clinico, metodo
Storia del metodo clinico
Il metodo clinico fu praticato sin dall’antichità. La medicina ippocratica, ma anche le dottrine mediche coeve e successive, si basavano precisamente sull’osservazione dei singoli malati, ossia sulla raccolta di ogni possibile indicazione consentita dall’uso dei cinque sensi, per stabilire una prognosi o una diagnosi sul caso clinico in oggetto.
La pratica clinica cominciò ad assumere un profilo metodologico euristicamente valido con l’adozione di un approccio sperimentale da parte di Santorio Santorio (1561-1636) e di W. Harvey (1578-1657), e con l’acquisizione, a partire da T. Sydenham (1624-1689), del concetto che dietro la pluralità delle manifestazioni cliniche non si celava solo la variabilità individuale, ma soprattutto una pluralità della patologia dovuta a differenti processi morbosi. Una prima formulazione metodologica della clinica si trova in H. Boerhaave (1668-1738), per il quale il modo corretto di procedere consisteva nell’esaminare il malato, valutare la malattia e quindi elaborare una teoria. Sino alla fine del 18º sec. il metodo clinico si fondava comunque sull’osservazione esatta dei fenomeni e dei segni delle malattie, assumendo che il paragone fra le circostanze bastasse per stabilire le cause e disporre di ipotesi da confrontare coi fatti. Per il medico del Settecento la pratica clinica era soprattutto legata alla descrizione qualitativa dei fenomeni morbosi, con l’osservazione dei cambiamenti che intervengono nel corpo del malato e quindi la costruzione di complessi quadri nosologici in cui le malattie venivano concettualizzate come entità cliniche caratterizzate da specifiche configurazioni di sintomi e segni.
È G.B. Morgagni (1682-1771) a spostare, nel De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, l’enfasi dai sintomi e segni alla sede delle malattie introducendo un modo di pensare la malattia in chiave anatomica, dimostrando che le malattie sono localizzate in organi specifici, che i sintomi e i segni seguono le lesioni anatomiche e che questi cambiamenti morbosi dell’organismo sono responsabili della malattia. Ne conseguiva l’obiettivo metodologico di osservare accuratamente la natura, la serie, l’ordine e la costanza dei sintomi delle malattie, da mettere in relazione con le lesioni scoperte nel cadavere e con quanto aveva preceduto la malattia, per distinguere le lesioni che avevano prodotto la malattia da quelle che ne erano un effetto. I medici che operarono negli ospedali di Parigi negli ultimi decenni del Settecento e agli inizi dell’Ottocento poterono raffrontare diverse migliaia di malati e non più poche decine come nel caso di coloro che li avevano preceduti, e concepirono la possibilità di istituire una medicina clinica che aspirasse a essere un sapere universale. Essi cercarono di stabilire le classi di malattie paragonando i sintomi e i quadri clinici nei diversi malati, correlandoli sistematicamente con le lesioni anatomopatologiche. Il metodo anatomo-clinico aveva un inconveniente: solo dopo la morte del malato si poteva capire a che cosa corrispondevano segni e sintomi osservati al suo capezzale. La difficoltà venne aggirata con l’invenzione delle tecniche di esame fisico, come la percussione toracica inventata dal medico austriaco L. Auenbrugger (1722-1809) alla fine del 18º sec. e l’auscultazione mediata dallo stetoscopio da parte di R.T.H. Laennec, nel 1817. Il valore diagnostico dei segni veniva messo in dubbio via via che le autopsie dimostravano che molti di essi non erano affidabili, ossia che sintomi e segni erano variabili. L’esame clinico era basato sull’abilità soggettiva del medico e vi erano margini considerevoli di ambiguità nell’interpretazione dei segni. A questa difficoltà si cercò di rispondere con strumenti capaci di rappresentare il funzionamento degli organi in forma grafica o numerica, il che consentiva di trasformare le funzioni vitali da fenomeni controllabili in modo soggettivo in fatti oggettivi. Si aveva così una trascrizione oggettiva della patologia, equivalente alla scoperta di una lesione anatomica.
Alla fine del 19º sec. e agli inizi del 20º il metodo clinico andò incontro a una profonda trasformazione, stimolata anche dalla sfida epistemologica costituita dall’affermarsi del metodo sperimentale. L’utilizzazione di nuovi strumenti (tecnici, biochimici e radiologici) ridava speranza ai tentativi di costituzione della malattia come un universale a partire dall’osservazione dei pazienti, consentendo di sviluppare modelli sempre più articolati delle malattie. Questo processo è stato accompagnato dalla diffusione del metodo statistico in medicina e dall’incontro con la genetica. Dopo la Seconda guerra mondiale si è assistito all’applicazione dell’epidemiologia all’analisi dei problemi clinici, soprattutto quelli connessi alle fragilità del comportamento umano. I trial clinici controllati sono stati introdotti nel 1948, rimanendo una rarità nella letteratura medica fino agli anni Sessanta. Un impulso alla loro utilizzazione sistematica è venuto dal fatto che nel 1962 è diventata obbligatoria negli Stati Uniti la sperimentazione clinica per dimostrare la sicurezza e l’efficacia di un nuovo farmaco, come conseguenza della tragedia causata dalle prescrizione della talidomide alle donne gravide. Progressivamente l’epidemiologia clinica ha sviluppato metodi per valutare empiricamente l’efficacia di qualsiasi pratica medica e si è cominciato a incoraggiare i medici praticanti a consultare direttamente la letteratura scientifica per ottenere l’informazione su come trattare meglio i pazienti. Dagli anni Novanta il paradigma di riferimento del metodo clinico è l’Evidence Based Medicine (➔ EBM), che mira a standardizzare e a ottimizzare le procedure di scelta in medicina e in sanità pubblica a partire da un’accezione statistica della prova.