Messina
Le vicende di Messina sveva prendono le mosse dalle realizzazioni di età normanna, quando la città vide il consolidarsi di un intraprendente ceto burocratico impegnato a occupare i vertici dell'amministrazione locale, le vivaci iniziative dell'arcivescovo intento a rinsaldare i rapporti con la sponda calabrese e il resto della Sicilia, l'apertura del porto ai commerci di lungo corso nel Mediterraneo. Fra il 1190 e il 1191, tuttavia, la distruzione del centro urbano e l'uccisione della maggior parte del gruppo dirigente di etnia greca a opera di Riccardo Cuor di Leone, favorendo l'ascesa del ceto burocratico latino, causò una vera e propria mutazione di natura culturale e antropologica, che avrebbe connotato le scelte politiche e sociali di Messina con caratteri in parte nuovi rispetto agli indirizzi precedenti.
L'ingresso della Sicilia nel sistema imperiale, dopo la conquista di Enrico VI, determinò un cambiamento dei rapporti di forza tra i centri di potere isolani: i sintomi di disagio si espressero anche nello scontro fra città e Messina si propose come guida del Regno, approfittando della crisi di Palermo. Nell'ottobre del 1194 Enrico giunse a Messina e ricambiò la buona accoglienza della città con due privilegi (del 1194 e del 1197), che razionalizzarono l'amministrazione e facilitarono i commerci. I rapporti fra l'imperatore e Messina si rinsaldarono quando la città offrì il suo appoggio per la repressione della rivolta del 1197, sicché le iniziative dello Svevo, impegnato a indirizzare il Regnum Sicilie verso una vivace politica orientale, sembrarono proiettare Messina in una posizione egemonica nel Mediterraneo. La morte di Enrico, avvenuta il 28 settembre 1197, interruppe tali trame, ma Costanza non fece mancare la sua protezione al centro peloritano, confermando nel 1198 le concessioni del marito. Dopo la scomparsa dell'imperatrice, il piccolo Federico si rifugiò, insieme al consiglio di reggenza, a Messina, che fu vanamente assalita da Marcovaldo di Annweiler. Il re fanciullo, grato per la fedeltà, confermò ai messinesi, nel dicembre 1199, i vantaggi di natura commerciale. Nel 1200 Federico si allontanò da Messina, dove l'etnia latina controllava ormai completamente le magistrature e aveva limitato la sfera d'azione dello stratigoto, costretto a osservare le consuetudini locali. I mercanti, specie i forestieri, continuavano a godere di notevoli esenzioni e la circolazione di denaro rinvigoriva tutte le componenti della società. Il benessere raggiunto è attestato anche dalla progressiva espansione urbana, che indusse all'ampliamento delle mura normanne. Fra il 1209 e il 1212 Federico risiedette spesso a Messina, che fu di fatto promossa a capitale e mantenne la sua posizione preminente anche dopo la partenza del sovrano, perché Costanza esercitò la sua reggenza prevalentemente dalla città del faro. In definitiva, fino al 1220, la sostanziale assenza di una salda autorità centrale concesse ai maiores peloritani di rafforzare e ampliare la propria sfera amministrativa e al porto di intensificare gli scambi.
Le Assise di Capua del 1220 limitarono drasticamente i privilegi mercantili di Messina, che, tuttavia, mantenne di fatto molte franchigie e, grazie all'abolizione delle zecche di Amalfi e Palermo, ricevette, assieme a Brindisi, un notevole impulso per il suo stabilimento. Le Costituzioni di Melfi del 1231 e i provvedimenti a esse collegati, però, tolsero alla città le sue considerevoli prerogative commerciali e ridimensionarono le competenze amministrative del ceto dirigente locale. Messina reagì con la rivolta che nel 1232 coinvolse anche altre città siciliane. Il moto, capeggiato da Martino Bellone e alimentato da mercanti e milites, venne presto domato. Nel 1233 Federico giunse in città e mise a morte molti ribelli, ma ripristinò le facilitazioni doganali dell'età di Guglielmo II e attenuò i monopoli. Alla rivolta furono estranei i burocrati i quali, pur ricondotti all'interno di un sistema amministrativo centralizzato, che lasciava poca autonomia alle strutture periferiche, andavano acquistando ampie possibilità di promozione sociale e arricchimento grazie all'incremento degli uffici. Messina mantenne la zecca, diretta da un magister sicle, potenziò numericamente la curia stratigoziale, forte di cinque giudici e otto notai, e vide, proprio negli anni Trenta, l'inizio dell'attività dei giurati che, per il momento preposti alla vigilanza annonaria, avrebbero notevolmente esteso le proprie competenze dopo la fine del dominio svevo. La città fu anche sede di un grande arsenale e ospitò l'ammiraglio, il giustiziere e il secreto, i quali, presiedendo una vasta circoscrizione giudiziaria, finanziaria e militare, comprendente la Sicilia orientale e la Calabria, assecondavano l'egemonia che Messina si era proposta di esercitare sin dall'età normanna sulla terraferma. I maiores peloritani, durante il dominio di Federico, aumentarono, dunque, numericamente e, sebbene sprovvisti di sostanziale autonomia, si posero al centro di dinamiche attività che concessero loro apprezzabili possibilità di arricchimento. Rappresentarono, quindi, un polo di riferimento politico e un elemento di continuità nella vita cittadina. Nel 1240 Messina inviò suoi rappresentanti al parlamento di Foggia e, fino alla morte di Federico, non si distinse ulteriormente nelle vicende del Regno. Dopo il 1250, il centro peloritano prima profittò di alcune provvidenze mercantili concesse da Corrado IV nel 1252, poi si destreggiò nella lotta tra Manfredi e Pietro Ruffo per il possesso della Sicilia, vivendo una breve stagione comunale nel 1255-1256 e aderendo, infine, a Manfredi. Questi, dopo l'incoronazione del 1258, attuò un deciso decentramento amministrativo e accrebbe, quindi, anche le competenze dei maiores peloritani, i quali, occupando tutti gli uffici, acquistarono ulteriori possibilità di affermazione politica, sociale ed economica.
Le caratteristiche fondamentali della società peloritana fra il 1194 e il 1266 risaltano in modo significativo se si esaminano la circolazione dei beni, la di-stribuzione delle proprietà, lo spessore dei commerci e dell'artigianato, i movimenti del porto, il ruolo degli enti ecclesiastici, la vita culturale. Il mercato immobiliare e il possesso delle terre furono saldamente nelle mani di giudici, notai, affaristi e, specie negli anni di Manfredi, milites, che coordinarono i movimenti dell'economia cittadina, cui parteciparono anche gli artigiani per la gran quantità di commesse loro affidate. Al consolidamento della piramide sociale messinese, diretta da amministratori che spesso erano anche milites, ma sostenuta da molteplici gruppi che godevano di un benessere generalizzato, contribuirono notevolmente gli enti ecclesiastici. In primo luogo l'arcivescovado, vivacemente presente in vaste zone della Sicilia e della Calabria. Dopo Berardo (1196-1228), la diocesi messinese fu spesso vacante, offrendo ampi spazi di potere ai burocrati peloritani che la gestivano. I monasteri, diretti da esponenti del ceto dominante locale, contribuivano, attraverso i loro cospicui possedimenti, al controllo del territorio e costituivano uno dei tramiti per il dialogo con i sovrani. L'interesse dei magnati per la Calabria incoraggiò una continua immigrazione di regnicoli di terraferma e fece delle zone dello Stretto una regione a economia integrata, che aveva il suo fulcro nel porto. Nei suoi pressi si trovavano i quartieri dei mercanti forestieri: amalfitani, francesi, lucchesi, fiorentini, romani, inglesi, e specialmente genovesi, pisani e veneziani. I genovesi ricevettero nel 1200 da Federico un grande edificio dove allogarono il loro consolato; oltre a essere interessati al commercio locale, utilizzavano lo scalo peloritano come tappa per il viaggio verso il Levante. I pisani, che avevano in città un fondaco fin dal 1190, insieme ai liguri godevano di franchigie, per la cui gestione instaurarono rapporti reciprocamente vantaggiosi con gli amministratori locali, cui parteciparono anche i veneziani, che erano concentrati nella zona del vecchio arsenale. La posizione eminente dei trafficanti stranieri mise in difficoltà i commercianti peloritani che, infatti, insorsero nel 1232.
Messina sveva non fu, quindi, una città in declino, come, per esempio, Palermo: pur non avendo alcuna opportunità di imporre un ceto mercantile locale, come era sembrato possibile negli anni di Enrico VI, non si intestardì nel tentativo di conquista di libertà comunali, ma, inserendosi nel sistema amministrativo formulato da Federico II e corretto da Manfredi, si impegnò ad assumere la leadership siciliana e a imporre il suo gruppo dirigente, formato da burocrati e milites. Tali iniziative favorirono l'ampliarsi del nucleo urbanizzato, dove si stabilirono molti forestieri, attratti dalle ricche possibilità offerte dai traffici del porto e dalla gestione delle cariche. La città, quindi, si espanse verso nord, dove fu edificata la nova urbs, e contò tra i venti e i venticinquemila abitanti.
La vitalità del ceto dirigente locale è ulteriormente testimoniata dalle espressioni culturali che connotarono Messina come uno dei poli più vivaci del Regno. L'intensa attività edilizia propose, tra l'altro, esempi rilevanti collegati all'esperienza gotica, ma fu nel campo letterario che la città diede le sue prove migliori. Alla cattedrale era annesso, alla fine del XII sec., uno scriptorium e, nello stesso periodo, dominò, all'interno delle mura, una cultura d'impronta greca, testimoniata da Scolaro Saba e dalla presenza di una ricca biblioteca. Dopo le distruzioni di Riccardo Cuor di Leone, l'egemonia intellettuale greca venne meno, anche se, ancora ai tempi di Manfredi, si segnalò Bartolomeo da Messina, che tradusse alcuni trattati aristotelici e pseudoaristotelici. Dopo l'affermazione dell'etnia latina, le espressioni culturali presero forma in lingua volgare, all'interno della Scuola poetica siciliana. Il 'laboratorio messinese' vide operare nove dei circa trenta poeti di cui si ha notizia dagli anni di Federico a quelli di Manfredi. Essi non risiedevano presso la corte, dando vita a una cultura avulsa dal territorio, ma, nella maggior parte, erano giudici, notai, funzionari e uomini politici attivi nel centro peloritano, che intendevano la letteratura come una parentesi di otium tra gli impegni di carattere pratico e rielaboravano suggestioni intellettuali tratte dai manoscritti introdotti in città, insieme alle merci, dai loro amici mercanti. Il capo di questo circolo letterario fu Guido delle Colonne, che sperimentò forse anche altre forme di scrittura con l'Historia destructionis Troie. In latino fu diffusa pure una produzione più impegnata politicamente, come gli Annales Siculi che, formulati negli ambienti burocratici, enunciarono il manifesto ideologico del ceto dirigente peloritano nel passaggio dal dominio svevo a quello angioino.
In definitiva, fra il 1194 e il 1266, la parabola politica e sociale di Messina si sviluppò attorno a tre poli: la Chiesa, i mercanti forestieri e il ceto amministrativo, composto da burocrati e milites, che si allearono per controllare gli uffici, gestire il patrimonio immobiliare e fondiario della città e del distretto, sfruttare l'imponente movimento del porto, sia dal punto di vista mercantile che da quello finanziario. Durante l'epoca sveva la città, insomma, vide la crescita politica, sociale ed economica di un gruppo di amministratori-affaristi, i quali avrebbero assunto il pieno controllo della cosa pubblica nelle età angioina e aragonese.
fonti e bibliografia
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Nelle complessive storie di Messina, una parte è dedicata all'età sveva:
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Si occupano specificamente di Messina nell'epoca sveva:
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Id., Messina in età sveva, ibid. (tutto il volume contiene saggi riguardanti direttamente o indirettamente Messina sveva).
Id., Medioevo fridericiano e altri scritti, ivi 1999 (con numerosi studi riguardanti Messina sveva).
Per la vicenda urbanistica:
A. Ioli Gigante, Messina, Roma-Bari 1980.
Per la classe giuridica:
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Per gli aspetti culturali:
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M.B. Foti, Il monastero del S.mo Salvatore in lingua Phari. Proposte scrittorie e coscienza culturale, Messina 1989.