Messa alla prova: gli sviluppi giurisprudenziali
La sospensione del procedimento con messa alla prova, nel registrare una sempre maggiore applicazione, continua ad impegnare le Corti superiori. Si devono alla Corte costituzionale due recenti sentenze, una delle quali – la n. 91/2018 – risolve molte delle problematiche più cruciali, offrendo un’interpretazione della disciplina completa e risolutiva, e restituendo un istituto di dichiarata legittimità costituzionale, in grado di conseguire le molteplici finalità che lo connotano. Altre criticità tuttora permangono, e già su alcune di esse la giurisprudenza si interroga, adottando soluzioni che confermano il generale favor per la messa alla prova.
La sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti dei maggiorenni, infrangendo il binomio classico processo di cognizione-esecuzione della pena, costituisce un istituto nuovo, con molteplici finalità1, connotato da una duplice natura, processuale e sostanziale2, e con un iter procedimentale articolato ma a tratti lacunoso: tutto ciò non ha solo richiesto un notevole sforzo applicativo da parte degli uffici giudiziari, che per la prima volta, massivamente, si sono attrezzati con linee guida e protocolli, ma è fonte di continue problematiche interpretative, come dimostrano i numerosi commenti dottrinari ed una produzione giurisprudenziale significativa.
Tra gli sviluppi giurisprudenziali più recenti, l’analisi deve partire dalla sentenza della Corte costituzionale del 21.2.2018, n. 91 (dep. 27.4.2018), con la quale l’istituto ha superato indenne il vaglio di legittimità costituzionale su una serie di questioni cruciali, che minavano la sua stessa sopravvivenza, e la cui risoluzione è destinata a ripercuotersi, risolvendole, su molte delle problematiche della messa alla prova già in passato evidenziate3. A seguire, l’ulteriore sentenza additiva di accoglimento del 21.3.2018 (dep. 5.7.2018), n. 141, che amplia il ricorso all’istituto ai casi di contestazione suppletiva di una circostanza aggravante. Infine una serie di pronunce della Corte di cassazione che sciolgono ulteriori nodi interpretativi, nonché alcune questioni nuove, sulle quali si registrano già i primi orientamenti e che appare opportuno segnalare.
Nella sentenza n. 91/2018 la Consulta analizza quattro questioni, che il Tribunale ordinario di Grosseto ha nuovamente sollevato, dopo una precedente pronuncia di manifesta infondatezza4 e le risolve efficacemente con una decisione articolata – in parte interpretativa di rigetto, in parte di infondatezza – in cui affronta tra le righe il problematico snodo della natura della decisione di ammissione alla prova, sulla quale si registrava una forte spaccatura tra l’orientamento, di matrice soprattutto giurisprudenziale, favorevole ad una decisione sommaria ed incidentale e l’orientamento più rigoroso, che, paventando la violazione del principio costituzionale di non colpevolezza, è fautore del contenuto accertativo, esteso al merito dell’accusa e alla responsabilità. Condividendo la lettura data dalle Sezioni Unite nelle sentenze “gemelle” del 31.3.2016, Sorcinelli5 e Rigacci6, la Consulta parte dalla considerazione che l’istituto persegue finalità composite, deflattive, special-preventive, di risocializzazione e premiali. L’indagato/imputato rinuncia al processo ordinario attraverso la richiesta volontaria del rito speciale, con la quale esercita una facoltà difensiva che non viola alcuna garanzia riconosciutagli e, non contestando l’accusa, si assicura un trattamento più vantaggioso di quello che gli offrirebbe il rito ordinario. Il fondamento costituzionale della messa alla prova, al pari del patteggiamento, è dunque, secondo la Corte, nella volontà che l’imputato esprime quando chiede il rito speciale e presta il suo consenso alle condotte contemplate nel programma di trattamento, alla loro modifica ed alla loro integrazione. Come nel patteggiamento, anche nella messa alla prova, tuttavia, «non manca in via incidentale ed allo stato degli atti (perché l’accertamento definitivo è rimesso all’eventuale prosieguo del giudizio, nel caso di esito negato della prova) una considerazione della responsabilità dell’imputato», essendo attribuito al giudice il potere-dovere di verifica “in negativo” sull’assenza di elementi per una pronuncia ex art. 129 c.p.p. Nella messa alla prova manca però una condanna e « ... correlativamente manca un’attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell’imputato e su sua richiesta (non perché è considerato colpevole), in difetto di un formale accertamento di responsabilità, viene disposto un trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel caso di un’eventuale condanna». Diversamente dal patteggiamento, dunque, essa conduce ad una sentenza di proscioglimento per estinzione del reato, nella quale il programma di trattamento non è – expressis verbis – una sanzione penale7, non si basa su un titolo esecutivo e non è eseguibile coattivamente, trattandosi di attività disposta con ordinanza, rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, alla cui volontà è riservata non solo la decisione ma anche l’esecuzione della messa alla prova. Da tutto ciò l’esclusione della violazione della presunzione di innocenza e l’infondatezza delle questioni. Ma la Corte offre un contributo ricco anche di risvolti pratici, indicando gli strumenti utilizzabili ai fini della verifica giudiziale sull’art. 129 c.p.p., che va effettuata valutando la richiesta dell’imputato, disponendone eventualmente la comparizione (art. 464 quater, co. 2, c.p.p.), o anche, se ritenuto necessario, acquisendo ulteriori informazioni, in applicazione dell’art. 464 bis, co. 5, c.p.p., o ancora, visionando gli atti del fascicolo del pubblico ministero.
Con una soluzione ingegnosa, la Consulta risolve infatti con una inammissibilità la questione dell’assenza di una specifica disposizione in tal senso, ricorrendo all’applicazione in via analogica, come già fatto in passato per l’abbreviato8, dell’art. 135 disp. att. c.p.p., così consentendo al giudice del dibattimento, ai soli fini della decisione – incidentale ed allo stato degli atti – sulla richiesta di messa alla prova, di prendere visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero. Richiamando i principi espressi nel 2004, il giudice del dibattimento che visioni gli atti di indagine in virtù dell’art. 135 disp. att. c.p.p. – ma il discorso può estendersi al giudice per le indagini preliminari
o dell’udienza preliminare che ha direttamente a propria disposizione il fascicolo del p.m. – dovrà quindi compiere su quegli atti una valutazione solo incidentale delle risultanze raccolte, finalizzata alla verifica “in negativo” sull’art. 129 c.p.p. (ed “in positivo” sui presupposti per ammettere alla prova – ndr), senza che ciò si traduca in un giudizio sul merito dell’azione penale, della responsabilità e/o della colpevolezza dell’imputato e sia causa di incompatibilità per il giudice stesso. La decisione risolve infine, ritenendola infondata, anche la questione sull’indeterminatezza qualitativa (riferita alla tipologia delle condotte contemplate e contemplabili) e quantitativa (riferita alla loro misura temporale) del programma di trattamento. Se al legislatore spetta l’indicazione delle singole condotte, saranno il giudice e l’u.e.p.e, con il consenso dell’interessato, a specificare e modulare ognuna di esse, riempiendole dei contenuti prescrittivi e di sostegno idonei a diversificarle; allo stesso modo sarà il giudice a determinare in concreto la durata del lavoro di pubblica utilità, ed ove non lo faccia, essa non potrà che corrispondere alla durata complessiva della sospensione9.
L’applicazione in via analogica all’art. 135 disp. att. c.p.p. ed il richiamo ai principi espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 44711/2004 ha importanti riflessi anche sul giudice, che non diverrà incompatibile qualora, in caso di rigetto, revoca o esito negativo della prova, proceda al giudizio di cognizione ordinaria e questa stessa linea interpretativa può estendersi ai casi ad essi assimilabili, quali quelli del giudice che proceda al giudizio di cognizione, dopo aver ammesso alla prova, previa derubricazione, o diversa qualificazione, del fatto10; o dopo aver deciso su una richiesta di messa alla prova “parziale oggettiva” (avanzata per alcuni reati contestati nell’ambito di un procedimento oggettivamente cumulativo), o “parziale soggettiva” (presentata da una parte degli imputati nell’ambito di un procedimento soggettivamente cumulativo).
È questa un’interpretazione che, oltre ad armonizzarsi con la decisione della Consulta, incide positivamente sulle finalità deflattive che concorrono a connotare l’istituto.
La linea interpretativa della Consulta avalla anche recenti pronunce della Suprema Corte secondo cui, in caso di sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per il positivo superamento della messa alla prova, il giudice non può applicare le sanzioni amministrative accessorie della revoca della patente11 e dell’ordine di demolizione12, in quanto, tanto l’una quanto l’altro, presuppongono la pronuncia di una sentenza di condanna, alla quale non può essere equiparata la declaratoria di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ferma restando la competenza dell’autorità amministrativa ad irrogare le predette sanzioni (nel primo caso, con trasmissione degli atti al Prefetto, a norma dell’art. 223, co. 4, c.d.s. entro i successivi quindici giorni dall’irrevocabilità della sentenza).
È del 2016 un’altra pronuncia della Suprema Corte che, partendo dal medesimo assunto – l’inidoneità della sentenza di proscioglimento per esito positivo della messa alla prova ad esprimere un compiuto accertamento sul merito dell’accusa e sulla responsabilità –, ha affermato che essa non può essere posta alla base di un contrasto di giudicati tra coimputati per il medesimo reato, che avevano diversamente definito la loro posizione processuale13. Oggi, alla luce della pronuncia della Consulta, deve ritenersi che il rispetto dei canoni della cognizione sommaria ed incidentale della decisione sulla messa alla prova escluda il contrasto tra giudicati, con ripercussioni positive anche sulla deflazione (quanto meno in termini di non aggravio).
Sulla scia della sentenza n. 201/2016 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 460, co. 2, lett. e), c.p.p. nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova, la Consulta ha adottato una seconda decisione di accoglimento “additiva”, che amplia l’ambito applicativo dell’istituto.
La questione è stata proposta dal Tribunale di Salerno e con la sentenza 21.3.2018 (dep. 5.7.2018), n. 141 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p., nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova. La premessa da cui la Corte parte è la graduale apertura nella giurisprudenza costituzionale alla presentazione di istanze di patteggiamento e di abbreviato, sia in caso di contestazioni di un fatto diverso, di un reato concorrente o di una circostanza aggravante cd. “tardive” o “patologiche” (relative a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale), che di nuove contestazioni cd. “fisiologiche” (collegate alle risultanze dell’istruzione dibattimentale)14. In linea con quelle aperture, la Consulta ha affermato che in caso di «sopravvenienza di una contestazione suppletiva, quali che siano gli elementi che l’hanno giustificata, esistenti fin dalle indagini o acquisiti nel corso del dibattimento ... [va riconosciuta] ... la facoltà dell’imputato di chiedere un rito alternativo, indipendentemente dalla ragione per cui la richiesta in precedenza è mancata». In modo assolutamente convincente, la Corte trova il fondamento costituzionale di questa facoltà nel diritto di difesa, costituendo la richiesta di riti alternativi – tra i quali rientra la messa alla prova – una sua modalità di esercizio, peraltro tra le più qualificanti. Di qui, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p.
Si registra una pronuncia del Tribunale di Milano15 su una questione inedita, riguardante la possibilità di estendere la messa alla prova anche alla persona giuridica, imputata dell’illecito amministrativo “da reato”. A fronte di una richiesta in questo senso, basata su un’interpretazione che valorizza l’art. 34 d.lgs. 8.6.2001, n. 231 (quale norma di apertura e di raccordo tra il decreto e le disposizioni del codice di rito, applicabili se compatibili) e la natura processuale della messa alla prova, ritenuta non recessiva rispetto a quella sostanziale che le è comunque riconosciuta, il Tribunale di Milano ha assunto una decisione rigorosa e conforme all’interpretazione letterale delle norme. Correttamente si è ritenuto che solo un intervento normativo de jure condendo potrebbe permettere di estendere alla persona giuridica, imputata per illecito amministrativo da reato, la disciplina della messa alla prova, che, allo stato risulta difficilmente applicabile.
Può oggi ritenersi pacifico che la messa alla prova possa essere applicata anche in appello, quando il giudizio di primo grado, a seguito del rigetto della richiesta, sia stato definito con giudizio di merito ordinario. Ciò è dovuto alla sentenza Cass. pen., S.U., n. 33216/2016, Rigacci, che ha privilegiato la tesi secondo cui l’ordinanza di rigetto della sospensione del procedimento con messa alla prova non va impugnata con ricorso per cassazione, ma va appellata, unitamente alla sentenza di condanna di primo grado, innanzi alla Corte d’appello, cui è riconosciuto, nel caso di riforma del provvedimento di rigetto, il potere di sospendere il procedimento ed ammettere alla prova l’imputato. In questa ipotesi l’effetto deflattivo processuale (quasi del tutto neutralizzato, essendo stato celebrato un primo grado di giudizio), deve necessariamente recedere rispetto al diritto dell’imputato ad ottenere quegli effetti di rilievo sostanziale derivanti dall’esito positivo della prova e che conducono all’estinzione del reato, valorizzandosi così il carattere premiale e la vocazione alla finalità rieducativa che parimenti connotano l’istituto. La Corte, in quello che può sembrare un contrasto, in realtà solo apparente, ha esteso l’applicazione in appello della messa alla prova, la cui istanza era stata rigettata in primo grado, anche ai casi di definizione del giudizio con rito abbreviato chiesto ante riforma cd. Orlando16; mentre lo ha escluso in caso di patteggiamento: in tale ultima ipotesi ha infatti ritenuto che l’applicazione concordata postula la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato17. Oggi, il principio enunciato da quest’ultima sentenza sembra applicabile anche ai casi di rito abbreviato chiesto, ai sensi dell’art. 438, co. 6-bis, c.p.p., in esito al rigetto della messa alla prova, avendo la riforma Orlando recepito anche per esso il medesimo meccanismo di sanatoria.
Permangono tuttora una serie di profili problematici della messa alla prova, anche se molte criticità, come visto, hanno trovato una felice (ed ingegnosa) soluzione nella sentenza C. cost. n. 91/2018.
Sulla revoca e sui presupposti che la determinano si registrano le prime pronunce, che cercano di colmare la lacunosità della normativa.
La questione più controversa riguarda la revoca in caso di commissione di reato durante la messa alla prova, in particolare quando su di esso vi sia una mera notitia criminis. Si registra allo stato un’articolata sentenza18 che lascia al giudice del procedimento incidentale l’accertamento, in termini di elevata probabilità, circa l’avvenuta “commissione” dell’ulteriore fatto criminoso, realizzato durante il corso del programma, fondato sulla scorta di una solida base cognitiva, ma senza dover attendere che su di esso intervenga la sentenza di condanna irrevocabile (che, dati i normali tempi di definizione dei processi, giungerebbe dopo la conclusione della prova). Qualora poi il nuovo fatto-reato costituisca ancora una semplice notitia criminis (contenuta per esempio in una denuncia o in una querela), la valutazione del giudice del procedimento incidentale dovrà essere ancor più rigorosa ed attenta, con un contraddittorio pieno in merito alla “commissione” del nuovo episodio, da svilupparsi nel corso dell’udienza che va obbligatoriamente fissata, nella quale le parti potranno sottoporre al giudice le proprie prospettazioni, versare elementi obiettivi ulteriori ed utili alla decisione, oltre che discutere e confrontarsi. Se all’esito sussistono i presupposti per affermare l’avvenuta “commissione” di un nuovo “delitto non colposo” ovvero – con un maggiore spazio valutativo – un “reato della stessa indole di quello per cui si procede”, il giudice è tenuto a revocare. La decisione convince, da un lato perché mira ad evitare di far scattare l’effetto revocatorio (a sua volta irrevocabile) della sospensione del procedimento con perdita definitiva (e non più recuperabile) della possibilità di accedere all’istituto, in presenza di situazioni ancora non nette e suscettibili di esiti aperti nel corso del procedimento per il nuovo fatto; dall’altro, perché valorizza l’udienza ex art. 464 octies, co. 2, c.p.p., come momento di verifica, sommaria ed incidentale, sul nuovo fatto di reato, senza far scattare automatismi non rimediabili. Essa sconta tuttavia una infelice scelta legislativa, laddove, ancorando la revoca alla generica “commissione” di un fatto di reato e prevedendo la necessità che il giudice fissi udienza, previo avviso alle parti, genera un cortocircuito nei casi in cui la notizia criminis sia ancora coperta da segreto istruttorio per non aver il p.m. neanche emesso l’informazione di garanzia. In queste ipotesi, inviando l’avviso dell’udienza e celebrandola, il giudice del procedimento incidentale finisce col rendere noti gli atti dell’autonomo procedimento, di cui non è il dominus. Inoltre, nello stabilire che in caso di accertata “commissione” del fatto nuovo – sia pur con cognizione sommaria ed incidentale – debba scattare la revoca, dà rilievo, includendoli in essa, anche alle ipotesi in cui il fatto nuovo sia di particolare tenuità e possa definirsi con una sentenza di proscioglimento.
Ed ora, in conclusione, una riflessione sui possibili, ulteriori sviluppi dell’istituto. La messa alla prova costituisce una forma embrionale di modello di giustizia riparativa nell’ambito del processo ordinario di cognizione ed andrebbe quindi valorizzato il ruolo della persona offesa, cui sono riconosciuti solo alcuni (pochi) diritti (quello di informazione; di essere sentita se compare, senza che ciò si traduca in un potere di veto; di impugnare, in caso di omesso avviso o se non sia stata sentita, pur se comparsa), a fronte di una serie di disposizioni che contemplano articolati percorsi riparativi, tra i quali la mediazione con la persona offesa, in un quadro normativo, soprattutto europeo ed internazionale, fortemente concentrato su di essa. Con la mediazione, ossia con un procedimento informale ma strutturato dove la vittima e l’autore di reato sono messi in condizione, se vi acconsentono liberamente, di partecipare alla soluzione delle questioni derivanti da un reato attraverso l’aiuto di un terzo imparziale, si introduce, per la prima volta innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, un tipico strumento di giustizia riparativa e nonostante la frizione con il principio (corretto e condivisibile) secondo cui la confessione – e di riflesso la revisione critica – non sono requisiti di ammissione alla messa alla prova19 e le difficoltà nel trovare strutture in cui svolgerla, essa, nei casi in cui vi siano le condizioni soggettive ed oggettive per attuarla, andrebbe potenziata e valorizzata. Anche l’audizione della persona offesa da parte del giudice andrebbe valorizzata: sentendola non già sul merito del fatto di reato (in ossequio a quella cognizione sommaria ed incidentale che deve caratterizzare la decisione sulla ammissione alla prova) bensì sulla portata del programma di trattamento, sulle condotte riparatorie adottabili e più in generale sulle prescrizioni da inserire nel programma, si potrebbero realizzare e conseguire concretamente quelle finalità riparative, che concorrono a connotare l’istituto, e lo rendono cosi peculiare nel panorama giuridico italiano.
1 Sulla tensione tra le finalità special-preventive e quelle premiali, cfr Bartoli, R., La “novità” della sospensione del procedimento con messa alla prova, in www.penalecontemporaneo.it, 9.12.2015; sulle finalità risocializzanti e lato sensu riparative, cfr Cesari, C., La sospensione del processo con messa alla prova: sulla falsariga dell’esperienza minorile, nasce il probation processuale per gli imputati adulti, in Legisl. pen., 2014, 4, 387 e, se consentito, Bove, V., La messa alla prova, in Quid Iuris, Collana diretta da G. Spangher, III, Pisa, 2018, 15.
2 In questo senso C. cost., 26.11.2015, n. 240.
3 Conti, C., Messa alla prova: le prime applicazioni dell’istituto, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016.
4 C. cost., ord. 10.11.2016, n. 237.
5 Cass. pen., S.U., 31.3.2016, n. 36272, in CED rv. n. 267238, che a sua volta ha sviluppato l’interpretazione offerta in C. cost. n. 240/2015.
6 Cass. pen., S.U., 31.3.2016, n. 33216, in CED rv. n. 267237.
7 Per una lettura parzialmente critica sul punto, cfr. Muzzica, R., La Consulta ‘salva’ la messa alla prova: l’onere di una interpretazione ‘convenzionalmente’ orientata per il giudice nazionale, in Dir. pen. cont., fasc. 6, 2018, 173.
8 Cass. pen., S.U., 27.10.2004, n. 44711, in CED rv. n. 229176
9 In questo senso già C. cost., ord. 31.3.2015, n. 57.
10 Cass. pen., 20.10.2015, n. 4527, in CED rv. n. 265735.
11 Cass. pen., 25.5.2017, n. 29796, in CED rv. n. 270348.
12 Cass. pen., 10.5.2017, n. 39455, in CED rv. n. 271642.
13 Cass. pen., 5.10.2016, n. 53648, in CED rv. n. 268635.
14 Cfr. C. cost., 30.6.1994, n. 265; 29.12.1995, n. 530; 18.12.2009, n. 333; 26.10.2012, n. 237; 25.6.2014, n. 184; 5.12.2014, n. 273; 9.7.2015, n. 139; 17.7.2017, n. 206.
15 Trib. Milano, 27.3.2017, www.penalecontemporaneo.it.
16 Cass. pen., 15.2.2018, n. 29622, in CED rv. n. 273174.
17 Cass. pen., 24.11.2016, n. 25252, in CED rv. n. 269072.
18 Cass. pen., 23.2.2018, n. 28826, in CED rv. n. 273655, 273654.
19 Cass. pen., 23.2.2015, n. 24011, in CED rv. n. 263777.