinerebbe gravi problemi di carattere funzionale tali da inceppare irragionevolmente l’intero meccanismo processuale.
In definitiva, per le Sezioni Unite l’art. 464 quater, co. 7, c.p.p. deve interpretarsi come riferito alla sola ordinanza ammissiva: tale norma comporta che l’impugnazione di detto provvedimento non sospende la probation15.
Il Collegio esteso ha preso posizione anche in merito alla delicata questione concernente il possibile concorso tra impugnazione dell’ordinanza reiettiva emessa nel corso delle indagini o in udienza preliminare e possibilità di rinnovazione della richiesta prima dell’apertura del dibattimento. Ebbene, ad avviso della Corte tali rimedi hanno carattere successivo e non concorrente. L’imputato, che si sia vista rigettata la richiesta prima del giudizio, può soltanto rinnovarla nella fase successiva, mentre non può presentare impugnazione. Soltanto il rigetto emesso “all’ultimo stadio”, all’apertura del dibattimento, può essere sottoposto ad impugnazione differita unitamente alla sentenza di primo grado. Tale soluzione, oltre ad evitare duplicazioni difficilmente gestibili, palesa uno spiccato favor per la messa alla prova che può sempre essere accordata fino alla soglia dell’apertura del dibattimento.
Anche in questo caso, le Sezioni Unite, al termine della ricostruzione esegetica del diritto positivo, hanno palesato la vera ratio decidendi. In particolare, hanno sottolineato come alle conclusioni accolte spinga più di ogni altro aspetto, la necessità di garantire all’imputato – che si sia vista rigettata la richiesta di ammissione alla probation – una impugnazione idonea a permettere un riesame di merito che possa consentire una valutazione a tutto tondo in ordine alla richiesta di probation. Il Supremo Collegio non ha mancato di sottolineare che anche nel sistema minorile – ove la medesima soluzione dell’impugnazione differita del rigetto si incastona su di uno sfondo assai diverso quanto a natura e funzione dell’istituto – è proprio questa esigenza di garanzia del diritto di difesa lato sensu inteso che ha indotto ad accogliere analoga interpretazione in relazione all’art. 28 d.P.R. 22.9.1988, n. 448.
Le Sezioni Unite hanno sottolineato come la soluzione proposta risulti idonea a ridurre sensibilmente le ipotesi di regressione del procedimento, se non addirittura ad eliminarle del tutto, purché si riconosca al giudice dell’appello, nel caso di riforma del provvedimento di rigetto, il potere di sospendere il procedimento e ammettere l’imputato al beneficio. In definitiva, a fronte dell’accoglimento dell’appello il giudice di seconde cure non dovrà annullare l’ordinanza di rigetto bensì sostituirsi al giudice di primo grado. Soltanto una tale interpretazione è idonea a garantire il principio di conservazione degli atti e di economia processuale.
Gli Ermellini si sono soffermati anche sulla natura della decisione del giudice di secondo grado. Il materiale a disposizione per il giudizio sul fatto e sull’autore risulterà ben più ampio rispetto a quello fruibile dal giudice nelle fasi precedenti: la Corte d’appello potrà effettuare le proprie valutazioni sulla base degli atti compiuti nel giudizio di primo grado con il contraddittorio. In tal modo, ad avviso della Cassazione, il giudice d’appello sarà in grado di meglio calibrare il trattamento. Si delinea così una nuova fisionomia di messa alla prova che, nell’ipotesi in esame, sostanzialmente perde la propria funzione deflativa e, invece, mantiene una funzione specialpreventiva e rieducativa giacché il trattamento si fonda su di una plena cognitio.
Entrambe le sentenze esaminate si caratterizzano per essersi cimentate con una disciplina la cui scarsa perspicuità è stata unanimemente denunciata sin dall’entrata in vigore della l. n. 67/2014.
Al tempo stesso, in tutte e due le occasioni, le Sezioni Unite hanno prospettato una soluzione che, pur sviluppandosi attraverso serrati argomenti di diritto positivo, in realtà ha al fondo una ratio decidendi che scaturisce da un approccio “valoriale” alla natura ed alla funzione dell’istituto in esame.
La decisione relativa all’irrilevanza delle circostanze ha preso le mosse da un modello di messa alla prova specialpreventiva, che non rinuncia alla sanzione penale ma semplicemente infrange la sequenza ordinaria e abbandona l’ottica carcerocentrica, senza tuttavia dimenticare i capisaldi del processo sul fatto, sull’autore e sulle conseguenze.
L’esegesi prospettata dal Supremo Collegio pare altresì idonea a riverberarsi su di una questione interpretativa limitrofa. L’art. 168 bis c.p. ha suscitato dubbi ermeneutici ed aspre censure di irragionevolezza anche in ordine alla scelta di rinviare ai reati ex art. 550, co. 2, c.p.p. In proposito si è sottolineato da più parti che si tratta di fattispecie incriminatrici, da un lato, idonee a far aumentare vertiginosamente la pena (si pensi al furto aggravato, punito con la reclusione fino a dieci anni), da un altro lato, indici di una pericolosità e di un allarme sociale che potrebbero risultare superiori rispetto a quanto accade in relazione a reati, per contro, esclusi dall’ambito applicativo della messa alla prova attraverso il riferimento al limite edittale dei quattro anni. D’altronde, le rationes che hanno indotto ad individuare le fattispecie sottoposte nominatim al procedimento monocratico con citazione diretta risultano non sovrapponibili a quelle sottese alla delimitazione dell’ambito di applicabilità della messa alla prova16. Si è proposta così un’interpretazione correttiva, ispirata al principio di ragionevolezza, che considerasse applicabile la messa alla prova ai reati indicati dall’art. 550, co. 2, c.p.p. soltanto qualora risultasse irrogabile una pena non superiore a quattro anni.
Ebbene, le valutazioni condotte dalle Sezioni Unite in ordine al criterio quantitativo – che risulta idoneo a comprendere un range di ipotesi criminose piuttosto ampio ove si acceda alla sterilizzazione di ogni tipo di circostanza aggravante – rispondono anche alle ricordate obiezioni relative al richiamo all’art. 550, co. 2 c.p.p. che, anzi, non è stato in alcun modo posto in discussione dal Supremo Collegio nella sua portata per così dire “integrale”.
Dal canto suo, la sentenza sulle impugnazioni ha preso le mosse dalla natura dell’ordinanza del giudice, alla quale è stata riconosciuta una funzione complessa e composita. Egli, infatti, da un lato, deve accertare, sia pure allo stato degli atti, la sussistenza del fatto e la corretta qualificazione giuridica dello stesso; da un altro lato, deve compiere un giudizio penetrante sulla persona dell’imputato. Il giudice è chiamato a formulare una valutazione sull’idoneità del programma sia sotto un profilo di proporzionalità rispetto al fatto, sia di adeguatezza rispetto all’autore, sia in relazione alla prognosi di non recidiva. Per la Cassazione «nella fase del vaglio dell’ammissibilità alla messa alla prova, il giudice, seppure in base ad un accertamento sommario, anticipa un “cripto-processo” sul fatto, sull’autore e sulle conseguenze della messa alla prova». Ci si trova, inoltre, di fronte ad una inedita situazione nella quale in sede di cognizione trovano cittadinanza aspetti relativi al profilo trattamentale ed esecutivo. All’evidenza, il peso delle decisioni assunte con l’ordinanza giudiziale postula particolari esigenze difensive dell’imputato rispetto alle scelte che il giudice effettua. Soltanto una impugnazione di merito a critica libera è idonea a soddisfare siffatte necessità, ove per contro la sola impugnazione di legittimità a critica limitata avrebbe assai limitato le chances difensive dell’imputato dinanzi al diniego di probation17.
Così, nel caso di rigetto emesso nelle indagini preliminari o in udienza preliminare l’imputato beneficerà prima della possibilità di rinnovare la richiesta e, successivamente, di impugnare il diniego emesso dal giudice del dibattimento unitamente alla sentenza. Nel caso di diniego pronunciato direttamente nel giudizio (es. in caso di giudizio direttissimo), l’imputato avrà soltanto la possibilità di appellare ex art. 586 c.p.p. e, dunque, in tale contesto la necessità di una impugnazione di merito si configura in tutta la sua utilità per scongiurare il rischio di disparità di trattamento.
Nella medesima ottica, le Sezioni Unite hanno rilevato che il riconoscimento del solo ricorso per cassazione a fronte dell’ordinanza ammissiva non costituisce in alcun modo una deminutio per i soggetti legittimati. Infatti, per un verso, l’imputato ammesso alla prova può avere al massimo necessità di censurare profili di legittimità attinenti al mancato consenso in ordine ai contenuti del programma, giacché per il resto si tratta di un progetto da lui stesso formulato. Per un altro verso, il pubblico ministero (e l’offeso, nella parte in cui è chiamato a sollecitare quest’ultimo al di fuori dell’impugnazione diretta consentita nel solo caso di omesso avviso dell’udienza o di omessa audizione prima dell’udienza) ha comunque una tutela immediata, le cui limitazioni si giustificano in ragione della necessità di garantire il massimo favore all’istituto della messa alla prova.
Ebbene, la soluzione accolta dalla Corte introduce una diversificazione in ordine ai rimedi esperibili non direttamente ricavabile dall’espresso disposto normativo. Una simile soluzione potrebbe suscitare perplessità sotto il profilo della parità tra le parti, giacché il pubblico ministero viene estromesso in via esegetica dalla possibilità di sollecitare un controllo di merito su di un provvedimento che si pronuncia funditus su aspetti che attengono all’accertamento del fatto ed alla determinazione in concreto della pena, in relazione al quale non ha alcun potere di sindacato.
Note
1 Cass. pen., S.U., 1.9.2016, n. 36272, in www.cortedicassazione.it.
2 Cass. pen., S.U., 29.7.2016, n. 33216, in www.cortedicassazione.it.
3 Cass. pen., sez. VI, 10.9.2015, n. 36687, in CED rv. n. 264045; Cass. pen., sez. VI, 6.10.2015, n. 46795, in CED rv. n. 265484.
4 Cass. pen., sez. VI, 13.2.2015, n. 6483, in Dir. giust., 2015, 5, 42, con nota di Minnella, C., Si applica la probation alle ipotesi aggravate di detenzione di sostanze stupefacenti di lieve entità?; Cass. pen., sez. II, 29.7.2015, n. 33461, in CED rv. n. 264154; Cass. pen., sez. IV, 27.7.2015, n. 32787, in CED rv. n. 264325.
5 Le Sezioni Unite hanno esaminato anche l’obiezione secondo cui l’art. 550, co. 2, c.p.p. richiama alcune fattispecie circostanziate. Ad avviso del Supremo Collegio i due criteri quantitativo e qualitativo utilizzati dall’art. 168 bis c.p. non si pongono in rapporto regola-eccezione. La conclusione convince anche perché l’art. 550, co. 2 c.p.p. – che nella norma di origine può avere la funzione di svincolare determinate fattispecie dal criterio di computo ex art. 4 c.p.p., richiamato dal primo comma – nel contesto della messa alla prova ha una autonomia.
6 Il riferimento alle circostanze ad efficacia e ad effetto speciale è stato eliminato in Senato nel testo approvato e trasmesso alla Camera (v. Dossier n. 89 della XII Legislatura,a cura del Servizio Studi del Senato, Roma, 2013).
7 Cfr. Cass. pen., sez. III, 29.5.2014, n. 28548, in Foro it., 2015, 2, II, 98.
8 Si ricordano, esemplificativamente, i reati societari ex artt. 2621 ss. (Orlandi, R., Procedimenti speciali, in Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso, V. Grevi e M. Bargis, Padova, 2014, 744).
9 Condivide tale soluzione anche in ragione della circostanza che la messa alla prova comporta comunque un trattamento sanzionatorio avente contenuto afflittivo, Bartoli, R., Le recenti questioni applicative tema di messa alla prova dell’adulto, in AA.VV., Sistema sanzionatorio e processo penale: lavori in corso, in Giur. it., Gli speciali, Milano, 2015, 9. In tal senso anche Marandola, A., Il criterio quantitativo della pena per l’ammissione alla messa alla prova, in Giur. it., 2015, 2228.
10 Sulle possibili difficoltà applicative in caso di annullamento con rinvio, Fanuli, G.L., L’istituto della messa alla prova ex lege 28 aprile 2014, n. 67. Inquadramento teorico e problematiche applicativa, in Arch. nuova proc. pen., 2014, 437438. In proposito, v. anche Diddi, A., La fase di ammissione alla prova, in La deflazione giudiziaria, a cura di N. Triggiani, Torino, 2014, 132.
11 Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. e processo, 2014, 683. Per l’individuazione dei possibili motivi di ricorso, Rel. n. III/07/2014, 22.
12 Cfr. ex multis, Cass. pen., sez. IV, 18.6.2003, n. 34169, in Cass. pen., 2005, 905. Sul punto, V. anche Montagna, M., Sospensione del procedimento con messa alla prova, in Le nuove norme sulla giustizia penale, a cura di C. Conti, A. Marandola e G. Varraso, Padova, 2014, 409410.
13 Cass. pen., sez. V, 15.12.2014, n. 5673, in CED rv. n. 262106; Cass. pen., sez. V, 14.11.2014, n. 5656, in CED rv. n. 264270; Cass. pen., sez. II, 12.5.2015, n. 40397, in CED rv. n. 264574; Cass. pen., sez. V, 3.6.2015, n. 25566, in CED rv. n. 264061.
14 Cass. pen., sez. II, 2.7.2015, n. 41762, in CED rv. n. 264888, Dimitriu; Cass. pen., sez. II, 10.5.2015, n. 20602, in CED rv. n. 263787; Cass. pen., sez. V, 4.6.2015, n. 24011, in CED rv. n. 263777; Cass. pen., sez. III, 26.6.2015, n. 27071, in CED rv. n. 263814. In dottrina, Montagna, M., Sospensione del procedimento, cit., 409 e Diddi, A., La fase applicativa, cit., 130 che, tra l’altro, fa l’esempio dell’imputato che eccepisca il difetto di motivazione sull’inapplicabilità dell’art. 129 c.p.p.
15 Nell’ipotesi che il giudice di seconde cure annulli l’ordinanza ammissiva l’attività risulterà svolta inutilmente. Tuttavia, ad avviso della Cassazione, si tratta di una scelta del legislatore che in questo modo privilegia la posizione dell’imputato ammesso alla probation e incentiva l’istituto a cui il legislatore riconosce una valenza deflativa.
16 Anche il criterio che ha indotto il legislatore a prevedere qualitativamente i reati per i quali si procede con citazione diretta non appare limpidissimo (ci si riferisce alla l. 16.12.1999, n. 479 che ha introdotto il procedimento in esame). L’idea di fondo è stata quella di prevedere una semplificazione procedurale con riferimento a reati statisticamente frequenti e di facile accertamento. Tuttavia, non sono state chiarite fino in fondo le motivazioni della scelta di escludere dalla citazione diretta ipotesi criminose pur originariamente attribuite alla competenza pretorile. Si veda Garuti, G., Il procedimento per citazione diretta a giudizio davanti al tribunale, Milano, 2003, 89 ss. e ivi ampi riferimenti bibliografici. In merito alla messa alla prova, secondo Tabasco, G., La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in Arch. pen., 2015, 1 8, «sarebbe stato, forse, più ragionevole riservare al giudizio discrezionale del giudice l’individuazione dei casi concreti nei quali, nonostante il superamento del limite edittale prestabilito, la modesta offensività del fatto avrebbe potuto giustificare l’applicazione della nuova procedura». La questione è affrontata anche da Scordamaglia, I., Relazione svolta all’incontro di studio Il nuovo volto della messa alla prova e la sospensione del procedimento penale, Scuola superiore della magistratura, Struttura territoriale del distretto di Corte d’Appello dell’Aquila, Avezzano, 31.6.2015, 1011.
17 Nel senso della scarsa utilità di una impugnazione di mera legittimità avverso un provvedimento che tocca diritti fondamentali dell’individuo anche nella parte in cui tratteggia in concreto il contenuto degli impegni assunti dall’imputato, v., già, Galati, M.L., La messa alla prova nel processo penale. Le applicazioni pratiche della legge n. 67/2014, a cura di M.L. Galati e L. Randazzo, Milano, 2015, 94 ss. Si vedano anche le critiche di Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto, cit., 683; Tabasco, G., La sospensione del procedimento, cit., 35. Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite non hanno mancato di sottolineare che ai sensi dell’art. 586, co. 1, c.p.p., il rigetto di probation è impugnabile anche nel caso in cui la sentenza sia appellata solo per connessione con l’ordinanza.