Messa alla prova: le prime applicazioni dell’istituto
La messa alla prova per imputati maggiorenni – introdotta dalla l. 28.4.2014, n. 67 – ha avuto sin da subito ampia applicazione. Il costrutto normativo di recente conio, tuttavia, presenta ermetismi e lacune che hanno richiesto numerosi interventi giurisprudenziali chiarificatori. Inoltre, trattandosi di un istituto in cui gli aspetti pratici risultano determinanti, si è voluto scongiurare il rischio di modalità operative disomogenee capaci di produrre rilevanti disparità, specie sotto il profilo della individuazione e della gestione delle misure sanzionatorie. Pertanto, molti profili sono stati approfonditi attraverso l’approvazione di linee guida, vademecum e protocolli operativi. Ancora, con un qualche ritardo rispetto alle attese, nel giugno 2015 è stato approvato il regolamento ministeriale che disciplina le convenzioni con gli enti volte a regolare il lavoro di pubblica utilità, asse portante della disciplina del rito semplificato.
La sospensione del procedimento con messa alla prova per imputati maggiorenni è stata introdotta dalla l. n. 67/2014 ed è ispirata alla probation di origine anglosassone ed all’omologo istituto già previsto nel rito minorile.
Alla finalità deflattiva del carico giudiziario si accompagna l’intento di perseguire il reinserimento sociale “anticipato” degli imputati dei reati di minore gravità. Sotto il profilo del diritto processuale, si tratta di un procedimento speciale (artt. 464 bis s. c.p.p.). Dal punto di vista sostanziale, in caso di esito positivo della prova l’istituto si configura come una causa di estinzione del reato (art. 168 bis c.p.).
L’analisi del regolamento ministeriale sul lavoro di pubblica utilità, dei primi arresti giurisprudenziali e dei protocolli operativi, oltre ad integrare la disciplina stabilita dal codice di procedura penale, permette altresì di meglio comprendere la natura e la finalità dell’istituto.
2.1 Il regolamento ministeriale sulle convenzioni con gli enti
Il lavoro di pubblica utilità costituisce il contenuto imprescindibile della messa alla prova (art. 168 bis c.p.). Si è dinanzi ad un istituto proteiforme, già noto al nostro ordinamento che finora ha svolto funzioni diverse. Nella materia in esame esso – per quanto armonicamente collocato sullo sfondo delle istanze riparative sottese alla probation – presenta una palese natura sanzionatoria. È importante precisare che quella del lavoro di pubblica utilità è una questione legata a doppio filo con gli aspetti pratici. La presenza di enti convenzionati, disponibili ad accogliere i “probandi”, risulta determinante al fine del successo della misura.
All’uopo, il 9.6.2015 il Ministro della giustizia ha adottato il regolamento previsto dall’art. 8 l. n. 67/2014 che considera obbligatoria la stipula delle convenzioni (art. 2, co. 1) alla stessa stregua del d.m. 26.3.2001 relativo al lavoro di pubblica utilità irrogato dal giudice di pace (art. 3). Subito dopo l’approvazione del regolamento, molti enti si sono attivati per la stipula delle convezioni o l’estensione di quelle preesistenti in materia di stupefacenti, di guida in stato di ebbrezza o in relazione ai reati di competenza del giudice di pace.
Da più parti si rileva come uno dei problemi maggiormente avvertiti riguardi gli oneri assicurativi. Sia il d.m. del 2001 per il lavoro di pubblica utilità presso il giudice di pace (art. 2, co. 3), sia il regolamento appena approvato in relazione alla messa alla prova (art. 3, co. 4) li pongono a carico degli enti convenzionati. Per rimuovere anche tale potenziale ostacolo, in alcuni Protocolli d’intesa (es. quello firmato a Perugia il 7.5.2015) è previsto che all’adempimento dell’obbligo della copertura assicurativa possa provvedere anche lo stesso soggetto che chiede l’ammissione alla probation.
2.2 Questioni di diritto transitorio
Scendendo a cimentarci con il diritto vivente, occorre tenere presente che, in assenza di una disciplina transitoria, la prima questione affrontata da una copiosa giurisprudenza è stata quella dell’applicabilità della messa alla prova ai processi in corso, laddove fossero scaduti i termini previsti dall’art. 464 bis, co. 2, c.p.p.
La soluzione è dipesa dalla opzione circa la natura sostanziale o processuale dell’istituto. Difatti, laddove se ne fosse privilegiato il volto sostanziale di causa di estinzione del reato, sarebbe risultato applicabile il principio della lex mitior – ai sensi dell’art. 2, co. 4, c.p. e dell’art. 7 CEDU così come letto dalla sentenza Scoppola c. Italia – con conseguente operatività della disciplina anche nei processi in cui i predetti termini fossero spirati1. Per contro, ove si fosse valorizzata la natura processuale, il principio tempus regit actum avrebbe imposto di applicare l’istituto soltanto ai processi in cui i predetti termini fossero ancora pendenti. Quest’ultima soluzione è stata ribadita con fermezza dalla costante giurisprudenza di legittimità che ha escluso l’ammissibilità della richiesta tardiva presentata nel giudizio di cassazione, di appello, ovvero nel giudizio di primo grado una volta spirati i termini previsti dall’art. 464 bis c.p.p.2.
La Cassazione ha affermato che dall’assenza di una disciplina transitoria si ricava la scelta consapevole del legislatore di individuare il limite temporale per la presentazione della richiesta di sospensione del processo con messa alla prova esclusivamente nel termine previsto dall’art. 464 bis c.p.p. anche in relazione ai processi in corso. È tale norma, dunque, che determina i procedimenti in cui la disciplina può trovare applicazione3. Una simile regolamentazione non appare confliggente con l’art. 3 Cost., giacché la scelta di fissare uno sbarramento temporale per la presentazione della richiesta – per quanto possa determinare trattamenti differenti per situazioni pur apparentemente simili – risulta espressione della discrezionalità legislativa come tale insindacabile4.
Del resto, come precisato dalla Suprema Corte, un ulteriore argomento si trae dalla l. 11.8.2014, n. 118 che ha previsto norme transitorie in relazione alla sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili – essa pure disciplinata dalla l. n. 67/2014 – confermando a contrario che non vi è stato da parte del Parlamento alcun ripensamento quanto alla individuazione del termine finale di presentazione dell’istanza di messa alla prova.
2.3 I limiti applicativi e le circostanze
Alcune questioni esegetiche “a regime” si sono poste, poi, con riferimento all’ambito applicativo dell’istituto.
Una prima querelle, in realtà inattesa, vista la chiarezza della littera legis, ha riguardato il tema delle forme di manifestazione del reato.
L’art. 168 bis, co. 1, c.p. fa riferimento ai soli limiti edittali senza alcuna menzione delle circostanze, né alcun rinvio alle norme che ne prevedono la rilevanza.
Si è dinanzi ad un silenzio eloquente: l’idea, che emerge anche dall’iter parlamentare, dove si è registrata la caduta dell’originario riferimento agli accidentalia delicti, era quella di allargare l’ambito di operatività della messa alla prova sterilizzando gli aumenti di pena, anche significativi, dovuti alle circostanze. Soltanto le ipotesi in cui si ritiene di configurare una fattispecie autonoma esulano dall’ambito applicativo del rito in esame.
Del resto, la soluzione emerge interpretando a contrario l’art. 168 bis c.p. rispetto a tutte le disposizioni nelle quali il legislatore ha espressamente previsto la rilevanza quoad poenam delle forme di manifestazione del reato (artt. 4 e 278 c.p.p.). A questo proposito, un rilievo decisivo assume anche la considerazione che il legislatore del 2014 – nell’individuare l’ambito applicativo del nuovo istituto – ha richiamato soltanto l’art. 550, co. 2, c.p.p. e non anche l’art. 550, co. 1, c.p.p. che rinvia ai criteri di computo dell’art. 4 c.p.p. e, dunque, considera anche le aggravanti ad efficacia e ad effetto speciale.
Sulla questione si è pronunciata con particolare chiarezza la Cassazione con la sentenza Gnocco del 2015 ritenendo applicabile la messa alla prova anche al reato di cui all’art. 73, co. 5, TU stupefacenti (fatto di lieve entità) sia pure aggravato ex art. 80 T.U. stupefacenti e, come tale, rientrante nelle attribuzioni del tribunale collegiale, affermando nitidamente che questa eventualità non è certo esclusa ma anzi contemplata dalla disciplina della messa alla prova, applicabile anche ai reati attribuiti al collegio5.
Nel caso di specie, il giudice di merito faceva riferimento alla possibilità di respingere la richiesta sulla base dell’apprezzamento della gravità complessiva del reato6. Per contro, il Supremo Collegio ha ribadito che in claris non fit interpretatio: quella dei limiti edittali è una valutazione già effettuata in astratto dal legislatore e le preoccupazioni securitarie non possono indurre a forzare il dato letterale della norma.
2.4 La pronuncia della Cassazione sulla confessione
Attiene ancora all’ambito dei presupposti la sentenza con la quale la Cassazione si è pronunciata sulla questione specifica della configurabilità della confessione quale presupposto dell’istituto7.
La Suprema Corte ha ribadito con chiarezza che la presunzione di innocenza ed il diritto di difesa impediscono di considerare la contra se declaratio come un presupposto del rito. In proposito, per gli Ermellini – fermo restando che l’eventuale confessione potrà essere valutata dal giudice quale aspetto della condotta processuale del richiedente8 – vale quanto già la Suprema Corte ha avuto occasione di affermare con riferimento all’affidamento in prova: la mancata ammissione degli addebiti non costituisce ragione ostativa all’applicazione del beneficio9.
2.5 L’ammissibilità della “messa alla prova parziale”
L’ermetismo normativo nell’enunciazione dei presupposti ammissivi del rito ha determinato altresì rilevanti questioni in merito all’applicabilità della messa alla prova nel procedimento cumulativo.
L’art. 168 bis c.p. al primo comma, nel perimetrare l’ambito di applicabilità della prova, fa riferimento «ai procedimenti per reati puniti» con i noti limiti di pena o «per i delitti indicati» nominativamente dall’art. 550, co. 2, c.p.p. La medesima norma, al penultimo comma, afferma – con un altro limite aggiunto nell’ultimo scorcio dei lavori preparatori – che la sospensione del procedimento con messa alla prova non può essere concessa più di una volta. Al di fuori di tali locuzioni nella disciplina positiva non si rinvengono argomenti espressi per la soluzione della questione.
La prima ipotesi che si può prospettare è quella di un procedimento cumulativo per più reati soltanto alcuni dei quali rientrino nei limiti edittali della messa alla prova. In relazione a tale situazione ci si chiede se sia possibile disporre la separazione al fine di accedere al rito semplificato nel procedimento nel quale esso è ammissibile.
Sul punto si è registrata una prima pronuncia del Tribunale Torino, emessa a ridosso dell’entrata in vigore della nuova disciplina10. Ad avviso del Tribunale, la messa alla prova ha una finalità risocializzante ed è diritto dell’imputato quello di vedere estinto uno dei reati, anche se in concreto non si realizza una deflazione processuale giacché il processo, originariamente riunito, continua comunque a svolgersi per le restanti imputazioni. Per il Tribunale, dunque, il favor verso la messa alla prova induce ad optare per la configurabilità della “messa alla prova parziale”.
D’altronde, un argomento letterale si rinviene nell’art. 18, co. 1, lett. b), c.p.p. che prevede la separazione obbligatoria quando per un’imputazione sia disposta la sospensione del procedimento. La norma non precisa quale sia la causa della sospensione e, dunque, appare idonea a recepire anche l’ipotesi di recente conio.
È appena il caso di sottolineare che la soluzione volta a ritenere ammissibile la “messa alla prova parziale” può porre un problema di incompatibilità del giudice per molti versi analogo a quello che opera nell’ipotesi di ripresa del procedimento a seguito di revoca o esito infausto della prova11.
In senso nettamente contrario alla messa alla prova parziale, tuttavia, si è espressa la Cassazione, con la sentenza Allotta del marzo 201512 che ha capovolto l’argomento utilizzato dal Tribunale di Torino.
Ad avviso della Cassazione, non è ammissibile la probation parziale, giacché appare stridente con la struttura del sistema e con i presupposti dell’istituto che possa avvenire una parziale risocializzazione dell’interessato.
La questione ricorda – lo ha affermato ex professo la sentenza appena menzionata – quel noto contrasto giurisprudenziale che è sorto in tema di “patteggiamento parziale”.
La giurisprudenza volta ad escludere tale figura (salvo il caso che per i reati non patteggiabili – o non “patteggiati” – ci fosse la possibilità di addivenire alla pronuncia ex art. 129 c.p.p.) faceva leva essenzialmente sull’argomento che un meccanismo del genere sarebbe andato contro la finalità deflattiva dell’istituto, quasi che fosse esistito un «rapporto sinallagmatico tra beneficio sanzionatorio ed esaurimento delle regiudicande»13. L’orientamento di segno contrario si imperniava sull’assenza di un divieto espresso ravvisando comunque una deflazione nello “snellimento” del processo cumulativo.
In tema di messa alla prova, la Cassazione si era trovata dinanzi un caso di reato associativo e più reati scopo riuniti. Si tratta, dunque, di una vicenda sulla quale ha senz’altro inciso anche l’allarme sociale collegato agli addebiti.
Come si è accennato l’argomento dirimente sul quale la sentenza si è fondata è stata la non configurabilità di una risocializzazione parziale. La Suprema Corte ha fatto leva anche sulla littera legis sottolineando come l’art. 168 bis c.p.p. si riferisca ai “procedimenti” e non ai “reati”. Ad avviso degli Ermellini, tale norma fa comprendere che rientra nella logica dell’istituto la sospensione dell’intero procedimento.
In definitiva, per la Cassazione il fatto che l’imputato sia contemporaneamente chiamato a rispondere di più gravi e connessi reati esclude una possibilità di risocializzazione. Lo scopo dell’istituto, che deve ravvisarsi nella «eradicazione completa delle tendenze di condotta antigiuridica del soggetto», cozza con l’idea di un individuo semi-risocializzato.
La soluzione presta il fianco a rilevanti obiezioni. La prima – liquidata dalla sentenza in discorso in maniera piuttosto apodittica – è che se non si accetta l’idea di una risocializzazione parziale, non dovrebbe potersi disporre la messa alla prova nel procedimento per un singolo reato neppure quando nei confronti del medesimo imputato pendono altri procedimenti nati separati, magari per fatti di reato non connessi e ancora più gravi. L’imputato non può certo essere considerato più meritevole per il solo fatto di avere pendenze separate anziché riunite.
Ancora, ci si chiede come possa conciliarsi l’esclusione dalla messa alla prova con la presunzione di innocenza che continua a restare ferma in relazione agli altri reati nel procedimento riunito14. Basta evocare in proposito l’ipotesi paradossale in cui l’imputato sia assolto dalle altre imputazioni e sia condannato proprio per il reato in relazione al quale aveva chiesto la messa alla prova. Per la Cassazione, egli potrà chiedere l’affidamento in prova al servizio sociale in sede esecutiva. Ma certo non si tratta di un trattamento identico, visto che la misura alternativa in esame è ben diversa dal proscioglimento per estinzione del reato che conseguirebbe al buon esito della messa alla prova.
2.6 La “messa alla prova cumulativa”
L’altra situazione problematica che può verificarsi è quella del procedimento cumulativo per reati tutti di per sé rientranti nei limiti della messa alla prova. È il caso affrontato dal Tribunale di Milano, nella sentenza 28.4.201515.
Il Tribunale ha addotto una serie di argomenti favorevoli alla concessione.
Anzitutto, sul piano letterale, ha sottolineato che l’espressione «non può essere concessa per più di una volta», utilizzata dall’art. 168 bis, co. 4, c.p.p., non è incompatibile con la possibilità di concedere la sospensione in relazione “a più reati” contemporaneamente. Ad avviso del Tribunale, l’interpretazione restrittiva renderebbe la formula equivalente a “non può essere concessa per più di un reato” ed andrebbe contro alla finalità deflattiva sottesa all’istituto ed alla concezione della sanzione penale come extrema ratio a fronte della preponderante funzione rieducativa.
Vi sono, tuttavia, alcune obiezioni difficilmente superabili.
Se anziché riuniti i procedimenti fossero “nati” come separati e magari sfasati nel tempo, ci dovremmo trovare di fronte ad una pluralità di ordinanze di sospensione per messa alla prova e questo effettivamente andrebbe contro alla lettera dell’art. 168 bis, co. 4, c.p.p. Pertanto, la soluzione favorevole alla “messa alla prova cumulativa” nel procedimento riunito darebbe la stura a possibili disparità di trattamento dovute sia alla peculiarità della concreta vicenda, sia alle scelte del pubblico ministero di procedere separatamente o cumulativamente.
Va detto, tra l’altro, che l’eventualità di più prove disposte contemporaneamente in procedimenti diversi è stata tenuta ben presente nel momento in cui la nuova normativa è stata messa in pratica. Nei Protocolli d’intesa (convenuti tra Tribunali, uffici di esecuzione penale esterna e, qualche volta, ordini forensi) e nelle linee guida predisposte nell’ambito di numerosi organi giudiziari è all’uopo previsto che in più occasioni nella fase di ammissione alla prova – specialmente a ridosso della decisione, che può intervenire anche a distanza considerevole dalla richiesta – si acquisiscano informazioni dal casellario giudiziale al fine di verificare che non risultino iscrizioni di pregresse, concomitanti o sopravvenute ordinanze di sospensione con messa alla prova.
In alcuni casi si è stabilito che l’imputato debba autocertificare nell’istanza rivolta al giudice l’eventuale presentazione di altre richieste di messa alla prova con specificazione del numero di procedimento penale e dell’autorità giudiziaria procedente16, come pure talora si prevede che l’ufficio di esecuzione penale esterna debba comunicare al giudice l’esistenza di altre domande pendenti presentate dallo stesso soggetto.
È ovvio che il pericolo di una pluralità di sospensioni concorrenti non risulta in toto sterilizzato, specie quando si tratta di procedimenti distanti anche territorialmente. In caso di bis in idem si porrebbe la necessità di individuare quale ordinanza di sospensione sia destinata a restare in vita. Probabilmente in tale ipotesi soccorre il criterio della priorità temporale della pronuncia.
2.7 L’appello
Un altro nodo esegetico si è posto con riferimento ai rimedi esperibili avverso l’ordinanza del giudice che rigetti l’istanza di ammissione alla prova. In proposito, con disposizione non nitida, l’art. 464 quater, co. 7, c.p.p. riconosce all’imputato, al pubblico ministero ed alla persona offesa la possibilità di ricorrere per cassazione nelle ipotesi di omesso avviso dell’udienza o di mancata audizione.
Tale disposizione ha immediatamente alimentato l’interrogativo se, a contrario, debba ritenersi esclusa una impugnazione di merito del provvedimento – con grave limitazione delle possibilità difensive – e se, in ogni caso, il ricorso per cassazione debba essere presentato con il meccanismo dell’impugnazione differita disciplinato dall’art. 586 c.p.p. oppure possa essere proposto immediatamente ed in via autonoma. In proposito, non sembra risolutiva la clausola contenuta nell’art. 464 quater, co. 7, secondo cui «l’impugnazione non sospende il procedimento»17.
Dopo una prima pronuncia contraria18, la giurisprudenza – con un’opzione in senso garantista – si è orientata uniformemente nel senso che l’ordinanza in oggetto possa essere impugnata attraverso autonomo ricorso per cassazione19.
2.8 Protocolli, linee guida e vademecum
Come si è accennato – con un meccanismo inedito che accomuna la messa alla prova alla nuova figura della particolare tenuità del fatto, creando peraltro una qualche frizione con il principio di legalità20 – le “fonti” della disciplina non devono ravvisarsi esclusivamente nelle norme del codice e nel regolamento di attuazione, bensì anche nei vademecum, linee guida o Protocolli di intesa adottati in numerose sedi giudiziarie per superare alcune macchinosità e lacunosità della disciplina normativa velocizzando soprattutto la fase della redazione del progetto e dell’avallo giudiziale successivo.
In particolare – mettendo a frutto l’esperienza tratta dal rito minorile – si è generalmente accolto un modello di “elaborazione differita”21 del programma. Si prevede una delibazione preliminare dell’istanza da parte del giudice di modo che sia resa conoscibile a priori quale attività viene valutata adeguata dall’autorità giudiziaria in maniera tale da evitare domande di sospensione puramente esplorative e far sì che l’ufficio di esecuzione penale esterna attivi il procedimento di indagine sociale e proceda alla predisposizione del programma soltanto quando è ragionevolmente convinto che vi siano ampie probabilità di ammissione alla prova. Il modello legislativo dell’istanza già corredata dal programma si è rivelato illusorio ed è in via di superamento con il meccanismo delle buone prassi.
Dal canto suo, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha diffuso due circolari, una del 2014 (n. 174874/201, Tamburino) e una del 5.3.2015 (Santi Consolo) che integra la precedente (n. 3661/6111) precisando i compiti dell’ufficio di esecuzione penale esterna.
Ad uno sguardo di sintesi, l’istituto in esame reca – malgrado tutti i ricordati interventi chiarificatori effettuati a vari livelli – alcuni profili problematici ancora aperti. Il più significativo concerne senz’altro la natura accertativa da riconoscersi all’ordinanza che dispone la sospensione con messa alla prova.
La disciplina normativa non precisa in alcun modo quale sia il quantum di accertamento in presenza del quale il giudice può adottare tale provvedimento, né quale debba essere la relativa base probatoria.
Il silenzio normativo sembra l’indice di una sorta di timore del legislatore nello spingersi oltre, tenuto conto del fatto che, da un lato, l’esecuzione della pena si basa su di una statuizione precaria costituita dall’ordinanza sospensiva22; da un altro lato, l’esito finale della sospensione con messa alla prova è una sentenza di proscioglimento. È chiara la frizione con la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva.
La Cassazione nella sentenza sopra ricordata, che ha escluso la possibilità di ravvisare nella confessione un presupposto del rito, ha affrontato anche il più ampio tema dello “statuto gnoseologico” dell’ordinanza sospensiva. La Suprema Corte ha fatto riferimento ai presupposti cognitivi della sentenza di patteggiamento. Tuttavia, ne ha accolto una concezione minimalista, precisando che l’accertamento allo stato degli atti circa l’insussistenza di cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. può svolgersi sulla base di un compendio probatorio particolarmente scarno. Il riferimento è andato alle Sezioni Unite Della Gatta del 2014 sull’incompatibilità del giudice del patteggiamento23.
Per la Cassazione, anche nella messa alla prova, come nel patteggiamento, l’attribuzione del fatto-reato al richiedente si effettua all’interno di «ristretti spazi cognitivi “di merito”» e, ovviamente, non esige l’ammissione del fatto di reato che, anzi, creerebbe problemi in caso di eventuale ripresa del procedimento.
L’analogia con il patteggiamento – già prospettata a margine delle prime iniziative legislative e successivamente ribadita nel corso dei lavori parlamentari in sede di audizioni di esperti – è senz’altro da valorizzarsi. Tuttavia, occorre rifuggire l’accezione minalista accolta dalla Suprema Corte, in favore di un approccio garantista che colga nel consenso dell’imputato una rinuncia al metodo del contraddittorio nella formazione della prova24, alla completezza dell’accertamento, al diritto di difendersi provando e contestando l’accusa, alla regola dell’al di là del ragionevole dubbio25 ed al pieno dispiegarsi della presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva, giacché la pena viene eseguita in forza di un provvedimento provvisorio e precario26.
L’analogia col patteggiamento consente di risolvere anche la questione relativa al sindacato condotto dal giudice in relazione alla richiesta dell’imputato.
Nelle norme ci sono molti segnali circa il fatto che il vaglio di ammissibilità del giudice è tutt’altro che banale e notarile. Se è vero che il consenso dell’imputato attribuisce all’istituto la natura sinallagmatica tipica della giustizia consensuale, occorre tenere presente che l’organo giudicante ha compiti significativi.
La questione ricorda un po’ i notissimi rilievi che la Corte costituzionale ebbe modo di svolgere con la sentenza 2.7.1990, n. 313 in merito al patteggiamento. Anche nell’ambito della messa alla prova l’accertamento del fatto consente al giudice di determinare una risposta sanzionatoria congrua avuto riguardo al carico complessivo destinato a gravare sul soggetto27.
Ferme tutte le considerazioni di principio sinora svolte, la vera e propria cartina di tornasole del quantum di accertamento effettuato non può che ravvisarsi nella motivazione dell’ordinanza che ammette alla prova. Ebbene, nella prassi le ordinanze sospensive – anche qui riproponendo quanto da sempre accade per il patteggiamento – hanno motivazioni particolarmente succinte e tendenzialmente stereotipate, in alcuni casi addirittura prive di ogni riferimento all’art. 129 c.p.p.
1 In tal senso, Trib. Torino, ord. 21.5.2014, in www.penalecontemporaneo.it, 25.6.2014 con nota di Miedico, M. e Trib. Genova, ord. 12.10.2014, in www.penalecontemporaneo.it, 29.10.2014, con nota di Pecorella, C.
2 Cass. pen., 26.6.2015, n. 27071, in CED rv. n. 263815.
3 In tal senso, già, Cass. pen., 27.5.2015, n. 22104, in CED rv. n. 263666; Cass. pen., 4.5.2015, n. 18265, in www.dirittoegiustizia.it; Cass. pen. 4.11.2014, n. 48025, in Cass. pen., 2015, 1142; Cass. pen., 10.10.2014, n. 42318, in CED rv. n. 261096; Cass. pen., 31.7.2014, n. 35717, in CED rv. n. 259935.
4 In tal senso, anche Cass. pen., 18.11.2014, n. 47587, in CED rv. n. 261255.
5 Cass. pen., 13.2.2015, n. 6483, in CED rv. n. 262341. Si veda Bardelle, F., I primi arresti della Cassazione sulla messa alla prova, in www.penalecontemporaneo.it, 10.6.2015.
6 In tal senso anche Bove, V., Messa alla prova per gli adulti: una prima lettura della L. 67/2014, in wwww.penalecontemporaneo.it., 27.11.2014, 2.
7 Cass. pen., sez. V, 4.6.2015, n. 24011, in CED rv. n. 263777.
8 In tal senso, già, Montagna, M., Sospensione del procedimento con messa alla prova, in Le nuove norme sulla giustizia penale, a cura di C. Conti-M. Marandola-G. Varraso, Padova, 2014, 404.
9 Cass. pen., 31.7.2013, n. 33287, in CED rv. n. 257001.
10 Trib. Torino, ord. 21.5.2014, A.B., in www.archiviopenale.it, 21.5.2014.
11 Bove, V., Messa alla prova, cit., 18.
12 Cass. pen., 12.3.2015, n. 14112, in CED rv. n. 263125.
13 Kalb, L., Il processo per le imputazioni connesse, Torino, 1995, 316.
14 Peraltro, anche la “commissione” di un ulteriore reato è causa di revoca della sospensione.
15 Trib. Milano, sez. III penale, ord. 28.4.2015, in www.penalecontemporaneo.it, 12.5.2015, 1.
16 Salvadori, A.Arata, R., La scommessa“culturale” della sospensione con messa alla prova alla verifica delle aule di tribunale, in www.questionegiustizia.it, 17.10.2014, 10.
17 In dottrina, Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. e processo, 2014, 683; Tabasco, G., La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in Arch. pen., 2015, 1, 34.
18 Cass. pen., 6.2.2015, n. 5673, in CED rv. n. 262106.
19 Cass. pen., 4.6.2015, n. 24011, in CED rv. n. 263777; Cass., pen., 10.5.2015, n. 20602, in CED rv. n. 263787; Cass. pen., 26.6.2015, n. 2701, in CED rv. n. 263814. Nel senso della scarsa utilità di una impugnazione di mera legittimità avverso un provvedimento che tocca diritti fondamentali dell’individuo Galati, M. L. Randazzo, L., La messa alla prova nel processo penale. Le applicazioni pratiche della legge n. 67/2014, Milano, 2015, 94 ss. che prospettano la necessità di riconoscere altresì il diritto di appello quanto meno differito ai sensi dell’art. 586 c.p.p.
20 Bove, V., Brevi riflessioni su protocolli e linee guida: è a rischio il principio di legalità?, in www.penalecontemporaneo.it, 15.7.2015, 7.
21 Bartoli, L., Il trattamento nella sospensione del procedimento con messa alla prova, in Cass. pen., 2015, 1772.
22 Cesari, L., sub artt. 464 bis – 464 novies c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. ConsoG. Illuminati, II ed., Padova, 2015, 2124.
23 Cass. pen., 26.6.2014, n. 36847, in CED rv. n. 260093.
24 Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto, cit., 677 e 681; Tabasco, G., La sospensione, cit., 16.
25 Orlandi, R., Procedimenti speciali, in Compendio di procedura penale, a cura di G. ConsoV. GreviM. Bargis, Padova, 2014, 751; Tonini, P., Manuale di procedura penale, 16a ed., Milano, 2015, 806.
26 Cesari, L., sub artt. 464 bis – 464 novies c.p.p., cit., 2126.
27 Bartoli, R., La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. e processo, 2014, 669.