Vedi Messico dell'anno: 2013 - 2014 - 2014 - 2015 - 2016
La collocazione a cavallo tra l’area anglosassone e quella latina dell’emisfero americano ha reso, e rende tutt’oggi, il Messico il punto nevralgico dei rapporti tra le due Americhe: a volte nel ruolo di ponte e in altri casi da spartiacque. Da un lato, i vincoli politici ed economici (per esempio la comune lotta al narcotraffico o il Nafta) che lo legano a Usa e Canada; dall’altro lato, la storia e la forte identità latina. Tutto ciò rende il Messico un paese in costante trasformazione sia nei rapporti con il mondo esterno, sia negli equilibri interni americani. Anche per questa sua peculiarità, il Messico, seppur in tono minore rispetto al passato, rimane un punto di riferimento per buona parte dell’America Latina. Un’influenza che in passato è stata più volte in grado di irradiarsi in buona parte della regione, ora sul piano culturale, ora su quello politico o ideologico, ora su quello della politica estera, soprattutto finché il regime del Pri, il Partido revolucionario institucional, si è dimostrato capace di mantenere la mobilitazione nazionalista della Rivoluzione del 1911 e di agire come custode della sovranità nazionale e latinoamericana nei confronti degli Usa.
L’influenza è scemata innanzitutto in parallelo con la ‘normalizzazione’ del Messico, via via che la tradizione rivoluzionaria si scoloriva e il suo regime convergeva verso la democrazia rappresentativa assieme agli altri paesi dell’America Latina. In più, sia la democratizzazione della regione, sia gli effetti della globalizzazione hanno accelerato nell’area latinoamericana processi di integrazione tra paesi vicini, dai quali il Messico è rimasto ai margini nella maggior parte dei casi. Infine, l’insieme di tali processi ha sancito la profonda integrazione del Messico con gli USA.
Di conseguenza, mentre nella regione si è moltiplicato il numero ed è cresciuta la forza delle organizzazioni sudamericane, perlopiù sorte su impulso brasiliano, la geopolitica messicana si è legata più strettamente a quella del Nord America, e in particolare a quella statunitense. In tale contesto, tanto il golpe e la crisi costituzionale honduregna del 2009, dinanzi alla quale il Messico è rimasto pressoché inerte, quanto l’annosa questione dei rapporti tra Cuba e Usa, dei quali il paese era stato un tempo il principale fautore, ma su cui non svolge oggi alcuna forma di protagonismo, sono segnali del suo crescente distacco dal resto dell’America Latina.
Il Messico è una repubblica federale, composta da 31 stati e dal distretto della capitale. Alla base della sua organizzazione politica rimane ancora oggi, benché in parte emendata, la Costituzione del 1917, con la quale culminò la Rivoluzione. Sulla sua eredità si è fondato il regime politico del Pri che ha guidato il paese per l’intero 20° secolo. Con l’elezione, nel 2000, di un presidente candidato da un partito prima di allora all’opposizione, il Partido acción nacional (Pan), si può dire concluso il lungo processo di liberalizzazione della politica messicana e la trasformazione di quello che era in sostanza stato un regime a partito unico in una democrazia pluralista e rappresentativa. Cardine di tale sistema è la figura presidenziale, investita di enormi poteri e con uno status altissimo, limitata però dal divieto di rielezione, terminato il mandato di sei anni. Al Pan, in origine partito di ispirazione cattolica, legatosi con il tempo agli industriali e ai ceti medi del nord del paese, e al Pri, depositario dell’eredità rivoluzionaria, si affianca, come terza forza, il Prd, Partido de la revolución democrática, nato nel 1989 da una scissione del Pri e determinato a imporsi, a sinistra, quale unico erede della tradizione sociale e nazionalista della Rivoluzione. Nelle elezioni parlamentari e presidenziali del 2012 il PRI ha riconquistato la presidenza con Enrique Peña Nieto, dopo aver confermato la maggioranza nel parlamento con le elezioni per la camera bassa del 2009. Nonostante la vittoria elettorale, il Pri non dispone però di una maggioranza assoluta e di qui la necessità di contare di volta in volta sul sostegno dei parlamentari appartenenti al Pan o al Prd. Questo precario equilibrio si è riproposto nella votazione delle riforme previste dall’accordo non vincolante firmato a dicembre 2012 dal presidente Peña Nieto e dai leader di Pan e Prd e noto come Pacto por México. Si tratta di un piano di riforme trasversali riassunte in 95 impegni che riguardano principalmente i settori dell’energia, delle telecomunicazioni, del fisco e della sicurezza.
Merita, infine, un breve cenno la peculiare storia religiosa messicana. Nel paese la devozione cattolica è particolarmente viva e l’influenza della Chiesa negli affari politici ha avuto un peso storico eccezionale. Al tempo stesso, il Messico è stato scenario di violente reazioni anticlericali, approdate a una rigida separazione costituzionale tra stato e Chiesa. Questa separazione ha creato una lunga e solida tradizione di laicità dello stato e ha impedito l’esistenza di rapporti diplomatici con la Santa Sede fino al 1992. Da allora, però, un emendamento costituzionale ha consentito allo stato messicano di normalizzare i rapporti con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose
minoritarie.
Paese meticcio per eccellenza, il Messico ha fatto di tale caratteristica un elemento chiave della sua identità. Ciò non toglie, date le sue grandi dimensioni e la sua spiccata eterogeneità, che sotto la patina di omogeneità meticcia la popolazione messicana conservi vaste e diffuse sacche di vera e propria ‘indianità’. Ciò vale in buona misura per le sue propaggini più meridionali: il Chiapas rimane per molti aspetti una regione a maggioranza indiana, etnicamente assai più simile al vicino Guatemala che al resto messicana. Questo vale anche per altre aree del paese, dallo stato di Guerrero a quello di Sinaloa. Il quadro complessivo della popolazione del Messico risulterebbe tuttavia incompleto se non tenesse conto degli oltre 11 milioni di immigrati, in parte legalmente e in parte in forma clandestina, negli Usa. Questa comunità, che si è triplicata nel corso degli ultimi vent’anni, costituisce sempre più un fattore chiave sia per l’economia messicana, cui contribuisce con ingenti rimesse (più di 23 miliardi di dollari l’anno), sia per la politica statunitense, visto il crescente peso demografico e politico che vi esercita il voto latino, soprattutto nel sud del paese. Inevitabilmente, il rapporto tra Messico e Usa è fortemente influenzato dal tema migratorio, che occupa buona parte dell’agenda bilaterale, accanto a quello del contrasto al narcotraffico.
Il Messico vive al suo interno importanti contrasti etnici, che sono talvolta causa di moti violenti, soprattutto là dove si saldano a una grave emarginazione sociale, come accaduto in Chiapas nel 1994, quando il movimento zapatista si sollevò in armi. Nel complesso, al di là della questione etnica, la società messicana rimane solcata da profonde disuguaglianze sociali e territoriali, nonostante lo sviluppo economico e la significativa riduzione del tasso di povertà avvenuti nell’ultimo decennio. La contrazione della miseria è stata in grande misura effetto della crescita, mentre le politiche distributive sono state assai meno efficaci, benché le misure fiscali adottate assicurino ai governi notevoli risorse. Nondimeno, si sono anche registrati parziali successi, come nel caso dei piani di assistenza condizionata, ossia di aiuto alle famiglie in cambio del loro impegno a garantire la frequenza scolastica dei figli.
Il Messico può essere inserito tra quegli stati che rispettano le libertà politiche e civili, nonostante nei fatti rimanga un paese afflitto da gravi carenze nel rispetto dei diritti umani e civili.
La corruzione è una diffusa piaga nella vita economica e nella pubblica amministrazione nazionale. Le proteste sociali sono più volte sfociate in violenti scontri e repressioni con vittime. Ma la maggior causa di violenza è da tempo la proliferazione di potenti cartelli della droga, soprattutto al confine con gli Usa (il giro d’affari stimato è di oltre 23 miliardi di dollari l’anno). Da quando, in particolare, il presidente Calderón ha deciso di affrontarli in una guerra a viso aperto, il problema è emerso in tutta la sua virulenza. Da allora gli omicidi negli stati settentrionali sono cresciuti a ritmi esponenziali, ora ai danni degli stessi narcotrafficanti in lotta tra loro, ora della popolazione civile inerme. Non sono mancate le vittime di abusi da parte delle forze di sicurezza. In più, ha pagato con la vita un crescente numero di giornalisti e di politici locali attivamente impegnati contro la criminalità organizzata.
Secondo l’Encuesta nacional de victimización y percepción sobre seguridad pública (Envipe) – sondaggio nazionale sulle vittime e sulla percezione della pubblica sicurezza redatto dall’Instituto nacional de estadística y geografía (Inegi) –, nel 2012 si sono registrati quasi 26.000 omicidi, circa 4000 sparizioni e segnalati oltre 105.000 rapimenti. Su questi crimini, il potere giudiziario non s’è ancora mostrato in grado di operare con efficacia e le forze di sicurezza mobilitate per contrastare le bande (circa 50.000 effettivi, tra polizia federale ed esercito) non sempre sono in grado di garantire il controllo del territorio.
L’economia messicana, la tredicesima al mondo in termini assoluti, ha subito nell’ultimo quarto di secolo profonde trasformazioni: ha accantonato il modello dirigista e protezionista creato a difesa dell’industrializzazione e del mercato interno, e prevalso per gran parte del 20° secolo. E si è aperta al mercato internazionale. Il momento chiave è legato alla stipula di 43 trattati di libero commercio, come il Nafta e l’Alleanza del Pacifico. Il Messico vanta, inoltre, trattati di libero scambio con l’Eu e prende parte ai negoziati della Trans pacific partnership (Tpp), quale ampia zona di libero scambio nel Pacifico tra differenti paesi del continente asiatico e americano. Grazie a tali accordi con partner di tutto il mondo, lo stato ha potuto ridurre drasticamente la propria presenza nella sfera economica. Fa eccezione il settore petrolifero che, nonostante le volontà di privatizzazione parziale del comparto espresse dall’attuale governo, rimane espressione del nazionalismo dell’era rivoluzionaria e che, pur fornendo ormai una quota assai ridotta del prodotto nazionale, porta comunque valuta pregiata nelle casse pubbliche. Come il resto dell’America Latina, anche il Messico ha visto crescere a ritmi costanti il proprio prodotto nel primo decennio del 21° secolo salvo però soffrire più degli altri paesi gli effetti recessivi della crisi finanziaria scoppiata negli Usa nel 2008. Per l’economia messicana, a pesare è stato soprattutto lo stretto legame commerciale con il vicino settentrionale, che assorbe quasi per l’80% delle esportazioni.
Dopo la brusca contrazione del 2009 (-6%), l’economia messicana ha tuttavia conosciuto una rapida ripresa e le prospettive per i prossimi anni sono di una crescita di poco superiore al 3%. Nella struttura economica messicana rimangono tuttavia profondi squilibri, a loro volta riflesso di non meno profonde faglie territoriali. Spicca, infatti, il divario tra il nord industrializzato, e dal tenore di vita in genere più elevato, e il sud rurale e più arretrato, dove le sacche di miseria e l’estrema polarizzazione sociale sono ancora tratti frequenti. Per tentare di ridurre le forti distorsioni sociali e
per favorire la crescita economica, il governo Peña Nieto ha studiato un piano di riforme trasversali che vertono principalmente nei settori dell’energia, dell’educazione, delle telecomunicazioni, del fisco e della sicurezza.
Il Messico è il nono produttore di petrolio al mondo e un esportatore netto di greggio sui mercati internazionali. Pemex (Petróleos mexicanos), la grande compagnia di stato che ne conserva tutt’oggi il monopolio produttivo, è non solo una delle più grandi imprese petrolifere al mondo ma anche un contribuente chiave per l’economia nazionale (di cui fornisce circa il 16% del pil). Il declino della produzione interna ha tuttavia ridotto i volumi di esportazione nel corso dell’ultimo decennio. Inoltre, il grande peso del petrolio nel mix energetico messicano (53,7%) fa sì che i consumi domestici assorbano oltre due terzi della produzione, privando gli operatori e le casse dello stato di importanti introiti. Il costo opportunità è inoltre aumentato dalle alte quotazioni del petrolio, che creano sugli operatori una forte pressione alla diversificazione del mix e a una riduzione dei consumi di greggio. Attualmente, la diversificazione sta avvenendo soprattutto in favore del gas naturale, sempre più utilizzato per la generazione elettrica e di cui il Messico è un importatore netto dagli Usa.
Per contrastare la tendenza al ribasso della produzione e incentivare la prospezione e lo sfruttamento di nuovi pozzi, dal 2008 Pemex è oggetto di una riforma che le conferisce maggiore autonomia e ne facilita la cooperazione con le compagnie private, ma sottopone anche i suoi dirigenti a un più serrato controllo da parte dell’autorità pubblica. Sul piano della protezione ambientale, il Messico presenta sia grandi problemi, sia importanti progressi. I problemi sono soprattutto legati al ritardo nel campo delle energie rinnovabili, alla deforestazione e al grave inquinamento della capitale, città tra le più popolose e dall’aria più irrespirabile al mondo. I progressi si notano nelle posizioni che da tempo il Messico viene risalendo nelle graduatorie mondiali di protezione ambientale e hanno trovato un deciso impulso dalla firma del Nafta in poi. Peraltro, proprio il timore che le imprese statunitensi si trasferissero in Messico, confidando di riuscire a evitarvi gli ingenti costi sostenuti in patria per ridurre le emissioni nocive, era stato più volte sollevato dagli oppositori del Nafta. In realtà, dalla nascita dell’area di libero commercio, in Messico sono cresciuti in forma costante gli investimenti nelle energie alternative, nello smaltimento dei rifiuti e nella protezione delle aree boschive, con risultati incoraggianti.
Paese in pace con i vicini, coi quali non ha gravi contenziosi, il Messico mantiene un basso livello di spese per la difesa. L’integrazione con gli Usa per mezzo del Nafta ne ha tra l’altro accresciuto la sicurezza, consentendogli di mantenere pressoché stabili le risorse dedicate alla difesa delle frontiere. I problemi per la sicurezza messicana derivano semmai dal crescente peso del narcotraffico. Tale problema si pone a diversi livelli: quello degli armamenti più adeguati, quello del controllo del territorio da parte della forza pubblica, quello delle azioni repressive contro l’impero economico eretto dai cartelli. In tal senso, risultano cruciali sia le operazioni di intelligence, sia la cooperazione internazionale. Benché il Messico abbia raggiunto importanti accordi in proposito con gli Usa, le profonde epurazioni che di tanto in tanto coinvolgono la polizia messicana sono un chiaro indicatore delle difficoltà che ancora sussistono nel farne un corpo professionale esente da abusi e impermeabile alla corruzione. Proprio in un’ottica di maggiore professionalità e legalità delle istituzioni, Usa e Messico hanno avviato nel giugno 2008 il Piano Mérida, un trattato di collaborazione in materia di sicurezza e lotta alla criminalità organizzata e al narcotraffico. L’impegno stipulato dagli allora presidenti George W. Bush e Felipe Caldéron prevedeva un esborso da parte degli Usa di 1,6 miliardi di dollari per tre anni per operazioni sul territorio e per il trasferimento di tecnologia, equipaggiamento e formazione verso il Messico. Il programma di aiuti prevedeva, inoltre, l’utilizzo di strumenti per fornire supporto logistico ed equipaggiamenti militari all’esercito messicano nella guerra contro i narcos e per migliorare le tecnologie di controllo al confine tra i due paesi. Nonostante il Piano Mérida dovesse durare tre anni, l’amministrazione Obama ha procrastinato i termini della missione, stanziando anche per gli anni a seguire nuove risorse finanziarie e militari.
La lunga frontiera di 3140 km che separa Messico e USA è da sempre una delicata cerniera tra il mondo latino e quello anglosassone, quello opulento del Nord e quello in via di sviluppo del Sud. Da anni il confine messicano è interessato da un grave fenomeno migratorio con migliaia di persone che ogni anno cercano di attraversarlo clandestinamente, spesso senza fortuna e andando anche incontro alla morte (quasi 2500 vittime negli ultimi 22 anni). Questa situazione ha alimentato dibattiti politici e popolari nei due paesi sull’opportunità o meno di costruire una barriera lungo il confine. La barriera, in costruzione dal 1994, è diventata il simbolo del complesso rapporto tra i due stati perché si è rivelata un filtro poco efficace al traffico di esseri umani, al narcotraffico e al commercio internazionale di armi. Quanto ai migranti, secondo le stime USA, sono oltre 11 milioni i messicani che risiedono nel paese nordamericano, in parte legalmente e in parte in clandestinità. I migranti, spesso vittime di violenze e ricatti da parte delle organizzazioni criminali che le sfruttano per il traffico di droga e di esseri umani, provocano da un lato reazioni xenofobe nel sud degli USA e dall’altro impongono al governo messicano a intervenire a tutela dei loro diritti. La retorica spesso infuocata e i grandi investimenti annunciati nel corso degli anni dalle amministrazioni statunitensi per rendere impermeabile la frontiera si sono rivelati, nel complesso, inefficaci.
La ‘guerra messicana alla droga’ – questo il nome coniato da media e think tank USA – è un conflitto armato a bassa intensità che vede contrapposti i cartelli messicani della droga e le forze armate del governo federale. All’origine delle violenze – che secondo i dati ufficiali del governo, tra il 2006 e 2011, ha provocato oltre 50.000 vittime –, ci sarebbero i ricavi annuali per oltre 23 miliardi di dollari derivanti dal commercio della cocaina (fonte dipartimento di giustizia USA). I cartelli della droga come Sinaloa, gli Zetas, la Famiglia Michoacàna o i Beltran Leyva (tra le organizzazioni più potenti nel paese) possono contare su formazioni paramilitari create ad hoc in grado di combattere le bande rivali e le forze di polizia e l’esercito. Per arginare lo strapotere delle bande criminali e per smantellare l’ampia rete di complicità – evidentemente politica – di cui godono a vario livello, il governo ha approvato una riforma dei corpi di polizia e creato un’agenzia federale unica, sullo stile della FBI, per rendere duratura ed efficace l’azione di contrasto ai narcos. Anche se la violenza tra i cartelli si era manifestata già molto tempo prima dell’inizio della ‘guerra’ nel 2006, il governo ha sempre tenuto un atteggiamento generalmente cauto e passivo negli anni Novanta e nei primi anni Duemila. La svolta è arrivata appunto nel 2006 quando il governo Caldéron ha impiegato durante il suo mandato all’incirca 45.000 soldati, dispiegati soprattutto nel nord e lungo il confine con gli USA, raccogliendo tuttavia modesti risultati e favorendo, invece, un’escalation militare nella lotta ai narcos. In parziale discontinuità con il recente passato, la strategia di lotta alla criminalità promossa dal presidente Peña Nieto ha favorito un’azione basata su tre fronti: minore militarizzazione del territorio, maggiori incentivi economici allo sviluppo nelle aree disagiate e creazione di una gendarmeria specializzata (ossia una forza militare con funzioni di polizia). Grazie a questo nuovo indirizzo, le forze speciali della marina messicana hanno catturato nel luglio 2013 Miguel Angel Treviño, il leader del cartello dei Los Zetas.
Nell’ultimo trentennio il Messico è stato protagonista di un’intensa fase di liberalizzazione commerciale che, dopo la firma del GATT-WTO nel 1986, ha portato il paese a firmare nel 1994 il NAFTA, un trattato di libero commercio che vede coinvolti anche USA e Canada. Con la partecipazione al NAFTA, l’economia messicana si è profondamente modificata, trasformando il paese in uno dei maggiori partner commerciali degli USA e diventando quello con la più grande rete di accordi di libero scambio a livello mondiale. Un successo, questo che ha impresso profondi segni nella geopolitica messicana, ancorandola assai più che in precedenza all’emisfero settentrionale delle Americhe e allontanandola in ugual misura da quello meridionale. Le possibilità di aprirsi ulteriormente ai mercati orientali e, allo stesso tempo, la necessità di riallacciare i contatti con il mondo latino limitando la concorrenza di Brasile e Venezuela nel subcontinente, hanno permesso al Messico di esplorare nuove forme di regionalismo. Proprio sulle orme del NAFTA, il Messico, insieme a Colombia, Perù e Cile, ha dato vita nel giugno 2012 all’Alleanza del Pacifico (AP), un progetto di area di libero scambio mirato all’integrazione e al commercio con i mercati dell’Asia. L’AP è un’organizzazione regionale dall’alto potenziale geopolitico che nel breve e medio periodo rischia di incrinare gli attuali equilibri latinoamericani che vedono in MERCOSUR e ALBA le due organizzazioni leader del continente.
di Tiziana Bertaccini
Per garantire la governabilità e realizzare un ingente piano di riforme, il presidente Enrique Peña Nieto ha dato vita al Pacto por México, un singolare accordo fra i principali partiti per superare la paralisi che aveva caratterizzato i denominati gobiernos divididos durante i dodici anni di alternanza politica. Il nuovo progetto di modernizzazione dovrebbe così ultimare una transizione considerata ancora inconclusa.
La prima riforma costituzionale approvata con il Pacto por México è stata quella educativa. Dal 1920 il sistema educativo messicano, parte essenziale di una logica di nation-building, si è sviluppato secondo un criterio di forte centralizzazione. Nonostante l’espansione della rete scolastica, cresciuta da 3 milioni del 1950 a 30 del 2000, dagli anni Ottanta il sistema è entrato in agonia permanente caratterizzandosi per forti disparità regionali, con una presenza di apprezzabili indici di analfabetismo, un peggioramento della qualità dell’educazione basica, un’eccessiva centralizzazione amministrativa e burocratizzazione negli organismi direttivi, che vedeva spesso una sovrapposizione fra le funzioni federali-statali e municipali, e da una diminuzione della spesa destinata all’educazione con conseguente impatto negativo sull’infrastruttura e sul salario magistrale. Nonostante i tentativi di riforma, basati dal 1992 sull’Acuerdo nacional para la modernización de la educación básica (ANMEB), nel 2000 i risultati dell’esame internazionale PISA resero pubblica la situazione di arretratezza del sistema educativo messicano che ancora nel 2012-13, pur senza negare il miglioramento in termini di immatricolazioni, continua ad occupare gli ultimi posti fra i paesi OECD per la qualità dell’educazione. Il primo obiettivo della riforma Peña Nieto-PRI è stato restituire allo stato il pieno controllo sul sistema dell’educazione per annientare il potere del Sindicato nacional trabajadores de la educación (SNTE) che di fatto, sin dalla costruzione
dello stato corporativo messicano, ha diretto l’educazione opponendosi ai tentativi di riforme strutturali e che, paradossalmente, si è rafforzato con l’alternanza panista e l’accordo Alianza por la calidad de la educación che metteva l’educazione nelle mani di commissioni paritetiche fra la Segretería de educación pública e il SNTE. La riforma, criticata per esser più una riforma lavorativa che scolastica e per la mancanza di un vero carattere integrale capace di far fronte ai reali problemi strutturali, prevede un Sistema de servicio profesional docente che fissa criteri in base al merito professionale, tramite concorsi, per l’ingresso dei docenti e la promozione a incarichi di direzione, con l’intento di sottrarli all’arbitarietà del SNTE, rende obbligatoria la valutazione magistrale elevando a rango costituzionale l’Institituto nacional para la evaluación de la educación (INEE) e si impegna a creare scuole con criteri di qualità e autonomia di gestione, avvalendosi di un Sistema de información y gestión educativa per realizzare un censimento che fornisca un quadro quantitativo esatto di scuole, professori ed alunni, dati sino ad oggi solo parzialmente conosciuti.
Un’altra grande e controversa riforma varata nel primo anno di governo di Peña Nieto è quella in materia energetica, che ha causato l’abbandono del Pacto por México da parte del Partido revolucionario democratico (PRD), da anni impegnato in una veemente opposizione ai progetti di privatizzazione del settore.
Le principali forze politiche riconoscevano l’urgenza di riformare un settore strategico e vitale per le finanze statali come il petrolio, che rappresenta quasi il 40% degli introiti pubblici, ma in sofferenza da tempo. Infatti, insieme alle difficoltà generate dalla doppia logica nazionale e impresariale della gestione di PEMEX, a partire dal 2004 si è registrato un calo della produzione di crudo e nonostante siano stati realizzati i più ingenti investimenti della storia, fra il 2003 e il 2012 le riserve di greggio hanno subito una consistente diminuzione.
La proposta di riforma energetica ha suscitato un acceso dibattito e una forte resistenza civile soprattutto intorno alla questione della privatizzazione del settore e della necessaria modifica costituzionale per attuarla. Riformare la Carta, e in particolare l’articolo 27, toccava la delicata questione della sovranità e dell’identità nazionale e il cuore di un nazionalismo rivoluzionario parte di una cultura politica ancora oggi fortemente radicata per la quale la nazionalizzazione del petrolio (1938) continua a rappresentare il simbolo indiscusso della riconquistata sovranità nazionale.
Con l’approvazione della riforma entro due anni le parastatali PEMEX e Comisión federal de electricidad (CFE) dovranno trasformarsi da organismi di controllo diretto dello stato a Imprese produttive di stato. È stato mantenuto l’inciso dell’art. 27 che riconosce alla nazione la proprietà «inalienabile e imprescrittibile» delle ricchezze del sottosuolo e proibisce il conferimento di concessioni ma, allo stesso tempo, per la prima volta si è aperta la partecipazione delle imprese private nel settore energetico attraverso varie modalità contrattuali. Così lo stato manterrà il controllo del sistema elettrico nazionale attraverso un Centro nacional de control de energía e PEMEX sarà favorito nell’assegnazione dei contratti grazie a un sistema di ‘ronda cero’, simile al modello brasiliano. Il fondo petrolifero, è stato ridenominato Fondo per la stabilizzazione e lo sviluppo, un trust pubblico finalizzato alla gestione degli introiti derivati dal settore energetico ed è stato creato un organismo per la tutela ambientale.
Un punto importante della riforma è l’estromissione del potente sindacato del petrolio, STPRM, dal Consiglio di amministrazione di PEMEX che segna un momento cruciale nei tentativi di smembramento dei retaggi dello stato corporativo.