METALLURGIA
1. - Nel termine generale di metallurgia si comprende attualmente una complessa serie di procedimenti altamente specializzati, principali fra i quali, la metallurgia estrattiva, definita come l'arte di ridurre i minerali metalliferi (ossidi, carbonati, ecc.) in metallo più o meno puro (Fe = ferro, Cu = rame, Sn = stagno, ecc.) e la tecnologia metallurgica, definita come l'arte di elaborare i metalli nelle forme e nelle condizioni atte al loro uso. Una netta distinzione tra queste forme di attività, quale può apparire allo stato attuale delle conoscenze, è tuttavia difficilmente concepibile nella organizzazione delle più primitive forme di civiltà; nelle quali, ad uno stesso artefice incombeva generalmente la cura di elaborare i minerali e di trasformare il metallo grezzo fino allo stadio finale di utilizzazione.
Una traccia di questa ambiguità si ritrova del resto nella stessa latitudine dei termini greci mètallon, designante tanto la miniera quanto il prodotto della riduzione, e metallourgòs, inteso tanto come minatore che lavoratore dei metalli.
Solo in un periodo di più avanzata organizzazione sociale, le tecniche si specializzano e si differenziano, fino a raggiungere, già in epoca storica, un grado di evoluzione tale da consentire una distinzione sufficientemente precisa tra il fabbro ferraio e il fonditore, tra lo spadaio è il battitore di rame, tra l'orafo e l'argentiere.
Tanto la preistoria quanto l'etnografia dimostrano che l'umanità, per un lunghissimo periodo di tempo, ignorò le proprietà e l'uso dei metalli, e che le più elementari funzioni alle quali questi vennero poi destinati, furono ricoperte dalla pietra, o più esattamente da particolari tipi di minerali litici, la cui scelta e lavorazione venne in un lungo corso di secoli affinandosi e specializzandosi, fino a raggiungere un singolare grado di evoluzione. È più che probabile che i primi contatti fra l'uomo primitivo e alcuni metalli risalgano ad un'epoca assai precedente a quella della pietra levigata, che rappresenta l'ultimo stadio di perfezionamento delle tecniche litiche. Cercando le selci nel greto dei fiumi o frugando nei depositi alluvionali, l'uomo ebbe certo frequenti occasioni di imbattersi in curiosi globuli, ch'egli imparò ben presto a distinguere dai minerali comuni per la loro malleabilità, oltre che per il loro attraente color giallo; contemporaneamente all'oro, imparò anche a conoscere il rame nativo e il ferro meteorico, e a tentare le tecniche di battitura a freddo, che questi minerali consentono con relativa facilità.
In un secondo tempo, è probabile che l'uomo imparasse a conoscere l'effetto della temperatura sulla malleabilità e a scoprire che un metallo, plastico e facilmente foggiabile a caldo, riacquistava la sua durezza e la sua rigidità una volta riportato alla temperatura normale.
Non sono rari gli esempî di popolazioni che non riuscirono mai a superare questo primitivo stadio delle conoscenze metallurgiche, come si è per esempio riconosciuto per gli antichi abitatori dell'America del Nord, favoriti dalla presenza frequente di masse relativamente imponenti di rame nativo, cioè in uno stato naturalmente metallico; masse dalle quali, con infinita pazienza, l'uomo si industriò ad isolare qualche piccolo frammento, utilizzabile per la fabbricazione di utensili o di ornamenti.
È dubbio tuttavia che, allo stato di queste esperienze, si possa già parlare di metallurgia; ed infatti, quasi tutti gli studiosi sono concordi nel denominare questo stadio evolutivo della storia della civiltà come periodo calcolitico ed a fissarne l'estensione, a seconda delle regioni, fra il 6ooo e il 4000 a. C. (Asia), il 5000 e il 3500 a. C. (Valle del Nilo) e il 3500 e il 2500 a. C. (Creta, Cipro).
A parte l'oro, il primo metallo utilizzato dall'uomo, a questo stato delle conoscenze, deve indubbiamente ritenersi il rame nativo, la cui scarsità non poté subito esercitare sulla evoluzione della civiltà, ancora tipicamente orientata verso l'uso degli strumenti litici, quella decisa rivoluzione tecnologica, che venne posta in atto dalla scoperta dei metodi di riduzione dei minerali cupriferi e, in un secondo tempo, dai metodi di alligazione con lo stagno.
La vera storia della m. incomincia, in realtà, dal momento nel quale l'uomo giunge a rendersi conto che taluni minerali, trattati ad alta temperatura, in presenza di carbone, si riducevano in una massa liquida, che colata in una cavità predisposta, ne assumeva fedelmente la forma, solidificandovisi.
Varie considerazioni tecniche portano a ritenere che i primi fonditori di rame si limitassero a utilizzare il metallo, per solito impuro, sotto forma di rozzi pani o lingotti, che subivano, in un secondo tempo, un lungo lavoro di battitura, secondo la tecnica già impiegata per l'oro e il rame nativo, per ottenerne piastre sottili, lame di pugnali e di daghe, e strumenti taglienti.
Un buon esemplare di questa tecnica è rappresentato dalla statua del faraone Pepi I (circa 2300 a. C.), realizzata per la massima parte con lastre di rame quasi puro, sbalzate a martello, e unite mediante chiodi ribaditi, a parti ottenute di getto.
Soltanto in qualche caso meno frequente, gli utensili più massicci venivano colati direttamente in forme di pietra: si conservano infatti numerosi esemplari di asce di rame puro, la cui forma ricorda molto da presso i più tardi modelli litici; esemplari, ottenuti sicuramente con questa tecnica, che rappresenta il primo passo verso una evoluzione che raggiunse il suo colmo con la scoperta del bronzo.
Ricercare come, dove e quando ebbe origine questa evoluzione, che mutò radicalmente la tecnologia metallurgica e dischiuse alle popolazioni che ne ebbero conoscenza le porte di una nuova èra - l'Età del Bronzo - è impresa ardua e largamente aperta alle ipotesi. Sembra comunque ragionevole supporre, in base ai reperti, che le popolazioni sumeriche (v. mesopotamica, arte) giungessero, prima di altre, a disporre di una abbastanza precisa conoscenza delle proprietà delle leghe di rame e di stagno. Alcuni esemplari trovati negli scavi di Ur e databili fra il 3000 e il 2400 a. C. mostrano già una consapevole tecnica di alligazione in rapporto all'uso: un'ascia proveniente da questi scavi denunciò all'analisi un contenuto di 11% Sn (+ 0,6% Ni) che appare al tecnico moderno come la composizione più adatta per raggiungere, a un tempo, una buona durezza e una sufficiente plasticità per reggere l'imbatto senza scheggiarsi o perdere il filo.
Non bisogna tuttavia credere che il bronzo elaborato dai più antichi artefici rispondesse sempre ad un preciso rapporto di alligazione: l'utilizzazione di minerali più o meno impuri, l'uso di metallo delle più diverse provenienze, l'incapacità di valutare e controllare la composizione delle cariche, ponevano il fonditore in condizione di produrre manufatti di proprietà variabili e talora scarsamente adatte all'uso. Tenori talvolta molto sensibili di ferro, di piombo e di arsenico si sono trovati nei bronzi antichi, con conseguente peggioramento delle caratteristiche fisico-meccaniche delle leghe propriamente binarie Cu-Sn, che costituiscono i bronzi più puri (v. bronzo).
Anche il nichelio (Ni), che non costituisce tuttavia una impurezza dannosa, si ritrova frequentemente nei bronzi antichi, in dipendenza della utilizzazione di particolari minerali cupriferi contenenti tracce sensibili di questo elemento, del tutto sconosciuto, del resto, come tale, nell'antichità.
A partire dal 1400 circa a. C. il bronzo domina completamente la tecnica metallurgica del mondo antico, e penetra coi traffici commerciali, fin nelle più lontane regioni. Ne segue una profonda mutazione nelle forme tradizionali dell'armamento: la corta daga di rame battuto, buona soltanto a ferire di punta, derivata direttamente dai vetusti prototipi di selce, lascia il posto alla snella e affilata spada di bronzo, gettata in forma di pietra ("conchiglia") e battuta sul filo, atta a ferire di punta e di fendente. Contemporaneamente, si viene perfezionando la tecnica della fusione in staffa e in cera persa, cui il bronzo apporta le sue peculiari caratteristiche di colabilità, così deficienti nel rame puro: questa tecnica si trasferisce rapidamente ai metalli preziosi, l'oro e l'argento, cui già le tecniche di battitura a freddo consentivano elaborate e complesse trasformazioni. Un esempio rimarchevole è dato dal sarcofago d'oro massiccio del faraone Tutankhamon, morto nel 1349 a. C. Il sarcofago riproduce in grandezza naturale l'effigie del faraone, pesa 101,6 kg e venne realizzato di getto e ripassato finemente al bulino, con una maestria che non ha nulla da invidiare alla più raffinata tecnica moderna (v. egiziana, arte).
Intorno a quel tempo, col progredire e con l'affermarsi della architettura monumentale, il bronzo entra con i marmi pregiati, con le ceramiche policrome e con gli smalti, a far parte integrante della decorazione.
L'impiego dei metalli nell'arte edilizia è antichissimo, e numerosi sono gli esempi, che ci son stati tramandati dai trattatisti e che i ritrovamenti archeologici hanno riportato alla luce. Tuttavia, non corrisponde certo alla generale realtà storica quella visione idealizzata, che ci deriva dalle tradizioni popolari è dalle amplificazioni poetiche. Il mondo antico è un mondo di disuguaglianze, che accanto a superbe e gigantesche architetture, risplendenti di marmi, di bronzi e di smalti policromi, ammassava nei vicoli tortuosi e negli angiporti migliaia di abituri, che meglio avrebbero meritato dirsi capanne che case; nei quali, i mattoni mal cotti, la terra battuta e i cannicciati rappresentavano i tipici materiali da costruzione; dove lo stesso legname massiccio era utilizzato con quella parsimonia che l'alto prezzo imponeva.
Della permanenza delle sue costruzioni il mondo antico aveva un concetto che era a un tempo realistico e relativistico; e mentre gli architetti di Tebe, di Atene e di Roma stessa, innalzavano i loro monumenti "per l'eternità" quand'erano destinati a ospitare in vita i piaceri e in morte le spoglie dei grandi, o a mustrare il mistero dei culti, disdegnavano di annettere soverchia importanza alla durata di quelle provvisorie e precarie costruzioni, ch'erano destinate alle modeste necessità dei comuni mortali.
E se, come ci narra Omero, Telemaco e Pisistrato sono abbagliati dalla ricchezza del mègaron (v.) di Menelao, risplendente d'oro, d'argento e di bronzo, bisogna pensare che una tal fastosa decorazione non fosse abituale anche nelle dimore dei grandi.
Del resto, reduce dal sacco d'una pur grande e opulenta città, e re egli stesso, Ulisse non può nascondere la sua meraviglia, quando, oltrepassato il limite bronzeo del palazzo di Alcinoo, (Odissea, vii, 86 ss.) osserva che:
"... Dalla prima soglia - Sino al fondo correan due di massiccio - Rame pareti risplendenti, e un fregio - Di ceruleo metal girava intorno".
Nel mondo antico il metallo, ferro, bronzo, rame o piombo che fosse, è sempre stato prezioso, sia come prodotto di un faticoso e difficile lavoro, sia quale frutto di complicati e avventurosi commerci. Tanto prezioso, e relativamente poco diffuso, che già nella Roma imperiale poteva destar meraviglia nel forestiero e orgoglio nei cittadini il fatto che il Pantheon di Agrippa avesse la grande cupola ricoperta di tegole di metallo dorato, e che le sue colonne fossero ornate, come ricorda Plinio (Nat. hist., xxxiv, 13, 7) di capitelli di bronzo siracusano.
Ciò non toglie che, raccolte in poche mani, esistessero anche nei tempi più remoti, ingenti quantità di metalli; che di volta in volta, nonostante la loro preziosità, potevano essere effettivamente profusi nella decorazione dei palazzi dei grandi e nei templi.
Così, il re assiro Sennacherib (704-681 a. C.) si vanta di aver decorato il suo palazzo di Ninive, oltre che di otto grandi leoni fusi nel bronzo, del peso di 11400 talenti (circa 280 tonnellate), anche di due colossali colonne di rame, del peso di 6ooo talenti (circa 147 tonnellate).
E il re Salomone, oltre che del grande "mare" o bacino bronzeo, del diametro di 10 cubiti (circa 6,4 m) e del peso di 200 tonnellate (v. hiram), dota il suo tempio di due colonne di bronzo, alte 23 cubiti (circa 14,7 m); colonne, che solo qualche secolo dopo i guerrieri di Nabucodonosor (604-562 a. C.) spezzarono e ridussero a Babilonia col bottino del grande sacco.
Per contro, nella costruzione delle grandi porte delle città fortificate, delle dimore tegali e dei templi, era piuttosto diffuso l'impiego di rivestimenti bronzei o di rame sbalzato, che servivano a proteggere il legno dall'insulto diretto delle intemperie non meno che di fastosa decorazione. Uno degli esempi più antichi che siano giunti fino a noi è il pannello di rame sbalzato da el-Ubaid raffigurante Imdugud (v. mesopotamica, arte) che risale a circa 3000 auni prima dell'èra volgare. Tipiche di questa tecnica sono anche le porte di bronzo della città di Balawāt, (v.), prossima a Ninive, erette dal re assiro Salmanassar III (858-824 a. C.) in onore di suo padre Assurnasirpal II; porte, che pure sono giunte fino a noi.
Per l'austera semplicità della Roma repubblicana, l'uso dei metalli nelle costruzioni private era reputato riprovevole ostentazione; e il questore Spurio Carvilio rimprovera infatti a Camillo, fra gli altri suoi crimini (inter crimina) quello di aver alzato porte di bronzo nelle sue case (ostia quod aerata haberet in d0mo).
Le caratteristiche che gli antichi ricercavano nei metalli e soprattutto nel durevole bronzo, nelle applicazioni edilizie, erano particolarmente legate al loro valore decorativo e cromatico, oltre che, naturalmente, alla loro capacità di adattarsi ai mezzi tecnologici e all'estro artistico di chi li doveva piegare nelle forme richieste. Per questo, il colore intrinseco della lega, non meno che la tonalità delle pàtine, erano valutati ben oltre le intrinseche proprietà meccaniche, che del resto non potevano essere che malamente e grossolanamente stimate. Bisognerà infatti arrivare a Leonardo da Vinci e a Galileo Galilei per trovare i primi accenni ai metodi razionali di valutazione delle caratteristiche dei materiali da costruzione.
In mancanza di sicuri criteri valutativi, che non fossero puramente estetici, nell'ignoranza più completa delle leggi fisico-chimiche della metallurgia, non può stupire che la produzione delle leghe metalliche fosse a quei tempi avvolta di un velo di mistero e di leggenda. Plinio stesso (Nat. hist., xxxiv, 8 ss.), nella prolissa elencazione di bronzi celebri, mostra di possedere una assai approssimativa conoscenza della loro tecnica di produzione, confermandoci ancora una volta che la valutazione era fatta principalmente in relazione alla ricchezza del colore e all'opulenza delle pàtine. Tipica, a questo effetto, è la descrizione che Plinio ci ha lasciato del favoloso bronzo di Corinto, la cui origine si disse frutto della casuale commistione del rame, dell'oro e dell'argento, liquefatti dall'incendio che il terzo anno della Olimpiade clviii (146 a. C.) seguì la presa e il sacco della città da parte del console L. Mummio.
Ciò non toglie che Plinio stesso ammettesse che gli artefici greci conoscevano varie sorta di bronzi corinzî: il bianco, simile all'argento; il fulvo (auri fulva natura) del colore dell'oro; e un terzo, che si diceva composto di parti uguali di rame, d'argento e d'oro. Ma fra questi bronzi preziosi, preziosissimo era il famoso hepatìzon, di un ricco e caldo color fegato, la cui composizione, quamquam hominis manu temperatur, era tenuta dagli artefici in tanto geloso segreto, da destare negli intenditori, che a Roma erano molti e ricchissimi, tale una sfrenata cupidità di possesso che il triumviro Antonio, complice Cicerone, era in sospetto di aver fatto proscrivere Verre per il sostanziale motivo che questi non aveva voluto cedergli la sua collezione di bronzi corinzî.
Ed è curioso rilevare, a questo proposito, come leghe di rame, oro e argento, valutate soprattutto per la ricchezza e la varietà delle loro inconsuete pàtine, fossero usate fin dai tempi più antichi anche nel lontanissimo Giappone, dove altrettanto segreti e misteriosi ne vennero mantenuti i metodi di produzione.
2. - Verso il 1400 a. C. ha inizio l'ultima rivoluzione tecnica del mondo classico e incomincia quella che gli storici e gli etnografi chiamano Età del Ferro.
In realtà, è soltanto un effetto di lontana prospettiva che consente di fissare una data per l'inizio di una evoluzione, che un più attento esame dimostra essersi lentamente e laboriosamente sviluppa'ta, come proiezione da un centro, che tutto fa ritenere localizzato, fra il 2000 e il 1200 a. C., nella regione dominata dagli Hittiti. Con la rovina dell'impero hittita, circa il 1200 a. C., gli artefici esperti nella lavorazione del ferro si dispersero dalla attuale Armenia verso le ricche città del Vicino Oriente, probabilmente come fabbri girovaghi (i Calibi della tradizione classica) e trasportarono la loro tecnica ed il loro segreto ovunque le condizioni ambientali e la presenza di minerali e di combustibili adatti, potevano presentare favorevoli possibilità di sviluppo.
Ma anche prima del 1200 a. C. il ferro era noto e apprezzato come un metallo prezioso, quanto e più dell'oro stesso. La civiltà faraonica più antica conosceva perfettamente il ferro meteorico e ne venerava l'origine celeste, anche se le quantità disponibili erano tanto esigue da non poter minimamente influire sulla tecnologia che, per tutto il corso della sua lunga storia, rimane per l'Egitto fondata esclusivamente sull'uso del bronzo.
Con gli altri piccoli oggetti di ferro (un modello di poggiatesta e una serie di bulini) ritrovati nella tomba di Tutankhamon, è giunto, intatto, fino a noi un bel pugnale con la lama di acciaio, sicuramente non meteorico, completo della sua impugnatura d'oro e di cristallo di rocca (quarzo ialino), che il giovane faraone aveva ereditato dal nonno Amenophis II, il quale, a sua volta, lo aveva ricevuto in dono da un re hittita. Quale fosse il valore del ferro, ancora verso il 900 a. C., può essere del resto stimato dal fatto che, in Assiria, 6o kg circa di ferro valevano 16 sicli d'argento, mentre uno schiavo valido ne valeva da 30 a 40.
Il passaggio dalla tecnologia preminentemente fusoria delle leghe di rame a quella esclusivamente basata su metodi di fucinatura a caldo del ferro, comporta lo sviluppo di conoscenze del tutto nuove, di tecniche specializzate e differenziate, di elaborazioni ingegnose e complesse, che non hanno riscontro nella relativamente semplice ed immediata metallurgia dell'Età del Bronzo. Se i Greci denominavano il ferro polökmetos (faticoso, difficile), è probabile essi si riferissero non tanto alla sua vera e propria metallurgia estrattiva - che, in sostanza, non appare poi così complessa nei confronti di quella del rame, considerata la ricchezza dei minerali primitivamente impiegati e la purezza dei combustibili (carbone di legna) - quanto al fatto che il ferro così ottenuto non è, come il bronzo, utilmente impiegabile come tale, ma necessita di un ulteriore ingegnoso e faticoso lavoro di battitura a caldo e di una operazione non affatto intuitiva, come la carburazione, per essere ridotto alla sua forma più utile di acciaio, ed infine, presso le civiltà metallurgicamente più evolute, di una studiosa composizione, per strati variamente disposti e combinati, di acciai più o meno carburati e di particolari trattamenti di tempra, per lo più localizzata.
Le più recenti indagini metallografiche sulla struttura degli antichi prodotti della metallurgia del ferro, per quanto attendano tuttora un lavoro di coordinamento e di critica generale, indicano tuttavia un nuovo indirizzo della ricerca archeologica e mostrano fin d'ora la possibilità di risalire assai meglio, per questa via, alla ricostruzione delle varie correnti specializzate di espansione, di quanto non consentano le indagini fondate puramente sulla considerazione della metallurgia estrattiva e primaria dei minerali di ferro; la quale, dal più al meno, non offre invero grandi varietà di impostazione dei suoi metodi e non basta certo a caratterizzare i ben diversi livelli di perfezionamento che si possono rilevare invece con lo studio, che si potrebbe dire anatomico, degli strumenti, e soprattutto delle armi, nella produzione delle quali venne posta, in ogni tempo, la più studiosa attenzione.
La tecnica metallurgica del ferro e dell'acciaio si inizia in Europa fra il 900 e l'8oo a. C. nel Noricum e, quasi contemporaneamente, in Etruria, nei paesi celtici e nella Spagna.
Molti autori accettano l'ipotesi antica che le diverse proprietà e qualità degli acciai, note ai Greci ed ai Romani,traessero la loro origine dalla peculiare composizione e purezza dei minerali di origine. E in realtà, la mancanza di precise conoscenze intorno all'azione scorificante di talune sostanze minerali, conduceva naturalmente a un prodotto finale tanto migliore quanto più ricco e puro era il minerale di ferro impiegato; donde la celebrata qualità dei prodotti di talune privilegiate regioni, come appunto il Noricum (v.), che si valeva di ferro spatico (carbonato di ferro), uno dei più ricchi e più puri minerali di ferro (v. Linz).
Tuttavia, le più recenti ricerche portano a ritenere sempre più probabile l'ipotesi che la disponibilità di buoni minerali di ferro abbia bensì potuto costituire l'elemento locale determinante una fiorente industria siderurgica, ma che l'eccellenza dei prodotti finali (armi, strumenti) fosse soprattutto derivata da un progressivo affinamento delle tecnologie secondarie, favorito da una specializzazione e da un grado di evoluzione concepibili soltanto in un ambiente naturalmente preparato ed economicamente orientato in questo senso.
Non è affatto provato, per esempio che il famoso acciaio indiano wootz e il poulad-jauharder dei Persiani, già noti e apprezzati in tutto il mondo classico, derivassero le loro eccezionali proprietà dalla qualità dei minerali impiegati. Al contrario, essi debbono esclusivamente le loro caratteristiche ad un peculiare procedimento di elaborazione (per esempio carburazione spinta allo stato pastoso, in crogiuolo, seguita da lento raffreddamento).
In realtà, la struttura del poulad-jauharder (che vale letteralmente "acciaio a onde") è quella di un acciaio "ipereutettoide" (cioè con contenuto di carbonio = 1,6-1,7%), dapprima sottoposto a lento raffreddamento di un piccolo panetto ("eterogeneizzazione"), in modo che la cementite (Fe3C) potesse separarsi in cristalli aghiformi dalla matrice di fondo; plastificato quindi, per sferoidizzazione dei carburi, mediante una numerosa serie di "calde" e di progressivamente crescenti deformazioni, indotte a martello. Deformazioni, da principio limitate e delicatissime, quindi, man mano che la plastificazione progrediva, sempre più energiche e profonde. In questo modo, il piccolo massello originale, che il Tavernier dice delle dimensioni dei pains d'un sou, e che lo Chardin descrive come un pain rond, comme le creux de la main, veniva direttamente tirato in lungo e in piatto, fino alla forma dello sbozzo definitivo della lama. La quale, contrariamente alla volgare opinione, non veniva sottoposta a un processo di tempra vera e propria, ma soltanto a una sorta di normalizzazione, facendola mulinare in aria, ancor rossa dell'ultima calda, o, al più, avvolgendola in cenci umidi.
Tutte le altre lame, prodotte da stirpi del tutto distinte e anche non direttamente tra loro comunicanti, come le giapponesi, furono prodotte invece con la tecnica della saldatura o "bollitura" a caldo (damasco saldato).
Naturalmente, da esemplare a esemplare, da luogo a luogo e da artefice ad artefice, variava la scelta e la qualità degli acciai, la perfezione delle saldature e, soprattutto, la valutazione della struttura finale, la complicazione delle ripiegature e, di conseguenza, il numero e la disposizione degli alterni strati di acciaio diversamente carburato. La conoscenza della tecnica del damasco saldato presso gli Etruschi è provata, da chi scrive, dalla analisi metallografica di una cuspide di lancia del IV sec. a. C. trovata in una tomba a Montefiascone, non lontano da Fanum Voltumnae, centro religioso della confederazione etrusca. La parte centrale è composta di strati di una lega di ferro contenente rispettivamente 28,8 % Ni e 11,5 % Ni, alternati con strati di acciaio normale (Fe-C) con 0,4-0,5 % C e con 0,2-0,25 % C. La presenza di cobalto (~ 0,2 %) nella lega Fe-Ni prova l'origine meteorica del materiale parsimoniosamente impiegato - certamente per scopi magici o sacrali - per la sola parte centrale dell'arma, il resto essendo ricavato da ferro di produzione certamente locale.
A questo proposito è bene osservare che la tecnica del "damasco saldato" venne impiegata, senza sostanziali modifiche, dalla antichità classica per tutto il Medio Evo e fino alle soglie del XX secolo. Vive ancora nel XVIII sec. la voce francese "étoffe" che il Larousse definisce: "barre forgé àvec plaques alternée de fer et d'acier"; e la equivalente voce italiana "stoffa", attualmente caduta in disuso, che il Tramater definisce: "Composizione d'acciaio e ferri diversi, che si riduce in massello col bollirla".
3. - Alle conoscenze metallurgiche del mondo antico la civiltà romana non apporta nulla di sostanzialmente nuovo, se si eccettua la scoperta, o forse soltanto la diffusione, di una nuova lega, l'aurichalcum, elaborata fondendo il rame in presenza di calamina e di carbone e ottenendo così, inconsapevolmente, una lega di rame e zinco, corrispondente all'ottone attuale.
La nuova lega trovò applicazione specialmente nella monetazione e i primi esemplari sembrerebbero doversi attribuire all'impero di Tiberio (dupondius di Augusto). Nel VI sec. furono d'ottone con rosette in rame e argento le grandi porte di S. Sofia a Costantinopoli, come risulta da recenti analisi.
Al crepuscolo del mondo classico, l'umanità poteva disporre di sette metalli: l'oro, l'argento, il rame, lo stagno, il piombo, il ferro e il mercurio, che una complicata filosofia poneva in relazione coi corpi celesti. Il nichelio, l'arsenico e l'antimonio, che si ritrovano in traccia e perfino in qualche unità percentuale come impurezze nei bronzi e nelle leghe di argento e d'oro, erano completamente sconosciuti allo stato elementare e provenivano dalla inconsapevole commistione con minerali di particolari provenienze. Bisogna attendere il tardo Medio Evo perché questo patrimonio metallurgico della umanità si arricchisca di nuove conoscenze.
4. - Particolare considerazione merita lo sviluppo storico delle metallurgie nell'Oriente Estremo; e ciò non tanto per una forse troppo favoleggiata precedenza di talune invenzioni cinesi su quelle occidentali, quanto per l'accertata presenza di tecniche autonome, per quanto derivate e perfezionate da un ceppo culturale certamente importato.
In realtà, le tecniche metallurgiche si iniziano in Cina con un ritardo relativamente notevole rispetto a quelle occidentali (Elam, Sumer), mentre mancano completamente i reperti che possano provare l'esistenza di una civiltà calcolitica precedente l'uso del bronzo. Gli storici sono generalmente concordi nel ritenere che la Civiltà del Bronzo fiorisca quasi improvvisamente in Cina all'epoca della dinastia Shang (1766-1122 a. C.), molto probabilmente per lo stanziamento di popolazioni provenienti da migrazioni dal lontano Luristan, attraverso gli altopiani, fino alle vallate del fiume Giallo. A queste migrazioni la Cina è debitrice, oltre che della metallurgia del bronzo, anche della importazione del cavallo e del suo impiego in guerra. I vasi rituali del periodo Shang-Yin (v. cinese, arte) sono realizzati con una tecnica affine alla "cera persa". I bronzi di questo periodo sono generalmente prodotti per riduzione simultanea di minerali di rame e di stagno e contengono inoltre una variabile, ma generalmente piuttosto elevata, percentuale di piombo, derivante anche dalla scarsa conoscenza della diversa individualità dei due metalli di alligazione (Pb e Sn).
Durante la dinastia Shang-Yin e la seguente dinastia Chou (1522-255 a. C.), la fusione del bronzo si sviluppa rapidamente e raggiunge un notevole grado di perfezionamento, come è dimostrato dalla complicata forma e decorazione dei vasi rituali, degli utensili e delle armi prodotti in questo periodo e giunti in numerosi esemplari fino a noi.
Durante l'epoca Chou appare il primo libro conosciuto di regole metallurgiche (Chou Li K'ao Kung Chi), che contiene, fra l'altro, le sei famose ricette per la preparazione del bronzo (Chin) (campane e vasi; accette e scuri; lance e alabarde; spade; punte di freccia; specchi); ricette, caratterizzate da un crescente contenuto di stagno in rapporto alla durezza richiesta dall'uso specifico.
All'epoca dei Regni Combattenti (481-221 a. C.) i Cinesi utilizzavano già il ferro e agli inizî della dinastia Han (206 a. C.-220 d. C.), il carbon fossile incomincia ad essere usato come combustibile e viene introdotto un dispositivo idraulico di soffieria, che consente di ottenere oltre che elevate temperature, la fusione del ferro carburato e la produzione dei primi esemplari al mondo di getti di ghisa, dei quali si conservano alcuni rari esempî. Contemporaneamente, si viene sviluppando la produzione dell'acciaio, soprattutto per la fabbricazione delle lame di spada che, trasferita nel vicino Giappone, doveva nei secoli seguenti, raggiungere uno sviluppo ed un perfezionamento senza precedenti anche nel mondo occidentale. Recenti scoperte, nel distretto di Hsin-lung, provincia di Jehol, di forme per fondere arnesi apicali in ferro, contrasseguate da iscrizioni, confermano una datazione remota del processo di fusione del ferro.
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