Metafisica e ontologia antica e contemporanea: un dialogo possibile
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Metafisica è il nome con cui è stata chiamata la “filosofia prima” di Aristotele, sorta come ricerca delle cause prime dell’essere in quanto essere, mentre “ontologia” è un termine moderno, che indica in generale il discorso filosofico sull’essere. Questo viene inaugurato da Parmenide, che concepisce l’essere come uno e immobile, è proseguito da Platone, che divide l’essere tra il mondo sensibile e il mondo delle Idee, è ulteriormente approfondito da Aristotele, che lo articola in sostanza e accidenti, materia e forma, potenza e atto. Infine il neoplatonismo riduce la metafisica a teologia.
Benché entrambi i termini, “metafisica” e “ontologia”, siano stati introdotti nel lessico filosofico per indicare una disciplina coltivata per la prima volta da Aristotele, nessuno dei due risale propriamente al filosofo greco. Metafisica, come è noto, è il titolo che gli editori antichi hanno dato all’opera di Aristotele in cui viene esposta la scienza che egli chiama “filosofia prima”, cioè la scienza che ricerca le cause prime dell’essere in quanto essere e che le individua non soltanto in principi appartenenti alla “natura” (physis), e quindi “fisici”, ma anche in principi che trascendono la natura. Sicuramente questo titolo compariva nell’edizione delle opere di Aristotele eseguita da Andronico di Rodi nel I secolo a.C., dove probabilmente serviva a indicare i libri collocati “dopo” (meta) quelli di fisica (ta physika); ma secondo alcuni studiosi (Paul Moraux, Hans Reiner) esso risale a una precedente edizione, eseguita dai primi allievi di Aristotele (Eudemo di Rodi), e indica una ricerca che, per ragioni di metodo – cioè perché si deve procedere dalle cose più conoscibili a noi, che sono le realtà fisiche, a quelle più conoscibili di per sé, che sono le realtà trascendenti il mondo fisico –, deve venire dopo la fisica.
Il termine “ontologia”, invece, compare per la prima volta nel Lexicon philosophicum di Rudolph Göckel (detto latinamente Goclenius), pubblicato a Francoforte nel 1613, e indica, come spiegherà in seguito Johann Clauberg nella sua Ontosophia (1656), la scienza che verte non su un tipo particolare di enti, ma sull’ente in generale (in greco on-ontos), cioè su quello che Aristotele chiamava “l’ente in quanto ente”. Esso nasce allo scopo di distinguere, nell’ambito della metafisica, una metafisica generale, che si occupa appunto dell’ente in quanto ente, da una metafisica speciale, che si occupa di enti particolari, quali l’anima, il mondo e Dio.
Se assumiamo il termine “ontologia” per indicare qualunque discorso filosofico sull’essere, non c’è dubbio che la prima ontologia della storia sia la filosofia di Parmenide di Elea, il quale nel suo poema Sulla natura fa dire ad una dea che la via della verità, unica percorribile dal pensiero, consiste nel dire, probabilmente di qualsiasi cosa si parli (il verso è senza soggetto): “che è e non può non essere” (fr. 2 Diels-Kranz). Il carattere di necessità qui attribuito al verbo essere fa pensare che Parmenide alluda alla verità necessaria, che distingue la scienza (episteme), intesa nel senso antico di insieme di verità necessarie (p.es. la geometria), dalla semplice opinione (doxa). Ma la conseguenza di questa assunzione, per cui è vero solo ciò che è necessario, è che tutto ciò che esiste è necessario, quindi immutabile, ingenerabile e incorruttibile, e che il divenire è semplice apparenza, o illusione. Un’ulteriore conseguenza, dovuta al carattere aurorale, quindi arcaico, del pensiero di Parmenide, è che, se l’unica verità consiste nel dire, di una cosa, che è, allora non è possibile dire ciò che una cosa non è, ossia non è possibile distinguere una cosa da un’altra, e quindi tutto ciò che esiste forma un’unica realtà indifferenziata, omogenea, interamente identica, indivisibile, “l’essere” (to eon) (fr. 8).
Parmenide
Sulla natura, fr. 28 B 2
Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole,
quali vie di ricerca sono le sole pensabili:
l’una [che dice] che è e che non può non essere,
è il sentiero della persuasione (poiché questa segue la verità);
l’altra [che dice] che non è e che è necessario che non sia,
questa io ti dico che è un sentiero del tutto impercorribile,
perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile),
né lo puoi esprimere.
Parmenide, I frammenti dei presocratici, trad. it. di E. Berti
Aristotele, che nel I libro della Metafisica si confronta con tutti coloro che prima di lui hanno praticato il tipo di filosofia consistente nella ricerca delle cause prime, cioè quello che forma l’oggetto dell’opera e che pertanto è stato chiamato “metafisica”, dichiara esplicitamente che il pensiero di Parmenide non rientra nella ricerca delle cause, cioè nella metafisica, perché l’Eleate concepisce l’essere come uno ed immobile, anche se l’unità da lui ammessa è di carattere formale, cioè è un’unità di significato, mentre quella ammessa da Melisso di Samo è di carattere materiale, cioè fa dell’essere un’unica massa (Metaph. I 5, 986 b 10-20). Altrove Aristotele, sempre parlando di Parmenide e di Melisso, afferma che essi, ammettendo un unico essere, non pongono nessun principio, cioè nessuna causa, perché il principio è sempre principio di una o di più cose, cioè implica qualcosa di diverso da sé (Phys. I 2, 185 a 2-4). Perciò si può dire che quella di Parmenide, dal punto di vista di Aristotele, è un’ontologia, non una metafisica, quindi un’ontologia senza metafisica.
Una certa influenza di Parmenide è ravvisabile in Platone, perché anche questi ammette che il vero essere, quello che è pienamente e perciò è pienamente conoscibile, cioè oggetto di scienza, sia l’essere immutabile ed eterno, cioè il cosiddetto mondo delle Idee. Tuttavia, a differenza di Parmenide, Platone concepisce tale essere come differenziato, cioè molteplice, anzi per spiegarne la molteplicità ammette che esso partecipi, oltre che del “genere” dell’identico, anche del genere del “diverso”, ossia che ciascuna Idea sia identica a sé stessa e diversa dalle altre. Inoltre Platone ammette che, oltre a questo essere pieno, vi sia anche un essere, per così dire, dimidiato, ossia una via di mezzo tra l’essere e il nulla, che sarebbe il mondo sensibile, formato di cose che sono semplici immagini delle Idee. Poiché le Idee, universali e immateriali, sono cause delle cose, particolari e mutevoli, nel senso che le cose sono quello che sono, cioè hanno determinati caratteri, in quanto partecipano, o assomigliano, alle Idee, l’ontologia di Platone si può considerare una metafisica nel senso aristotelico del termine.
Anzi, secondo Aristotele, Platone avrebbe ammesso dei principi delle stesse Idee, cioè avrebbe identificato le Idee con i numeri (ideali, non combinabili tra loro come i numeri matematici) e avrebbe posto come principi delle Idee i principi dei numeri, ossia l’Uno, coincidente col Bene, come principio formale, cioè causa di unità e di determinatezza, e il “grande-piccolo”, o Diade indefinita, come principio materiale, cioè causa di molteplicità e di indeterminatezza. Dagli stessi dialoghi di Platone del resto risulta che il Bene, causa dell’esistenza e della conoscibilità di tutte le Idee, è “al di sopra dell’ousia” (Resp. VI, 509 b), dove per ousia si intende l’essere nel senso pieno, cioè il mondo delle Idee.
Platone
Essere, non essere e divenire
La Repubblica, Libro V, capp. 476e-477a
–Chi conosce, conosce qualcosa o niente? Rispondimi tu al suo posto.
– Risponderò, disse, che conosce qualcosa.
– Una cosa che è o una che non è?
– Che è: come potrebbe conoscerne una che non è?
– Ecco dunque un punto bene acquisito, anche se più volte ripetessimo il nostro esame: ciò che è in maniera perfetta è perfettamente conoscibile, ma ciò che assolutamente non è, è completamente inconoscibile.
– Conclusione perfettamente soddisfacente.
– Bene: ma se una cosa è tale da essere e da non essere, non sarà intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che non è in nessun modo?
– Intermedia.
– Ora, la conoscenza non si riferisce a ciò che è, e la non conoscenza, necessariamente, a ciò che non è? E per questa forma intermedia non si deve cercare anche qualcosa di intermedio tra l’ignoranza e la scienza, sempre che esista qualcosa di simile?
– Senza dubbio.
– E l’opinione, diciamo, è qualcosa?
– Come no?
– Una facoltà diversa dalla scienza o la medesima?
– Diversa.
– Quindi, a una cosa è ordinata l’opinione e a un’altra la scienza: ciascuna secondo la facoltà sua propria.
Platone, La Repubblica, trad. it. di F. Sartori, Roma- Bari, Laterza, 1973
A differenza di Platone, Aristotele ritiene che il mondo sensibile, formato di cose particolari e mutevoli, sia essere nel senso pieno e che in luogo delle Idee immateriali si debbano ammettere come cause delle cose le forme immanenti alla materia. Egli inoltre ritiene che l’essere si dica in molti sensi, cioè si articoli in una molteplicità di generi di enti, corrispondenti ai tipi possibili di predicato e perciò detti “categorie”. Tra questi generi ve n’è uno che è primo, nel senso che è condizione dell’esistenza e della conoscibilità di tutti gli altri, e questo è chiamato da Aristotele ousia, termine che indica come in Platone l’essere in senso forte, ma questo non è più un universale immateriale, come le Idee di Platone, bensì è qualcosa che non si predica di altro e non inerisce ad altro, cioè è soggetto, non predicato, e pertanto è individuale, per esempio un certo uomo o un certo cavallo (Cat. 5). La Scolastica medievale ha tradotto l’ousia di Aristotele con “sostanza”, termine che poi si è imposto nell’intera tradizione filosofica, a volte però assumendo significati diversi da quello che ha in Aristotele.
I predicati universali che esprimono l’essenza della sostanza, ossia che dicono il suo “che cos’è”, cioè i generi e le specie delle sostanze, sono detti da Aristotele “sostanze seconde”, e non sono separabili dalle sostanze individuali, cioè non possono esistere senza di queste, le quali pertanto sono dette “sostanze prime”. Invece le proprietà che ineriscono alle sostanze e possono essere sia particolari che universali, sono dette “accidenti” e anch’esse non possono esistere separatamente dalle sostanze. Gli accidenti rientrano nelle categorie diverse dalla sostanza, cioè sono quantità, qualità, relazioni, azioni, passioni, posizioni, possessi, tempi e luoghi. Le sostanze, in quanto soggetti della predicazione, possono assumere proprietà diverse in momenti diversi, cioè possono mutare, mantenendo tuttavia una propria identità. Ciò che consente alle sostanze di mutare, cioè di assumere proprietà diverse, è la loro materia, quindi le sostanze mutevoli sono tutte materiali. Tuttavia ciò che garantisce loro un’identità, la quale si conserva attraverso il mutamento, è la loro forma, ossia la loro essenza, ciò che risponde alla domanda “che cos’è?” Perciò Aristotele chiama “sostanza prima” anche la forma, intendendo non una forma separata dalla materia, ma la forma immanente alle sostanze individuali (Metaph. VII 17).
I concetti di materia e forma, che Aristotele afferma di ereditare da Platone, sono tuttavia da lui interpretati anche in senso dinamico, cioè come “potenza” e “atto”, dove la potenza è la tendenza della materia ad assumere una determinata forma, e l’atto è la funzione o l’attività svolta dalla sostanza in virtù della propria forma. Il tipo di forma che esprime meglio questo concetto è la forma degli esseri viventi (piante, animali, uomini), che Aristotele designa col termine di “anima”, dandogli in tal modo un significato diverso da quello che esso aveva in Platone. Egli dice che l’anima è per un vivente ciò che per una scure è la capacità di fendere, cioè la funzione, e per un occhio la capacità di vedere, cioè l’essere vivo, la vita (De anima II 1). Oltre alla materia e alla forma Aristotele ritiene necessarie altre due cause, il fine, che coincide con la piena realizzazione della forma, e il motore, cioè la causa del mutamento. Poiché egli ammette delle sostanze che si muovono eternamente (gli astri), deve ammettere dei motori che agiscano continuamente, cioè che siano tutto atto, senza materia, i motori immobili, che sono detti anch’essi “sostanze prime” e che Aristotele identifica con le divinità della religione greca.
Aristotele
Dall’essere alla sostanza
Metafisica, Libro VII 1, 1028 b 2-7
E in verità ciò che, sia anticamente sia ora, è sempre ricercato e sempre discusso, ossia “che cos’è l’essere (tí tò ón)”, ciò equivale a questo, “quale è la sostanza (tís he ousía)”; questa infatti alcuni dicono che è una, altri che è più di una, e alcuni che le sostanze sono in numero limitato, altri che sono in numero illimitato; perciò anche noi più di tutto, prima di tutto e, per così dire, soltanto, dobbiamo cercare intorno a ciò che è in questo modo.
Aristotele, Metafisica, trad. it. di E. Berti
Aristotele
La sostanza è la forma
Metafisica, Libro VII 17, 1041 b 2-9, 25-34
Bisogna, dunque, svolgere la ricerca dopo avere ben articolato la domanda, altrimenti sarà la stessa cosa non cercare nulla e cercare qualcosa. E poiché la cosa deve previamente essere data ed esistere, è evidente che si ricerca perché la materia sia una determinata cosa. Per esempio, questo materiale è una casa: perché? Perché è presente in esso l’essenza di casa. E si ricercherà così: perché questa data cosa è uomo? Oppure: perché questo corpo ha queste caratteristiche? Pertanto nella ricerca del perché si ricerca la causa della materia, vale a dire la forma (tò eidos) per cui la materia è una determinata cosa: e questa è appunto la sostanza (he ousía) […]. Perciò si potrà ben ritenere che questo qualcosa non sia un elemento, ma sia la causa per cui questa data cosa è carne, quest’altra cosa è sillaba, e così dicasi per tutto il resto. E, questo, è la sostanza di ogni cosa: infatti esso è causa prima dell’essere. E poiché alcune cose non sono sostanze, mentre tutte quelle che sono sostanze sono costituite secondo natura e per natura, sembrerebbe che la sostanza sia la stessa natura, la quale non è elemento materiale, ma principio; elemento è, invece, ciò in cui la cosa si divide e che è presente in essa come materia, come ad esempio della sillaba BA le lettere B e A.
Aristotele, Metafisica, trad. it. di G. Reale, Milano, Bompiani, 2003
Nell’età imperiale, dominata da un forte interesse per le religioni, la metafisica di Aristotele è interpretata come una “teologia”, cioè come una scienza di Dio. È vero che lo stesso Aristotele definisce la propria filosofia prima come scienza “teologica”, perché tra le cause prime da essa poste alcune, ossia i motori immobili, sono divini (Metaph. VI 1). Ma questi non sono tutte le cause prime, perché oltre ad essi Aristotele ammette gli elementi materiali (acqua, aria, terra e fuoco), le forme delle sostanze individuali e i fini di queste ultime, e perché gli stessi motori non sono tutti immobili e quindi divini (p. es. un motore è anche il Sole, in quanto causa della generazione). Quindi non si può ridurre la metafisica di Aristotele a teologia.
La metafisica come disciplina filosofica è stata rilanciata in età moderna dal gesuita spagnolo Francisco Suárez, che nelle Disputationes metaphysicae, opera ispirata alla Metafisica di Aristotele, ha concepito la metafisica, analogamente a Duns Scoto, come scienza dell’essere in generale, essenza universalissima, astratta e indeterminata (il trascendentale ontologico), di cui le varie realtà sono le determinazioni particolari. Queste sono fondamentalmente l’essere infinito, cioè Dio, e l’essere finito, cioè le creature. Dio così viene ad essere un ente particolare, sia pure sommo, nel quale si realizza in modo completo la ratio entis, cioè il concetto di essere, e la metafisica tende a dividersi in metafisica generale, avente per oggetto l’essere, e metafisica speciale, avente per oggetto Dio.
Mentre Descartes e Leibniz riprendono, rispettivamente nelle Meditazioni metafisiche e nel Discorso di metafisica, soprattutto la metafisica speciale, cioè la metafisica come scienza dell’anima e di Dio, Christian Wolff rende ufficiale la distinzione tra la metafisica generale, da lui chiamata “ontologia” al seguito di Göckel e Clauberg, e le metafisiche speciali, cioè la psicologia razionale, avente per oggetto l’anima, la cosmologia generale o razionale, avente per oggetto il mondo, e la teologia naturale o razionale, avente per oggetto Dio. Questa classificazione rimane alla base della filosofia di Kant, il quale mantiene la metafisica generale, intendendola come la scienza delle condizioni di possibilità di qualunque conoscenza (il trascendentale logico), e critica le metafisiche speciali, in quanto prive di base empirica.
Nell’Ottocento la metafisica viene riabilitata da Hegel, che la identifica con la “scienza della logica”, intesa come deduzione dei concetti che costituiscono l’Idea in sé, mentre viene rifiutata dal positivismo (Comte), che la considera uno stadio dello sviluppo del sapere umano superato dallo stadio positivo, cioè dalla scienza moderna. A critiche analoghe essa viene sottoposta dal neopositivismo novecentesco, in particolare da Carnap, che la considera un discorso senza senso perché non verificabile empiricamente. La metafisica aristotelica viene tuttavia ripresa nell’Ottocento soprattutto da Franz Brentano, che la interpreta secondo la prospettiva di Suárez come ontologia culminante in una teologia razionale, nonché dal neotomismo promosso dall’enciclica Aeterni Patris (1879).
In questa forma nel Novecento la metafisica viene prima ripresa e poi (dopo la “svolta”) criticata da Heidegger, in quanto da lui accusata di essere una “onto-teologia”, cioè una riduzione dell’essere ad un ente particolare, ancorché sommo, cioè Dio, e quindi un “oblio dell’essere”. Anche il termine “ontologia” è stato ripreso da Heidegger, il quale ha sviluppato la fenomenologia di Husserl nella direzione di una “ontologia fondamentale” intesa come interpretazione dell’essere dell’ente, anzitutto dell’essere dell’uomo (Dasein) e poi, dopo la “svolta”, dell’essere come tale (Sein).
Malgrado le critiche di Heidegger la metafisica non è ancora morta, infatti essa è presente nella filosofia analitica del linguaggio comune, come si può vedere di seguito, e nell’indirizzo di filosofia cristiana che si richiama alla “metafisica classica” (Gustavo Bontadini, Umberto Antonio Padovani, Marino Gentile, Sofia Vanni Rovighi), dove si ripropone in una forma “essenzializzata e storicizzata”, la quale si avvicina più alla sua forma originaria, cioè aristotelica, che a quella moderna.
Negli ultimi decenni, la metafisica antica si è mostrata più attuale che mai. Se si prescinde da evidenti diversità di lessico, dallo sviluppo di nozioni e strumenti interamente nuovi (specie di ordine logico) e dalla diversità radicale delle teorie scientifiche con cui la speculazione metafisica deve confrontarsi, si può vedere che una buona parte dei problemi che Aristotele discuteva sotto l’agenda di “filosofia prima” continuano ad essere discussi oggi sotto le agende di “Metafisica” e di “Ontologia” e in non poche delle soluzioni che quei problemi ricevono oggi si possono ancora discernere i contorni di idee, paradigmi e approcci già familiari nell’Antichità.
La continuità della speculazione occidentale contemporanea con questa antica tradizione è emersa con particolare evidenza all’interno del filone analitico, dove l’interesse metafisico si è gradualmente affermato nel corso dell’ultimo mezzo secolo come uno dei principali fattori identitari. Nonostante la radicalità delle posizioni antimetafisiche di alcuni dei suoi più noti rappresentanti (basti pensare al paradigma neopositivista della insensatezza della metafisica, incarnato nello stereotipo carnapiano dei metafisici come musicisti privi di talento musicale), l’interesse metafisico, almeno inteso genericamente come interesse per la struttura ultima, più profonda e più pervasiva della realtà, non è mai stato una “bestia strana” nella tradizione analitica ed è centrale in autori come Frege, Russell e Wittgenstein, che di quella tradizione sono i fondatori.
In questi autori, però, l’interesse metafisico è ancillare rispetto a quello logico-semantico. Frege, Russell e Wittgenstein hanno una metafisica perché vogliono avere una logica e una teoria del significato, e perché tendono a localizzare il significato delle espressioni su base referenziale, connettendo sistematicamente tipi di espressioni a tipi di entità, le categorie ontologiche ultime alle categorie grammaticali ultime. Questo paradigma è profondamente radicato nelle origini della filosofia analitica, e in autori come Frege, Russell, Wittgenstein, Lesniewski e altri abbiamo altrettanti esempi di come l’articolazione della struttura logico-semantica degli enunciati e l’analisi della ossatura ontologica del mondo possano comportarsi come due facce della stessa medaglia.
A partire dai primi anni Cinquanta, l’affermarsi in ambito analitico di una tendenza chiamata “filosofia del linguaggio ordinario” fa slittare l’attenzione dei filosofi dalle lingue artificiali alle lingue naturali. Nel pieno di questa tendenza, Strawson contrappone due approcci alla teoria generale di ciò che esiste, che chiama “metafisica descrittiva” e “metafisica revisionista”. Mentre la metafisica revisionista mira a scoprire come la realtà sia strutturata in sé, la metafisica descrittiva, che è l’impresa cui Strawson è interessato, mira kantianamente a descrivere come concettualizziamo il mondo, rendendo esplicite e sistematiche le assunzioni di esistenza implicite nel nostro pensiero. Nonostante l’interesse per l’analisi del linguaggio ordinario riproduca coscientemente un noto aspetto del metodo aristotelico in metafisica, e nonostante la prepotente ricomparsa della stessa parola “metafisica” nel titolo, l’enfasi sulla metafisica descrittiva ribadisce la sostanziale strumentalità dell’interesse metafisico rispetto a quello logico semantico (il problema non è tanto rappresentare la struttura della realtà, quanto piuttosto il nostro modo di rappresentarla).
L’idea di una “metafisica descrittiva” – in ultima analisi, il luogo in cui si dà risposta a ciò che Carnap chiamava “questioni ontologiche interne” – continua a informare il lavoro di una parte importante della teoria analitica del significato prodotta dalla seconda metà del secolo scorso a questa parte, ad esempio è centrale tanto nell’idea dummettiana di “basi logiche” della metafisica quanto in ciò che Davidson ha chiamato “metodo della verità in metafisica”. Lowe ha recentemente chiamato la posizione comunemente implicita in questo tipo di approcci “semanticismo” e ha osservato che il semanticismo sembra una variante ancora più radicale del kantismo, l’idea che la metafisica non ci dica nulla della realtà oggettiva, ma solo del nostro pensiero su di essa.
Intorno alla metà del secolo scorso, criticando la distinzione di Carnap fra questioni ontologiche interne ed esterne, Quine aveva però minato alla base l’idea stessa di una metafisica descrittiva. Il problema della struttura “assoluta” della realtà veniva così rimesso al centro del palcoscenico, ma solo per lasciare che ciò che Quine chiamava “epistemologia naturalizzata” riconsegnasse il problema nelle mani delle sole scienze naturali: se tutta la conoscenza umana, inclusa la conoscenza metafisica, è un prodotto della nostra natura biologica, deve essere studiata secondo i metodi delle scienze naturali, il che toglie ogni spazio a un approccio filosofico ai problemi della metafisica, con metodi e oggetti diversi da quelli delle singole scienze. Al più, si può lasciare al metafisico professionista il compito poco autonomo di chiarire le fondamentali presupposizioni ontologiche condivise dagli scienziati nel loro insieme, nell’ipotesi che ci sia del lavoro da fare per rendere la scienza ontologicamente trasparente a se stessa – un’impresa che negli ultimi decenni è diventato abituale chiamare “metafisica della scienza”.
Il fatto più importante per la rinascita di una disciplina paragonabile per struttura, finalità, problemi e in parte metodi a ciò che Aristotele chiamava “filosofia prima” si produce intorno alla metà del secolo scorso, con lo sviluppo delle semantiche per la logica modale quantificata ad opera di Ruth Barcan Marcus e Saul Kripke e la successiva formulazione, ad opera soprattutto dello stesso Kripke, Plantinga e altri, di tesi filosofiche strettamente legate a quei risultati tecnici, aventi essenzialmente a che fare con la piena legittimazione di nozioni come quelle di possibilità, necessità de re e proprietà essenziale. Che sia Aristotele a “battere un colpo” dall’Antichità è subito evidente, tant’è vero che l’intero ordine di questioni viene discusso sotto l’etichetta quiniana di “essenzialismo aristotelico”. Per quanto riguarda le sorti della metafisica, l’essenzialismo aristotelico sembra produrre fondamentalmente due risultati. In primo luogo, consente di interrogarsi sulla natura essenziale degli oggetti invece che sul modo in cui li concettualizziamo, escludendo ogni tentazione “descrittiva”. In secondo luogo, consente di separare la domanda su come la realtà è dalla domanda su come essa potrebbe (o non potrebbe) essere, una questione che sembra cadere al di fuori dalla portata delle scienze naturali, delimitando un ambito metafisico non riducibile. Nozioni come quelle di oggetto, proprietà, sostanza, esistenza, relazione, parte, causa e possibilità cessano di essere categorie del pensiero, per ridiventare categorie dell’essere nel senso aristotelico. Anche se non tutti i filosofi analitici convergono su questa concezione “realista” dello statuto e dei compiti della metafisica, è indubbio che sia stato anche grazie ad essa se i problemi classici della metafisica antica sono così prepotentemente tornati al centro del dibattito filosofico.
L’insieme delle questioni metafisiche discusse dai filosofi analitici è impressionante e giustifica la battuta di Putnam secondo cui la filosofia analitica è il maggiore movimento prometafisica presente sulla scena contemporanea. L’attenzione si è particolarmente concentrata sulla teoria dello spazio e del tempo in tutte le sue ramificazioni, sulla natura della persistenza e del mutamento, sugli universali, i particolari e il loro rapporto, sulle teorie della causalità, sul trattamento della modalità, sull’identità e le relazioni tutto-parte, ma anche sulla natura di entità di domini più specifici (Husserl diceva “regionali”): persone, eventi mentali, azioni, enti sociali. Talora le discussioni dei vecchi problemi hanno assunto forme nuove, com’è il caso del dibattito sui criteri di identità, in cui sono state “tradotte” alcune delle antiche intuizioni sulle nozioni di forma e di sostanza. Talora hanno sviluppato antiche idee embrionali, come il dibattito ontologico sulla vaghezza, germinato dalle discussioni sull’antico “paradosso del sorite”. Talora sono arrivate a focalizzare soluzioni nuove di problemi vecchi, come il quadridimensionalismo o la teoria degli stadi per il problema della persistenza e del mutamento. Talora sono approdate a riduzioni inedite di nozioni metafisiche venerabili, come il realismo modale di David Lewis, un tentativo sistematico di comprimere la possibilità entro i confini di un’attualità dilatata. Talora hanno assunto forme inedite nell’intreccio con questioni di semantica e logica filosofica (come è accaduto al dibattito metafisico sull’esistenza a contatto con le teorie logiche della quantificazione), o sotto la pressione delle attuali teorie scientifiche (com’è accaduto alle teorie del tempo e della persistenza nell’incontro con la fisica relativistica, o al dibattito sulla vaghezza ontologica alla luce della meccanica quantistica).
Poche di queste discussioni vertono su problemi metafisici interamente nuovi e molte di quelle che lo fanno finiscono per richiamare questioni, concetti e teorie già familiari nell’Antichità. Lo stesso accade per molte delle soluzioni adottate. Tra queste, hanno un sapore aristotelico la recente attribuzione di un ruolo ontologico alle disposizioni e ai poteri causali, l’idea di Fine che l’essenza “venga prima” della necessità (sono le proprietà essenziali degli oggetti a spiegare perché essi abbiano certe proprietà necessarie e non viceversa) e l’affermarsi delle teorie animaliste della identità personale. E ha un sapore platonico il riemergere di prospettive dualiste sul problema mente-corpo, così come il riconoscimento della realtà indipendente degli universali, peraltro generalmente interpretati in modo antiplatonico come immanenti alla cornice spazio-temporale.
Nel dibattito analitico recente non si registra in genere più concordia di quanta se ne registrasse in metafisica antica, e la concezione stessa della metafisica non è meno controversa. L’idea neoplatonica della metafisica come teologia non ha lasciato tracce se non nel tomismo analitico, anche se sono molti i metafisici analitici, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, che hanno studiato in profondità temi di teologia e filosofia della religione. Mentre l’idea della metafisica come scienza dell’essere in quanto essere è ancora ampiamente condivisa, l’idea aristotelica della metafisica come ricerca della causa prima è divenuta infrequente perché, anche se pochi temi sono stati approfonditi dai metafisici analitici come la causalità, non tutti concordano sulla sua fondatezza, cosicché una definizione di metafisica basata sulla nozione di causa corre il rischio di apparire troppo ristretta. Tra i temi meta-metafisici più discussi c’è, accanto alla distinzione fra metafisica revisionista e metafisica descrittiva, il connesso conflitto fra concezioni realiste e convenzionaliste del discorso metafisico e la controversa distinzione – sostenuta da vari autori fra cui, in diversi lavori in italiano e in inglese, da Achille Varzi – fra la teoria di ciò che esiste (talora chiamata “ontologia”) e la teoria della natura ultima di ciò che esiste (talora chiamata semplicemente “metafisica”). Questa distinzione ricorda almeno in parte quella di D. Williams fra “cosmologia speculativa” e “ontologia analitica”.